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Invero, anche a voler prescindere dai rilievi formulati, al riguardo, dal controricorrente, trova applicazione, nel caso di specie, il principio secondo cui e’ “inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realta’, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, cosi’ da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimita’ in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 4 aprile 2017, n. 8758, Rv. 643690-01).
Analogamente si e’ ritenuto che “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che e’ quanto si lamenta nel caso di specie – “e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimita’” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03).
L’esito dell’inammissibilita’ e’ imposto dal rilievo che il primo motivo impugnazione e’ diretto a contestare l’apprezzamento che tanto in relazione alla tempestivita’ dell’iniziativa assunta dagli attori a norma dell’articolo 1669 c.c., quanto della gravita’ delle infiltrazioni riscontrate e, dunque, alla loro idoneita’ ad integrare vizio rilevante ai fini ed agli effetti di detta norma (idoneita’, peraltro, pacifica secondo la giurisprudenza di questa Corte; cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 3 gennaio 2013, n. 84; Rv. 624395-01; nonche’ Cass. Sez. 2, ord. 17 novembre 2017, n. 27315, Rv. 646078-01) – e’ stato compiuto dalla Corte genovese, come e’, del resto, confermato dal riferimento (contenuto nel motivo) all’articolo 116 c.p.c..
Ne’, d’altra parte, l’accoglimento del motivo potrebbe giustificarsi valorizzando il denunciato errore in cui e’ incorsa la Corte di Appello genovese – come gia’, peraltro, il Tribunale spezzino – nell’apprezzare le risultanze dell’esame condotto dal CTU mediante l’utilizzazione del “freatimetro”, confondendo la rilevata presenza d’acqua 54 cm. sotto il piano di calpestio del box, con la sussistenza di acqua stagnante al di sopra di esso per oltre mezzo metro.
Difatti, allorche’ il ricorrente deduca “deficienze argomentative della decisione in punto di recepimento delle conclusioni della CTU”, esso ha l’onere di provvedere alla “indicazione delle circostanze secondo le quali quel recepimento, sulla base delle modalita’ con cui si e’ svolto, si sia tradotto nell’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18391, in corso di massimazione), cio’ che non e’ avvenuto nel caso di specie, essendosi l’ (OMISSIS) limitato a rilevare l’errore, senza chiarire in quale misura esso “neutralizzi” le ulteriori affermazioni, contenute nella sentenza, a supporto della ritenuta gravita’ del fenomeno infiltrativo.
6.2. Il secondo motivo – che partecipa dello stesso vizio di inammissibilita’ del primo, nella parte in cui tende a mettere in discussione l’apprezzamento di risultanze istruttorie, questa volta in punto di giudizio sulla determinazione dell’entita’ del risarcimento – e’, invece, infondato nella restante parte.
Esso, invero, ipotizza violazione dell’articolo 2058 c.c., sul rilievo che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente applicato i principi in materia di risarcimento per equivalente, ovvero quello il tipo di ristoro che sarebbe stato richiesto – assume il ricorrente – da parte attrice.
Il motivo e’, in questa parte, infondato, giacche’ non coglie la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
Essa non ha affatto equivocato sulla portata della domanda attorea, che era effettivamente di risarcimento per equivalente, ma ha solo tenuto conto del peculiare atteggiarsi della stessa in caso di azione ex articolo 1669 c.c., correttamente applicando il principio gia’ enunciato da questa Corte – al quale si ritiene di dare qui continuita’ secondo cui, esperita l’azione suddetta, “la condanna al pagamento di quanto necessario per eliminare i vizi della costruzione comporta un’obbligazione risarcitoria in ogni caso finalizzata al ripristino dell’edificio e delle condizioni di stabilita’ dello stesso, sicche’, questa non puo’ trovare preclusione o limiti per la circostanza che il costo delle opere sia eventualmente superiore a quello della costruzione a regola d’arte dell’edificio lesionato, non trattandosi di reintegrazione in forma specifica ex articolo 2058 c.c., bensi’ di risarcimento per equivalente, per la cui commisurazione e’ fatto riferimento alle spese necessarie per restituire all’edificio la sua naturale funzionalita’” (Cass. Sez. 2, sent. 22 gennaio 1985, n. 241, Rv. 438470-01).
6.3. Il terzo motivo e’, invece, fondato.
Difatti, pur a dispetto della non perspicua evocazione degli articoli 1027 e 832 c.c., esso coglie – nel censurare l’esistenza di un pregiudizio alla proprieta’ del fondo servente, in ragione della sua immutazione in difetto di autorizzazione del proprietario e senza che potesse invocarsi, a giustificarne la causazione, la maggiore comodita’ per l’esercizio della servitu’ – l’evidente errore di sussunzione commesso dalla Corte ligure.
Essa ha, infatti, rigettato la domanda riconvenzionale dell’odierno ricorrente sul rilievo che la modifica apportata alla rampa di accesso, esistente sul terreno di proprieta’ dell’ (OMISSIS), non ha comportato alcun di aggravio della servitu’ imposta su di esso ed in favore del box di proprieta’ dello (OMISSIS) e della (OMISSIS), giacche’ “ha reso semplicemente piu’ agevole” l’utilizzo della rampa, senza precludere “minimamente l’accesso alle proprieta’ in quanto carrabile con qualsiasi mezzo provvisto di quattro ruote”.
Cosi’ motivando la Corte genovese ha, sostanzialmente, inquadrato la vicenda nella fattispecie di cui all’articolo 1067 c.c., seppur senza menzionare espressamente detta norma.
Per contro, ha ritenuto questa Corte che il “divieto di aggravare l’esercizio della servitu’, di cui all’articolo 1607 c.c., costituisce un limite alle innovazioni sul fondo dominante che incidano sulle modalita’ concrete di esercizio della servitu’ e non anche un criterio per discriminare la liceita’ o meno delle opere che il proprietario del fondo dominante intenda fare sul fondo servente – avvalendosi della facolta’ di cui all’articolo 1069 c.c. – per la cui violazione vale, per contro, da un lato il criterio dell’indispensabilita’ delle opere ai fini della conservazione della servitu’, dall’altro il limite (subordinato al criterio anzidetto) rappresentato dal diritto del proprietario del fondo servente di usare e godere del proprio fondo, impedendo qualunque intervento del vicino, titolare della servitu’ di passo sulla proprieta’ medesima, oltre il necessario per il godimento della servitu'” (Cass. Sez. 2, sent. 17 gennaio 1995, n. 492, Rv. 489719-01).
Trattandosi, dunque, nella specie di intervento eseguito sul (recte: su porzione del) fondo servente, la liceita’ dello stesso – ai sensi del principio teste’ richiamato – non andava valutata in termini di aggravio, o meno, del “peso” derivante dalla servitu’, bensi’, al limite, della indispensabilita’ dello stesso, ai fini della conservazione dello ius in re aliena.
Sul punto, pertanto, va cassata la sentenza impugnata, che nel rinnovare la valutazione sulla domanda riconvenzionale proposta dall’ (OMISSIS), dovra’ attenersi al teste’ indicato principio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo e secondo motivo di ricorso, accogliendo il terzo, e per l’effetto cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Genova, in diversa composizione, perche’ provveda anche sulle spese del presente giudizio.
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