SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V
SENTENZA 12 gennaio 2016, n. 890
RITENUTO IN FATTO
G.F. era chiamato a rispondere, innanzi al Tribunale di Alessandria, dei reati di seguito indicati:
1) ai sensi dell’art. 81 cpv c.p., art. 2621 c.c. e L. Fall., art. 223, perchè, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, agendo quale amministratore unico della società E.S.B. – Euro Swap Bodies s.r.l., con sede in (OMISSIS), dichiarata fallita dal Tribunale di Alessandria con sentenza del 21 dicembre 2006, al fine di ingannare il pubblico (in particolare gli enti creditizi ed i terzi contraenti della società) e di conseguire per la società predetta un ingiusto profitto, nei bilanci relativi agli esercizi dal 2002 al 2005, esponeva fraudolentemente, in modo idoneo ad ingannare i destinatari sulla reale situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società, fatti non corrispondenti al vero ovvero ometteva informazioni necessarie sulla situazione predetta. In particolare:
– il conto soci e/finanziamenti è stato portato in detrazione dei crediti della società per rilevanti importi, anzichè essere esposto tra i debiti della stessa;
– al fondo svalutazione crediti non erano appostate somme di importo idoneo a fronteggiare i rischi di inadempimento nè erano effettuate adeguate svalutazioni dei crediti scaduti o incagliati, nonostante l’enorme massa di crediti siffatti, che sono stati svalutati, nel gennaio 2006, per l’importo complessivo di Euro 1.642.764,10;
– nel bilancio relativo all’esercizio 2002 risulta un finanziamento soci fittizio pari a Euro 409.653,41;
– nel bilancio relativo all’esercizio 2003 risulta un finanziamento soci fittizio pari a Euro 39.326,29 ed un’omessa contabilizzazione dei ricavi per Euro 40.000;
– nel bilancio relativo all’esercizio 2004 risulta un finanziamento soci fittizio pari a Euro 149.814,23 ed un’omessa contabilizzazione di ricavi per _ 53.820;
e concorreva a cagionare il dissesto della società (con la condotta evidenziata, infatti, era impedita l’emersione tempestiva di perdite del capitale sociale o della completa erosione di esso, che avrebbero determinato l’adozione delle misure di cui agli artt. 2446 e 2447 cod. civ., ovvero il ripianamento delle perdite e la ricostituzione del capitale o l’immediata messa in liquidazione della società, con una riduzione dei danni a terzi e del passivo).
2) Ai sensi della L. Fall., artt. 216 e 223, perchè, agendo nella qualità di cui al capo 1, distraeva e dissipava beni sociali. In particolare:
non consegnava al curatore del fallimento il fondo cassa pari a Euro 13.166,91 risultante dall’ultimo saldo contabile alla data del 2 agosto 2006;
effettuava o comunque acconsentiva prelievi nelle casse sociali a favore dei soci di danaro poi non destinato a scopi sociali, per un importo pari almeno a Euro 220.952,71, per l’esercizio 2002, Euro 196.198,11 per l’esercizio 2003 e Euro 2898,37 per l’esercizio 2006;
vendeva beni sociali, nella fattispecie casse mobili, ad un unico cliente, nel 2004 per Euro 130.999,81 e nel 2006 per Euro 150.500,00, non riscuotendone il credito relativo alla prima cessione effettuata quando la società doveva considerarsi già in stato di insolvenza, integralmente svalutato il 31 gennaio 2006, nè quello relativo alla seconda cessione, effettuata peraltro pochi giorni prima che il credito relativo alla prima fosse integralmente svalutato.
Con sentenza del 15 giugno 2009 il Gup del Tribunale di Alessandria, pronunziando con le forme del rito abbreviato, ritenuto il vincolo della continuazione tra i reati contestati e previa concessione delle attenuanti generiche, dichiarava G.F. responsabile dei reati a lui ascritti e – previa concessione delle attenuanti generiche – lo condannava alla pena di anni due di reclusione, oltre consequenziali statuizioni.
Pronunciando sul gravame proposto nell’interesse dell’imputato, la Corte d’appello di Torino, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della pronuncia impugnata, assolveva l’imputato dal reato di cui al capo 1), limitatamente all’omessa consegna al curatore del fondo cassa, con formula perchè il fatto non sussiste; e, valutate le già concesse attenuanti generiche come prevalenti sull’aggravante di cui di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, ritenuta contestata in fatto, rideterminava la pena nella misura di anni uno e mesi quattro di reclusione; con ulteriori statuizioni di legge e conferma nel resto.
Avverso l’anzidetta pronuncia il difensore dell’imputato, avv. Carlo Porrati, ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura di seguito indicate.
Con il primo motivo si denuncia inosservanza od erronea applicazione dell’art. 2621 cod. civ. e L. Fall., artt. 216 e 223, e mancanza o manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e).
Si contesta, in particolare, la valutazione delle risultanze processuali con specifico riferimento all’addebito di mancata appostazione di somme di importo idoneo a fronteggiare i rischi di inadempimento ed alla mancata, adeguata, svalutazione dei crediti scaduti od incagliati.
Si osserva, in proposito, che i crediti esposti in bilancio erano reali, donde l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato in questione, ai sensi della L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, in rapporto all’art. 2621 cod. civ., che richiedeva la ‘esposizione dei fatti materiali non rispondenti al vero’.
La nuova formulazione del citato art. 2621 c.c., rispetto alla precedente versione, non fa più riferimento ai ‘fatti’, ma precisa che deve trattarsi di ‘fatti materiali’ non rispondenti al vero; con esclusione, quindi, delle ‘mere valutazioni’. Le valutazioni estimative (quali, ad esempio, il valore dì un immobile od il presumibile valore di realizzo di un credito o di un brevetto) di per sè non sarebbero punibili, ma lo diventano solo se – e quando – si riferiscano a fatto materiale non rispondente al vero, sicchè non rileva l’errato apprezzamento del valore di realizzo di un credito effettivo. Non è, dunque, pertinente il richiamo della sentenza impugnata al precedente giurisprudenziale (Sez. 5 n. 8084/2000), proprio perchè anteriore alla riforma del D.Lgs. n. 61 del 2002.
L’altro precedente giurisprudenziale indicato dalla sentenza impugnata (Sez. 1 n. 42116/2013) conferma, sostanzialmente, l’assunto difensivo: il reato può sussistere solo se è provato che siano stati indicati nell’attivo patrimoniale crediti sicuramente irrealizzabili.
Il giudice di appello non ha indicato alcuna prova che, già anteriormente al gennaio 2006, i crediti in parola fossero, con certezza, irrealizzabili nè valgono a supplire mere congetture in relazione ai tempi di riscossione dei crediti. Donde, l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato in contestazione.
In ogni caso, è insussistente l’elemento soggettivo, atteso che il giudice di appello, al di là di mere congetture, non ha indicato alcuna prova dimostrativa che l’imputato avesse, all’epoca, conoscenza dell’insolvibilità dei suoi clienti; nè, tantomeno, h indicato alcuna prova dimostrativa che lo stesso, pur essendo a conoscenza dell’inesigibilità, non abbia effettuato adeguata svalutazione dei crediti, con il dolo specifico di ingannare il pubblico e di conseguire per la società un ingiusto profitto.
Con il secondo motivo si denuncia mancanza o, comunque, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), con riferimento all’indicazione di voci fittizie, con riguardo all’appostazione di finanziamenti soci, alla quale avrebbe dovuto far riscontro, in regime di ‘partita doppia’, correlata appostazione dal lato opposto dello stato patrimoniale.
Non è stato considerato, inoltre, che le fatture relative alle operazioni contestate esistevano realmente, così come riconosciuto dal consulente del Pm dott. R.. I pagamenti erano stati, peraltro, effettuati tramite banca, a mezzo ricevute bancarie e, quindi, erano documentate, effettive ed incontestabili; e tanto risultava per tabulas dagli estratti conto acquisiti agli atti.
Il giudice d’appello ha redatto una motivazione meramente apparente e, comunque, non vi è stato contraddittorio sul punto.
Non c’era stata alcuna dolosa omessa contabilizzazione e la fattura, emessa dalla società nei confronti della CCFC per Euro 43.200,00, era stata regolarmente pagata con ricevuta bancaria, il cui importo era stato anticipato dai soci e, quindi, correttamente era stato movimentato il conto soci c/finanziamenti.
Erronea, inoltre, era stata la valutazione in ordine all’eccedenza dei prelievi-soci rispetto ai versamenti-soci, in quanto il presupposto fattuale era del tutto privo di riscontro probatorio.
Con il terzo motivo si denuncia mancanza e, comunque, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alla ritenuta distrazione o dissipazione di beni sociali – nella fattispecie casse mobili – mediante loro vendita ad un unico cliente (la Transital Limited), nel 2004, per Euro 130.999,81 e, nel 2006, per Euro 150.500,00, senza riscuotere nè il corrispettivo della prima cessione – asseritamente effettuata quando la società doveva considerarsi già in stato di insolvenza – nè quello della seconda cessione.
Anche sul punto il giudice di appello era incorso nel vizio di mancanza di motivazione, recependo, pedissequamente, le errate affermazioni del consulente del Pm., ancorchè le relative affermazioni fossero smentite dalla contabilità della società fallita acquisita agli atti. Anzi, a precise contestazioni della difesa, lo stesso consulente avesse riconosciuto, in sede di esame dibattimentale, gli errori in cui era incorso.
L’affermazione del giudice di appello secondo cui, a fronte della vendita di casse mobili del 2004 per Euro 130.999,81, non risultasse emessa alcuna fattura era smentita dall’acquisita contabilità, che non era stata considerata, così come non erano state valutate le dichiarazioni del dott. M.M., commercialista incaricato della tenuta della contabilità. Era emerso, in particolare, che la consegna dei documenti contabili aveva luogo, per disguido o mera dimenticanza, con un certo ritardo, sicchè, di conseguenza, anche le registrazioni contabili erano intempestive. Il giudice di appello non aveva neppure considerato le allegate fatture Transital, accluse al ricorso.
Con il quarto motivo si denuncia inosservanza dell’art. 597 c.p.p., comma 3, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).
Il giudice a quo, nel riformare la sentenza di primo grado, aveva applicato d’ufficio la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale e dell’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, sostenendo che l’art. 597, comma 3, non contemplerebbe tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello, in ipotesi di impugnazione proposta dal solo imputato, quelli concernenti le pene accessorie.
L’assunto era, però, in contrasto con un orientamento giurisprudenziale di legittimità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso pone il quesito di diritto se, a seguito della novella dell’art. 2621 cod. civ., ad opera della L. 27 maggio 2015, n. 69, art. 9 il falso c.d. valutativo o ‘qualitativo’ rientri, tuttora, nella sfera di punibilità delle false comunicazioni sociali, con le ovvie implicazioni anche sul versante della configurabilità della c.d. fattispecie impropria da reato societario, di cui alla L. Fall., art. 223, per l’ipotesi in cui il reato presupposto sia proprio quello di cui al citato 2621 c.c..
La fattispecie oggetto di giudizio riguarda, in particolare, la dissimulata esistenza di un’enorme quantità di crediti ‘incagliati’ – ossia in sofferenza e, di fatto, oramai inesigibili – nella ragguardevole misura del 62% del totale e per un importo complessivo, come da successiva svalutazione, di Euro 1.642.764,10.
Tale condizione di sostanziale inesegibilità, significativamente rivelata già dall’indicazione di un tempo medio d’incasso progressivamente crescente, sino a valori abnormi (188 giorni nel 2001, 235 giorni nel 2002, 493 giorni nel 2003, 6.024 giorni nel 2005), era stata non solo sottaciuta, ma artatamente simulata, attestandosi nelle relazioni ai bilanci del 2002, 2003, e 2004 che i crediti ed i debiti sono valorizzati al valore di realizzo, in quanto, per ciò che concerne i crediti, si tratta di uno stock fisiologico dovuto alle normali tempistiche di pagamento e non vi sono dubbi sulla solvibilità delle ditte nostre debitrici.
Insomma, a fronte dell’incontestabile realtà di crediti della cui inesigibilità si era pienamente avvertiti, l’indicazione in bilancio di improbabile valore di realizzo (in luogo dell’iscrizione secondo il presumibile valore di realizzo come prescritto dall’art. 2426 c.c., n. 8) ed il mancato ricorso alla tempestiva svalutazione, con regolare appostazione nel fondo svalutazione crediti, integravano artificiosa rappresentazione, mediante mendace esposizione – e, finanche, ‘occultamento’ (sotto lo specifico riflesso della detta inesegibilità) – di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società.
Insomma, in siffatta prospettiva era, ovviamente, del tutto irrilevante la reale esistenza delle ragioni creditorie, non essendo in discussione il fatto materiale della relativa sussistenza, quanto, piuttosto, la falsa rappresentazione, nei successivi bilanci di esercizio, di un valore di realizzo sempre più problematico ed inverosimile nonchè l’occultamento della sostanziale inesegibilità.
L’inveritiera esposizione delle componenti positive di reddito, in uno ad altri ‘artifici’ contabili, era finalizzata a consentire alla società di continuare ad offrire (ai fornitori ed agli istituti di credito) una falsa, rassicurante, rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria, continuando, in particolare, a mascherare continui, ingiustificati, prelievi dalle casse sociali. Il progressivo ‘drenaggio’ di risorse della società, anche quando la stessa versava, oramai, in stato di irreversibile sofferenza, aveva contribuito ad aggravarne il dissesto, che avrebbe, invece, imposto l’immediato ricorso ai rimedi di legge.
Nel sostenere la tesi della non punibilità del falso ‘valutativo’, in base alla nuova formulazione dell’art. 2621 cod. civ., il ricorrente ha fatto espresso richiamo a recente pronuncia di questa Corte di legittimità (Sez. 5, n. 33774 del 16/06/2015, Crespi, Rv.264868).
L’assunto non può, però, essere condiviso per le ragioni che si andrà ad esporre.
Giova, intanto, premettere che la ‘novella’ ha profondamente inciso sulla precedente fisionomia della fattispecie delle false comunicazioni sociali, prima articolata – in una sorta di progressione criminosa – in due distinte ipotesi (la prima, prevista dall’originario art. 2621 cod. civ., in termini di reato contravvenzionale; la seconda come reato di danno).
Sono, ora, previste due distinte tipologie di reato, a seconda che si tratti di società non quotate (odierno art. 2621 cod. civ.) o quotate (nuovo art. 2622 cod. civ.), entrambe concepite come delitti di pericolo, punibili di ufficio. Incisivo è stato l’intervento sulla stessa morfologia dell’illecito, mediante l’eliminazione delle soglie di punibilità; mentre, quanto all’elemento soggettivo, alla rimozione dell’inciso con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico ha fatto riscontro l’impiego dell’avverbio ‘consapevolmente’, ferma restando la necessità del dolo specifico (al fine di procurare per sè o per altro un ingiusto profitto (Sez. 5, n. 37570 del 08/07/2015, Rv. 265020).
Sono stati, inoltre, introdotti due nuovi articoli, e cioè gli artt. 2621-bis e 2621-ter cod. civ..
Il primo prevede una diminuzione di pena, ove i fatti di cui all’art. 2621 siano di lieve entità, tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta; e prevede, altresì, lo stesso regime sanzionatorio per i fatti di cui allo stesso art. 2621 cod. civ. (salvo che costituiscano più grave reato), riguardanti società che non superino i limiti indicati dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, comma 2 stabilendo, in ipotesi siffatta, la procedibilità a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale.
L’art. 2621-ter cod. civ. stabilisce, invece, la non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., qualora il giudice valuti in modo prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli artt. 2621 e 2621-bis.
E’ noto che la nuova formulazione letterale dell’art. 2621 cod. civ. (che sanziona l’esposizione nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, (…) fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero nell’omettere fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore) costituisce l’epilogo di un processo di continua trasformazione nel tempo del dato positivo.
Nell’evoluzione storica del testo si è, infatti, passati dalla locuzione ‘fatti falsi’ che figurava nel codice di commercio Zanardelli del 1882 a quella fatti non rispondenti al vero introdotta dal legislatore del 1942, per giungere, poi, alla formula utilizzata dal D.Lgs. n. 61 del 2002 fatti materiali non rispondenti al vero ancorchè oggetto di valutazioni (usata anche nella formulazione del delitto di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza, di cui all’art. 2638 cod. civ.); da ultimo ridisegnata dalla L. n. 69 del 2015 nei termini riferiti, ossia fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero, mediante elisione dell’inciso ‘ancorchè oggetto di valutazione’ ed aggiunta dell’aggettivo ‘rilevanti’ al sintagma fatti materiali.
La quaestio iuris indicata in premessa è insorta proprio a seguito del menzionato intervento ‘ortopedico’ sulla pregressa formulazione, risolvendosi nello specifico interrogativo se la soppressione dell’inciso possa spiegare rilevanza sul versante sostanziale, comportando l’espunzione dall’alveo dei fatti punibili di quelli ‘valutativi’ (rectius di ‘quelli oggetto di valutazione’).
Orbene, sono noti i termini dell’acceso dibattito dottrinario e giurisprudenziale che si è agitato attorno alle formule di volta in volta usate dal legislatore, segnatamente sulla valenza semantica della locuzione ‘fatti materiali’.
Reputa il Collegio che non sia il caso di ripercorrere i punti salienti della querelle, in quanto indagini retrospettive possono assumere valore meramente indicativo e, ad ogni modo, marginale, così come valore solo relativo possono avere quelle che evocano i lavori preparatori. Ed infatti, l’interpretazione deve, primariamente, confrontarsi con il dato attuale, nella sua pregnante significazione, e con la voluntas legis quale obiettivizzata e ‘storicizzata’ nel testo vigente, da ricostruire anche sul piano sistematico – nel contesto normativo di riferimento – senza che possano assumere alcun valore le contingenti intenzioni del legislatore di turno.
L’esegesi della norma dovrà, ovviamente, essere condotta secondo gli ordinari canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, secondo cui nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore, quest’ultima da intendersi – per quanto si è detto – in termini rigorosamente oggettivi, come volontà ‘consacrata’ nel dettato normativo.
Solo in via sussidiaria, in caso di ambiguità del dato testuale, è consentito il ricorso ad altri parametri interpretativi di supporto.
Nel caso di specie, opina il Collegio che all’ineludibile indagine testuale debba associarsi il richiamo al canone logico-sistematico ed a quello teleologico, ai fini della compiuta focalizzazione dell’impatto della novella sull’assetto normativo preesistente.
Sul primo versante, non v’è dubbio che l’indagine letterale sconti, come di consueto, un quid di relativismo per la non sempre ineccepibile formulazione della struttura espositiva, talora persino in rapporto all’ortodossia sintattico-grammaticale. Tale approssimazione è, notoriamente, frutto non solo di scarso tecnicismo, ma anche della complessità della stessa procedura di elaborazione del testo delle leggi, sovente effetto di successive modifiche ed emendamenti, nel perseguimento di problematici equilibrismi strategici e compromissori, che, a volte, finiscono con lo stravolgere il significato inizialmente concepito.
Nondimeno, nel caso di specie, non sembra revocabile in dubbio che la rimozione dal testo previgente della locuzione ‘ancorchè oggetto di valutazioni’ non possa, di per sè, assumere alcuna decisiva rilevanza.
Quella in esame, infatti, è tipica proposizione ‘concessiva’ introdotta da congiunzione (ancorchè) notoriamente equipollente ad altre tipiche e similari (‘sebbene’, ‘benchè’, ‘quantunque’, ‘anche se’ et similia). Ed è risaputo che una proposizione siffatta ha finalità ancillare, meramente esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale. Nel caso di specie, il suo precipuo significato si coglie in funzione della precisazione – ritenuta opportuna, onde fugare possibili dubbi (agitati in sede interpretativa) – che nei ‘fatti materiali’ oggetto di esposizione nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, sono da intendersi ricompresi anche quelli oggetto di valutazione.
La proposizione concessiva ha, dunque, funzione prettamente esegetica e, di certo, non additiva, di talchè la sua soppressione nulla può aggiungere o togliere al contesto semantico di riferimento.
Conseguentemente, nel caso di specie, l’elisione di una proposizione siffatta non può, certo, autorizzare la conclusione che si sia voluto immutare l’ambito sostanziale della punibilità del falsi materiali, che, invece, resta impregiudicata, continuando a ricomprendere, come in precedenza, anche i fatti oggetto di mera valutazione. In sostanza, l’intervento in punta di penna del legislatore ha inteso ‘alleggerire’ il precipitato normativo, espungendo una precisazione reputata superflua, siccome mera superfetazione linguistica.
4.1. Non appena si abbandoni, poi, il piano prettamente testuale, per volgere lo sguardo al versante logico-sistematico, è dato cogliere appieno l’ininfluenza della rimodulazione normativa.
D’altro canto, un’indagine esclusivamente testuale, nella ricerca del più appropriato significato della locuzione ‘fatti materiali rilevanti’, secondo la comune accezione dei termini usati, sarebbe inconferente e, persino, erronea.
Ed invero, a giudizio della Corte, le interpretazioni che, di volta in volta, si sono impegnate nell’analisi della formulazione linguistica, secondo la comune accezione dei lemmi che la compongono, sono incorse in macroscopico errore di prospettiva, non considerando che ‘materiali e rilevanti’ sono termini squisitamente ‘tecnici’ e non comuni, siccome frutto di mera trasposizione letterale di formule lessicali in uso nelle scienze economiche anglo-americane e, soprattutto, nella legislazione comunitaria, la cui originaria matrice non può, certamente, ritenersi dissolta nella detta traslazione.
Non fosse altro perchè la disciplina civilistica del bilancio e delle altre comunicazioni sociali ha – già di per sè – connotazione eminentemente tecnica e non può, dunque, non avvalersi di strumenti linguistici propri della scienza contabile od aziendalistica, anche d’oltre confine. Anzi, con riferimento alla normazione comunitaria, l’uso di lemmi corrispondenti è quasi imposto dall’obbligatoria osservanza delle direttive in materia, ove recepite nel nostro sistema giuridico, considerato che obiettivo primario delle stesse è quello di armonizzare – pure sul piano propriamente lessicale – gli ordinamenti interni degli Stati membri, anche attraverso l’impiego di schemi di bilancio comuni, onde agevolare la comparazione del principale veicolo di informazione ed il relativo esame da parte di una più vasta platea di destinatari, coincidente con l’intero bacino comunitario.
Per questo, l’individuazione della significazione precipua dei termini materiali e rilevanti non può prescindere dal richiamo ai contesti in cui gli stessi sono maturati e da cui sono stati recepiti.
4.2. Ed allora, la qualificazione materiale si riconnette al concetto tecnico di materialità (o materiality), che, da tempo, gli economisti anglo-americani hanno adottato come criterio fondamentale di redazione dei bilanci di esercizio ed anche della revisione.
Esula, di certo, dalle esigenze del presente giudizio l’approfondimento delle diverse prospettazioni dottrinarie sulla nozione di materialità e sui criteri (qualitativi o quantitativi) cui deve ispirarsi la relativa ‘concretizzazione’, nella fase sia della redazione del bilancio che della sua revisione. Basterà osservare, al riguardo, che, al di là di espressa formalizzazione nei diversi ordinamenti giuridici nazionali, il principio della materialità è universalmente riconosciuto come criterio-guida, nella redazione del bilancio, dalle prassi contabili di tutti i paesi più evoluti, secondo le indicazioni di autorevoli organismi internazionali di settore.
Pur nella diversità di sfumature in cui è usato, può affermarsi – con apprezzabile margine di approssimazione – che il termine è, sostanzialmente, sinonimo di essenzialità, nel senso che, nella redazione del bilancio, devono trovare ingresso – ed essere valutati – solo dati informativi ‘essenziali’ ai fini dell’informazione, restandone al di fuori tutti i profili marginali e secondari.
E’ pacificamente riconosciuto che il principio della materialità è strettamente correlato a quello fondamentale – caratterizzante la legislazione comunitaria – della true and fair view (espressamente menzionato nell’art. 2, comma 3, della 4^ direttiva CEE sul bilancio d’esercizio e nell’art. 16, comma 3, della 7^ Direttiva CEE sul bilancio consolidato), che è stato tradotto dal nostro legislatore, nell’art. 2423 cod. civ., con l’espressione rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio. Si ritiene, cioè, che soltanto le informazioni essenziali siano coerenti con l’idea di una rappresentazione adeguata e realmente efficace, specie in diretta connessione con il suo fine precipuo (che è quello di informare i terzi, utilizzatori del bilancio, sulle reali condizioni economico-finanziarie della società, al fine di orientarne correttamente le scelte operative, in modo consapevole e responsabile).
In termini, di certo, condivisibili si è osservato in dottrina che il principio in questione, implicito nella formulazione della c.d.clausola generale della chiarezza e veridicità del bilancio, di cui al menzionato art. 2423 cod. civ., deve, in fondo, ritenersi immanente nel nostro sistema giuridico e, di fatto, già presente nelle pieghe della disciplina codicistica, traducendosi nei postulati dell’opportunità e dell’efficienza.
Anzi, il principio – secondo alcuni – sarebbe diretta derivazione della tradizione giuridica romana, discendendo dal brocardo ‘de minimis non curat praetor’, a significazione del fatto che, come il giudice non deve occuparsi delle cose di poco conto, così il contabile e l’analista finanziario devono interessarsi solo dei dati fondamentali e di particolare momento, tralasciando tutto quanto sia di insignificante rilievo.
4.3. Allo stesso modo l’aggettivo ‘rilevante’ è di stretta derivazione dal lessico della normativa comunitaria, riconnettendosi al concetto di rilevanza sancito dall’art. 2, punto 16, della Direttiva 2013/34/UE (relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recepita nel nostro ordinamento con D.Lgs. 14 agosto 2015, n. 136, entrato in vigore il 16/09/2015), che definisce ‘rilevante’ lo stato dell’informazione quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell’impresa, con la precisazione che la rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe.
Il concetto di ‘rilevanza’ (al pari della materialità) deve, dunque, essere apprezzato in rapporto alla funzione precipua dell’informazione, cui sono preordinati i bilanci e le altre comunicazioni sociali dirette ai soci ed al pubblico, nel senso che l’informazione non deve essere ‘fuorviante’, tale, cioè, da influenzare, in modo distorto, le decisioni degli utilizzatori.
Ulteriori specificazioni del concetto si leggono all’art. 6, par. 1, lett. j) della stessa direttiva, ove è stabilito che non occorre rispettare gli obblighi di rilevazione, valutazione, presentazione, informativa e consolidamento previsti dalla presente direttiva quando la loro osservanza abbia effetti irrilevanti) ed al punto 17 del considerando ove è detto che il principio della rilevanza dovrebbe regolare la rilevazione, la valutazione, la presentazione, l’informativa e il consolidamento nei bilanci.
Dall’insieme di tali prescrizioni – recepite nel nostro ordinamento con appositi atti normativi – può trarsi la conclusione che è stato normativamente introdotto nel nostro sistema un nuovo principio di redazione del bilancio, ossia quello della rilevanza.
‘Materialità’ e ‘rilevanza’ dei fatti economici da rappresentare in bilancio costituiscono, allora, facce della stessa medaglia ed entrambe sono postulato indefettibile di ‘corretta’ informazione, sicchè le aggettivazioni materiali e rilevanti, ben lungi dal costituire ridondante endiade, devono trovare senso compiuto nella loro genesi, finalisticamente connessa – per quanto si è detto – alla funzione precipua del bilancio e delle altre comunicazioni sociali, quali veicoli di informazioni capaci di orientare, correttamente, le scelte operative e le decisioni strategiche dei destinatari. Ed in tanto l’orientamento può essere ‘corretto’ ed adeguato, in funzione di opzioni davvero consapevoli e responsabili, in quanto l’informazione, oltrechè veritiera, sia anche ‘immediata’, nella sua essenzialità, e significativa.
4.4. In siffatta prospettiva ermeneutica anche il lemma fatto non può essere inteso nel significato comune, ossia come fatto/evento del mondo fenomenico, quanto piuttosto nell’accezione tecnica, certamente più lata, di dato informativo della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni, obbligatorie per legge, sono destinati a proiettare all’esterno. In proposito, inutilmente si cercherebbe di trarre spunto, sul piano esegetico, dalla soppressione – intervenuta nel corso dei lavori preparatori – del termine informazioni (che figurava nell’art. 4 del disegno di L. 15 marzo 2013, n. 19), ripristinando l’originario lemma fatti, o dalla stessa sostituzione del termine ‘informazioni’, assunto ad oggetto della condotta omissiva nella previgente formulazione dell’art. 2621 cod. civ., con l’attuale sintagma fatti materiali rilevanti.
E’ agevole osservare, al riguardo, che il sostantivo informazioni sarebbe stato persino superfluo in un contesto comunicativo (bilancio ed altre comunicazioni sociali) che si sostanzia null’altro che di informazione.
L’utilizzo del termine fatti non è casuale, non solo per la più ampia accezione in cui deve essere inteso (in un insieme eminentemente tecnico), tale da ricomprendere tutti gli elementi di pertinente informazione, ma soprattutto per la sua flessibilità, in quanto utilmente spendibile in riferimento non solo al bilancio, ma anche alle altre, obbligatorie, comunicazioni sociali.
Anzi, se – a stretto rigore – in riferimento al bilancio il termine in esame può anche apparire di dubbia pertinenza (posto che nel bilancio ciò che rileva non è tanto il fatto in sè, quanto piuttosto il dato espresso dalla elaborazione anche valutativa dello stesso fatto e la conseguente, sua, traduzione in grandezza numerica: cfr. anche art. 2427 c.c., n. 1, secondo cui la nota integrativa deve, tra l’altro, indicare ‘i criteri applicati nella valutazione delle voci di bilancio), risulta, invece, quanto mai appropriato per le altre comunicazioni, nelle quali devono trovare esposizione anche fatti strido sensu, ossia gli eventi di gestione, intervenuti nel corso dell’esercizio od anche successivamente alla relativa chiusura, di segno positivo o negativo, comunque influenti – siccome essenziali e rilevanti, in chiave contabile/aziendalistica – sulla rappresentazione della situazione economico-finanziaria della società e del risultato economico di esercizio.
E l’aggettivo ‘rilevante’ finisce, così, con l’essere dato linguistico rafforzativo della necessità di significazione in quella direzione finalistica e, al tempo stesso, ‘selettivo’, per tenere fuori della piattaforma d’indagine tutti gli aspetti secondari e marginali – anche espressione di meri apprezzamenti, pronostici, proiezioni e congetture – o, comunque, privi di ragionevole rilievo.
La mancata riproposizione dello stesso aggettivo nell’individuazione delle condotte commissive necessarie ai fini del reato di cui all’art. 2622 cod. civ. in tema di società quotate – salvo a non voler pensare a non improbabile svista del legislatore – può trovare verosimile giustificazione alla luce del particolare (e più rigoroso) regime di garanzia cui è sottoposta quella peculiare tipologia societaria (oltre all’obbligo del previo controllo del bilancio da parte di società di revisione).
4.5. Certo, è innegabile che i concetti di ‘materialità’ e ‘rilevanza’ siano indeterminati, essendosi ben guardato il legislatore dal puntualizzarne l’ambito applicativo, operazione, del resto, assai ardua e forse impossibile stante la complessità del bilancio e delle correlate comunicazioni, la varietà di schemi rappresentativi e la molteplicità degli interessi sottesi alla loro redazione.
La formulazione in termini volutamente generici ed indeterminati demanda, allora, al giudice il compito di specifica determinazione in riferimento alle concrete fattispecie al suo esame, onde accertare se i fatti, di cui si assuma la falsa rappresentazione, siano o meno materiali e rilevanti. Indagine che non può, comunque, ritenersi arbitraria, in quanto, pur se irrefutabilmente discrezionale, attiene pur sempre ad ambito di discrezionalità ‘tecnica’, parametrabile sulla base degli ordinari dettami delle scienze contabili ed aziendalistiche. Ma, ancor prima di tali specialistici parametri, il criterio guida è offerto dalla stessa clausola generale prevista dall’art. 2423 cod. civ., comma 2 e dal combinato disposto delle nuove disposizioni penali.
Ed invero, i fatti possono dirsi essenziali e rilevanti solo nella misura in cui riescano a rendere una rappresentazione corretta e veritiera della situazione economico-finanziaria della società, in diretta connessione con il fine primario di orientare responsabilmente le scelte degli operatori (pubblico: risparmiatori, istituti di credito ed altri interessati; e soci). Sicchè la mera potenzialità al distorto condizionamento, da apprezzarsi ex ante, costituisce il parametro primario di giudizio, da condursi – come si conviene ad ogni apprezzamento di merito – secondo canoni di buon senso e ragionevolezza.
Il combinato disposto delle nuove norme penali vale, poi, a dimostrare come anche il legislatore abbia, di fatto, applicato proprio il criterio della ‘rilevanza’.
Quanto mai significativo, in particolare, è il riferimento alle norme di cui ai nuovi art. 2621-bis (Fatti di lieve entità), che prevede una diminuzione di pena ove i fatti di cui all’art. 2621 siano di lieve entità, tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta e nel caso in cui i fatti di cui all’art. 2621 riguardino società che non superino i limiti indicati dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, comma 2 ai fini della fallibilità; e art. 2621-ter (Non punibilità per particolare tenuità), che stabilisce che, ai fini dell’applicabilità, in materia, della causa di non punibilità per particolare tenuità di cui all’art. 131-bis c.p., il giudice deve tener conto, in modo prevalente, (ndr. del…) l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli artt. 2621 e 2621-bis.
L’utilizzo del criterio della rilevanza fa anche da contrappeso all’eliminazione delle soglie di punibilità e del riferimento alle valutazioni estimative (che figurava nella precedente formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ.), per riaffermare il potere discrezionale del giudice in materia di accertamento del coefficiente di significatività (nel senso anzidetto) della falsa rappresentazione, da apprezzarsi in concreto al di là di ogni predeterminazione positiva in termini quantitativi.
Venendo, ora, al tema specifico del falso, nulla quaestio – alla stregua delle superiori considerazioni – per la falsità riguardante gli enunciati descrittivi, ossia le mendaci esposizioni in bilancio, nelle allegate relazioni od in altre obbligatorie comunicazioni, di ‘fatti di rilievo’ (nel senso anzidetto) verificatisi nel corso della gestione o quant’altro di interesse nella logica della corretta informazione.
Sulla scorta dell’ovvia precisazione che ‘falso’, però, non può mai essere un ‘fatto’ (perchè il fatto o esiste o non esiste nella realtà), ma solo la rappresentazione che di esso è data, è agevole la conclusione che l’occultamento ovvero l’esposizione non rispondente al vero di dati ‘rilevanti’ in enunciati descrittivi integra, certamente, l’ipotesi della falsità prevista dall’art. 2621 c.c..
Il problema – costituente il tema d’indagine preannunciato in premessa – riguarda il falso c.d. valutativo o qualitativo, ossia la falsa rappresentazione del fatto oggetto di valutazione. Ma se è indiscusso che solo gli enunciati informativi possono dirsi falsi, è ormai universalmente riconosciuto che il significato di un qualsiasi enunciato dipende dall’uso che se ne fa nel contesto dell’enunciazione, sicchè non è la sua struttura linguistica bensì la sua destinazione comunicativa ad assegnare una possibile funzione informativa a un qualsiasi enunciato.
Orbene, è risaputo che il bilancio – principale strumento di informazione – si compone, per la stragrande maggioranza, di enunciati estimativi o valutativi, frutto di operazione concettuale consistente nell’assegnazione a determinate componenti (positive o negative) di un valore, espresso in grandezza numerica.
Si tratta, per vero, di attività prettamente speculativa e valutativa, al pari di ogni altra che esprima giudizi di valore.
Non può, allora, dubitarsi che nella nozione di rappresentazione dei fatti materiali e rilevanti (da intendere nelle accezioni anzidette) non possano non ricomprendersi anche – e soprattutto – tali valutazioni.
Se ‘fatto’ lato sensu è il dato informativo e se ‘materiali e rilevanti’ sono soltanto i dati oggetto di informazioni essenziali e significative, capaci di influenzare le opzioni degli utilizzatori, anche le valutazioni, ove non rispondenti al vero, sono in grado di condizionarne, negativamente, le scelte strategiche ed operative.
Sicchè, sarebbe manifestamente illogico escluderle dal novero concettuale delle rappresentazioni, potenzialmente ‘false’, di fatti essenziali e rilevanti, in funzione di compiuta – e corretta – informazione.
Certo, la rappresentazione di un fatto – talora anche quando meramente descrittiva od enunciativa – reca in sè un indefettibile coefficiente di soggettività e, dunque, di opinabilità, quantomeno in ordine alla selezione degli elementi effettivamente rilevanti.
Sicchè, quando la rappresentazione valutativa debba parametrarsi a criteri predeterminati, dalla legge ovvero da prassi universalmente accettate, l’elusione di quei criteri – od anche l’applicazione di metodiche diverse da quelle espressamente dichiarate – costituisce falsità nel senso di discordanza dal vero legale, ossia dal modello di verità ‘convenzionale’ conseguibile solo con l’osservanza di quei criteri, validi per tutti e da tutti generalmente accettati, il cui rispetto è garanzia di uniformità e di coerenza, oltrechè di certezza e trasparenza.
Il tema delle false valutazioni in bilancio presenta, indubbiamente, affinità concettuale con la materia del falso ideologico, in relazione al quale l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria è, da tempo, giunta a significativi approdi, che possono essere utilmente richiamati in questa sede.
In proposito, è indiscusso insegnamento di questa Corte di legittimità che, anche la valutazione, quando non corrisponda al vero, possa essere ‘falsa (Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215744), sicchè, nell’ambito di determinati contesti che implichino l’accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, le valutazioni formulate da soggetti cui la legge riconosce una determinata perizia possono non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare altresì nella categoria della falsità: ciò in quanto, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è un modo di rappresentare la realtà analogo alla descrizione o alla constatazione (enunciati pacificamente falsificabili, quantunque, rispetto a tali categorie della conoscenza logica, esso dipende in maggior misura dal grado di specificità dei criteri di relazione).
Ne consegue, pertanto, che può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e sia fondato su premesse contenenti false attestazioni (Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Rv. 213366).
E’, particolarmente, significativo, al riguardo, che, nella parte motiva della citata sentenza si faccia espresso riferimento proprio al ‘bilancio di esercizio’ come tipico esempio di contesto che implica accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati (artt. 2423 e 2426 cod. civ.) o tecnicamente indiscussi.
Nella stessa logica interpretativa si sono, poi, poste altre sentenze di questa Corte tra le altre: Sez. F, n. 39843 del 04/08/2015, Rv.264364, secondo cui in tema di falso ideologico in atto pubblico, nel caso in cui il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, sia libero anche nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto; diversamente, se l’atto da compiere fa riferimento anche implicito a previsioni normative che dettano criteri di valutazione si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, sicchè l’atto potrà risultare falso se detto giudizio di conformità non sarà rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato; e Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Rv. 257895: è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica, formulata in un contesto implicante l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, qualora il soggetto agente esprima il proprio giudizio contraddicendo tali parametri, ovvero basandosi su premesse contenenti false attestazioni.
Orbene, anche le valutazioni espresse in bilancio non sono frutto di mere congetture od arbitrari giudizi di valore, ma devono uniformarsi a criteri valutativi positivamente determinati dalla disciplina civilistica (tra cui il nuovo art. 2426 c.c.), dalle direttive e regolamenti di diritto comunitario (da ultimo, la citata direttiva 2013/34/UE e gli standards internazionali Ias/Ifrs) o da prassi contabili generalmente accettate (es. principi contabili nazionali elaborati dall’Organismo Italiano di Contabilità).
Il mancato rispetto di tali parametri comporta la falsità della rappresentazione valutativa, ancor’oggi punibile ai sensi del nuovo art. 2621 c.c., nonostante la soppressione dell’inutile inciso ancorchè oggetto di valutazioni.
In tale prospettiva, non par dubbio che ad assumere rilievo, in ultima analisi, è non tanto la fedele trasposizione (pur sempre problematica) della realtà ‘oggettiva’ della società (c.d. verità oggettiva di bilancio), quanto piuttosto la corrispondenza della stima dei dati esposti a quanto stabilito dalle prescrizioni di legge o da standards tecnici universalmente riconosciuti. In proposito, coglie certamente nel segno chi, in dottrina, sostiene che si tratta, propriamente, di un ‘vero legale’ – in ragione della predeterminazione normativa dei criteri di redazione – così come, del resto, in qualche misura ‘convenzionale’ è sempre qualsiasi affermazione di ‘verità’ (da quella che fonda le decisioni giurisdizionali, a quella delle stesse leggi scientifiche).
Anche in tema di false comunicazioni sociali vale, pertanto, il principio di diritto secondo cui lo statuto dell’enunciato valutativo dipende dal contesto della comunicazione; e, nello specifico, l’ambito di riferimento postula l’accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente indiscussi; e, proprio alla stregua di quei parametri, una valutazione può reputarsi ‘vera’ o ‘falsa’.
Sia pure con riferimento al previgente regime, una siffatta affermazione non è nuova nella giurisprudenza di questa Corte ed il precedente enunciato, ad avviso della Corte, mantiene tuttora viva attualità, pur a fronte dell’intervenuta riformulazione normativa (Sez. 5, n. 234 del 16/12/1994, Rv. 200455, secondo cui in tema di false comunicazioni sociali, art. 2621 cod. civ., la veridicità o falsità delle componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di legge e non alle enunciazioni ‘realistiche’ con le quali vengono indicate).
Una conferma dell’interpretazione qui sostenuta, con particolare riferimento al significato della locuzione fatti materiali non rispondenti al vero può – ancora una volta – rinvenirsi nella giurisprudenza di questa Corte in enunciazioni di principio la cui valenza teorica – indipendentemente dal regime temporale di riferimento – trascende il dato testuale e storico (Sez. 5, n. 8984 del 18/05/2000, Rv. 217767 secondo cui in tema di false comunicazioni ed illegale ripartizioni di utili o di acconti sui dividendi, nell’espressione ‘fatti non rispondenti al vero’ contenuta nella norma incriminatrice, vanno ricomprese le stime sul valore di entità economiche non precisamente calcolabili; invero, pur se la prova della non rispondenza al vero appare difficile da raggiungere quando il fatto si configura come operazione dell’intelletto, non avente un concreto parametro di riscontro, non di meno, anche la stima o valutazione deve essere considerata attività fattuale).
In funzione della ricerca di momenti di conferma – in prospettiva teleologica – non può, poi, essere privo di significato l’inserimento sistematico delle nuove false comunicazioni sociali in un testo normativo anticorruzione (L. 27 maggio 2015, n. 69, recante disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio), ad eloquente riprova della presa d’atto, da parte del legislatore, del dato esperienziale che il falso in bilancio è ricorrente segnale di determinati fenomeni corruttivi, spesso in ragione dell’appostazione contabile di false fatturazioni intese a costituire fondi in nero, destinati al pagamento di tangenti o ad altre illecite attività. Di talchè, escludere dall’alveo dei falsi punibili quello valutativo significherebbe frustrare le finalità della legge, volte a perseguire ogni illecita attività preordinata ad alimentare o ad occultare il fenomeno della corruzione.
Ma anche nell’esclusiva, settoriale, prospettiva delle false comunicazioni sociali l’interpretazione proposta dal ricorrente avrebbe effetti dirompenti sul versante dell’effettivo perseguimento di tale illecito. Non ha, certamente, torto la dottrina che ha osservato come – in ragione del fatto che la stragrande maggioranza delle voci di bilancio è frutto di una qualche valutazione – una lettura restrittiva del termine ‘fatti’ si risolverebbe in interpretatio abrogans della fattispecie penale, improponibile a fronte di alternative – e più pertinenti – esegesi del dato normativo.
Si tratta, per vero, di argomenti di contorno, seppur significativi, in prospettiva ‘interna’. Relativamente alla quale, però, l’argomento primario resta quello della presa d’atto della centralità assunta – nell’oggettività giuridica del reato – dall’interesse generale al ragionevole affidamento nel rispetto, da parte del redattore del bilancio, della clausola generale di cui all’art. 2423 c.c., comma 2 (chiarezza, veridicità e correttezza) (significativa, in tale logica, è anche la prescrizione dell’art. 2428 c.c., comma 1, secondo cui il bilancio deve essere corredato da una relazione degli amministratori contenente un’analisi fedele, equilibrata ed esauriente della situazione della società e dell’andamento e del risultato della gestione). Ed il rilievo è certamente in sintonia con i dettami della normativa comunitaria in materia, il cui fulcro è proprio il principio generale della true and fair view. Sicchè, già solo la fondamentale necessità del rispetto del canone della fedele rappresentazione vale a ripudiare la tesi dell’irrilevanza delle false valutazioni di dati contabili, in realtà sicuramente capaci di influenzare, negativamente, le scelte degli utilizzatori del bilancio.
7.1. Argomento a favore della tesi contraria a quella qui sostenuta non è possibile trarre dal mantenimento, nel testo dell’art. 2638 cod. civ., del sintagma ancorchè oggetto di valutazioni, con riferimento ai fatti materiali non rispondenti al vero, oggetto delle comunicazioni di legge alle autorità pubbliche di vigilanza, alla stregua del canone interpretativo ‘ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit’.
Ed invero, il ricorso a criteri logici di comparazione può aspirare ad un obiettivo di ragionevole affidabilità solo in presenza di identità delle fattispecie di riferimento, ove invece quelle in esame (rispettivamente previste dagli artt. 2621 e 2638 c.c.) hanno natura ed obiettività giuridiche diverse e perseguono finalità radicalmente differenti.
D’altronde, se non si dovesse tener ferma la diversità dei beni giuridici tutelati dalla richiamate fattispecie delittuose e fosse, viceversa, praticabile la tesi qui opposta, si avrebbe il risultato paradossale – e forse di dubbia costituzionalità – che la redazione di uno stesso bilancio, recante falsi valutativi, sarebbe penalmente irrilevante se diretto ai soci ed al pubblico e penalmente rilevante se rivolto alle autorità pubbliche di vigilanza.
E’ certamente significativo, in proposito, che questa Corte di legittimità, già in passato, ha avuto modo di statuire che il reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza è configurabile anche nel caso in cui la falsità sia contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, ‘atteso che dal novero dei ‘fatti materiali’, indicati dall’attuale norma incriminatrice come possibile oggetto della falsità, vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo, e l’espressione, riferita agli stessi fatti, ‘ancorchè oggetto di valutazioni’, va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l’oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all’autorità di vigilanza di ‘fatti non corrispondenti al vero’ (Sez. 5, n. 44702 del 28 settembre 2005, Rv 232535, in riferimento a fattispecie in cui un istituto bancario aveva dolosamente sopravalutato la posta di bilancio relativa a crediti vantati nei confronti della clientela per avvenuta concessione di mutui, e risultati, in effetti, di difficile od impossibile recupero;nello stesso senso recentemente, Sez. 5, n. 49362 del 7 dicembre 2012, Rv 254065).
Nell’occasione, questa Corte ha, dunque, statuito che l’espressione ‘fatti materiali, ancorchè oggetto di valutazioni’ coincideva con quella ‘fatti non corrispondenti al vero’, cioè, sostanzialmente con il testo dell’originario art. 2621 c.c., così offrendo significativo riscontro all’interpretazione secondo cui il sintagma introdotto con la L. n. 61 del 2002 era mera superfetazione.
Può, allora, affermarsi il principio secondo cui nell’art. 2621 c.c. il riferimento ai ‘fatti materiali’ oggetto di falsa rappresentazione non vale a escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, che sono anch’essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati. Infatti, qualora intervengano in contesti che implichino accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, anche gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere ad una funzione informativa e possono, quindi, dirsi veri o falsi.
Le altre censure che sostanziano il primo motivo di ricorso, ossia quelle afferenti all’elemento oggettivo del reato in questione, sono destituite di fondamento, posto che il giudice di appello ha chiaramente indicato le ragioni per le quali l’omessa svalutazione dei crediti in sofferenza, pari a circa il 62% del totale dei crediti, attuata nella consapevolezza dell’impossibilità o estrema difficoltà della loro riscossione, integrava condotta illecita, nella prospettiva della norma richiamata, siccome oggettivamente dotata di capacità decettiva, volta a sopravvalutare le componenti di attivo patrimoniale, sì da consentire una mendace rappresentazione di solidità patrimoniale e finanziaria della società, continuando a mascherare ingiustificati prelievi dalle casse sociali.
L’elemento soggettivo è stato, plausibilmente, tratto dalla struttura ‘familiare’ della società, di cui l’imputato era amministratore, oltrechè socio di maggioranza, dunque perfettamente in grado di conoscere i rapporti giuridici della stessa compagine sociale ed il grado di affidabilità della clientela;
dall’indicazione di tempi di recupero – sempre crescenti, sino a valori abnormi – dei crediti indicati e dalle rassicuranti, inveritiere, attestazioni contenute nelle relazioni di bilancio.
9.1. Il secondo motivo è destituito di fondamento, a parte il profilo di inammissibilità connesso alla mera riproposizione di questioni, già agitate in sede di gravame, in ordine alle quali il giudice a quo ha reso compiuta e pertinente spiegazione. In particolare, il complesso motivazionale risulta esente da rilievi critici avendo indicato le ragioni del ritenuto carattere fittizio delle appostazioni di bilancio, affermato sulla base di risultanze ritenute inequivoche, come le relazioni del curatore, che aveva direttamente compulsato i clienti, e del consulente del Pm. escusso in dibattimento.
Ineccepibile, dunque, è il compendio argomentativo in forza del quale è stata ritenuta la fittizietà dei pagamenti dei fornitori mediante finanziamenti dei soci, in realtà mai avvenuti, di talchè la non rispondenza al vero risultava sia ‘in dare’, quanto all’apparente adempimento in favore degli stessi fornitori, che ‘in avere’, posto che nessun finanziamento era stato effettuato dai soci.
9.2. Le censure che sostanziano il terzo motivo si collocano invece, alle soglie dell’inammissibilità afferendo a profili di merito, notoriamente improponibili in questa sede di legittimità, a fronte di motivazione formalmente corretta. In particolare, la Corte distrettuale ha spiegato i motivi per i quali ha ritenuto le due operazioni di cessione di casse mobili avessero natura distrattiva, alla stregua dei univoci dati sintomatici della mancata corresponsione di corrispettivo o, comunque, della mancata contabilizzazione delle relative fatture (essendo l’annotazione della fattura relativa alla seconda operazione avvenuta dopo ben tre anni).
Adeguatamente spiegato è il motivo per cui le giustificazioni dell’imputato – in ordine ad una pretesa compensazione dei crediti relativi alla cessione con debiti inerenti a servizi di trasporto, asseritamente resi dalla società cessionaria – non fossero plausibili, a parte la mancanza di qualsivoglia elemento di riscontro.
Si tratta, in tutta evidenza, di apprezzamento squisitamente di merito, che non appare nè illogico nè carente.
Ed ancora, le conclusioni in ordine alla sussistenza del contestato reato di bancarotta impropria sono adeguatamente motivate e del tutto in linea con indiscussa lezione di questa Corte di legittimità (Sez. 5, n. 42811 del 18/06/2014, Rv. 261759, secondo cui integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell’amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare la esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell’attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poichè l’evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto; cfr., nello stesso senso, Sez. 5, 11 gennaio 2013, n. 17021, rv 255089, secondo cui integra il reato di bancarotta impropria da reato societario l’amministratore che, attraverso mendaci appostazioni nei bilanci, simuli un inesistente stato di solidità della società, consentendo così alla stessa di ottenere nuovi finanziamenti bancari ed ulteriori forniture, giacchè agevolando in tal modo l’aumento dell’esposizione debitoria della fallita, determina l’aggravamento del suo dissesto, che costituisce un caso esemplare di come l’aggravamento del dissesto possa conseguire ad operazioni di mera rappresentazione di valori contabili.
9.3. Infondata, infine, è la quarta censura, riguardante l’asserita violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c, con riferimento all’applicazione in appello della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale e dell’incapacità, per la stessa durata, ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, sul riflesso che il menzionato art. 597, comma 3, non contemplerebbe tra i provvedimenti peggiorativi inibiti al giudice di appello – in ipotesi di impugnazione proposta dal solo imputato – quelli concernenti le pene accessorie.
Il contrario avviso del giudice di appello è, senz’altro, corretto ed in linea con indiscusso insegnamento di questa Corte regolatrice, che merita di essere qui ribadito (Sez. 6, n. 49759 del 27/11/2012, Rv. 254202 secondo cui non viola il principio della ‘reformatio in peius’ la sentenza del giudice di appello che, in presenza di impugnazione del solo imputato, applichi la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici in luogo di quella temporanea, erroneamente disposta in primo grado; id Sez. 6, n. 31358 del 14/06/2011, Rv. 250553, secondo cui è legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice d’appello, delle pene accessorie non applicate da quello di primo grado, ancorchè la cognizione della specifica questione non sia stata devoluta con l’impugnazione del pubblico ministero; cfr. pure Sez. 5, n. 8280 del 22/01/2008, Rv.239474: è legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello, delle pene accessorie non applicate in primo grado, ancorchè la cognizione della specifica questione non gli sia stata devoluta con il gravame del pubblico ministero, in quanto la previsione di cui all’art. 597 c.p.p., comma 3, – che sancisce il divieto della ‘reformatio in peius’ quando appellante sia il solo imputato – non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi, inibiti al giudice di appello, quelli concernenti le pene accessorie, le quali, ex art. 20 cod. pen., conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa).
10 Per quanto precede, i, ricorso – globalmente considerato – deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni dettate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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