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Premette, in ordine al “tema specifico della partecipazione ad associazione mafiosa desunta quasi completamente da apporti/dichiarazioni dei collaboratori di giustizia”, sette pagine di riferimenti a giurisprudenza della 6 Sezione oltre che, nell’ultima pagina (f. 7 del ricorso), delle SS.UU. e della 1 sezione; con specifico riferimento all’odierno procedimento, lamenta l’erroneita’ dell’interpretazione del colloquio intercettato in data 11.11.2011, nel quale l’imputata sarebbe intervenuta per comporre un dissidio tra il fratello (OMISSIS) e lo zio (OMISSIS), comunicando il pensiero del padre (OMISSIS), approvato e fatti) proprio: in realta’, non risulterebbe individuato il pregresso colloquio nel corso del quale il padre avrebbe comunicato alla figlia o ad altri le sue direttive; tra l’altro, la difesa asserisce di aver documentato che l’ultimo colloquio avuto dal padre con un familiare risa iva al 6 agosto 2011, ovvero ad oltre tre mesi prima: se si fosse trattato di una direttiva urgente per ricomporre una spaccatura all’interno del sodalizio, non si sarebbe atteso tre mesi per comunicarla; la difesa documenta inoltre che nel 2011 (OMISSIS) (madre di (OMISSIS), moglie di (OMISSIS) e sorella di (OMISSIS)) non aveva avuto colloqui con il marito, e non poteva quindi averne ricevuto le direttive de quibus asseritamente comunicate al figlio (OMISSIS) per il tramite della figlia (OMISSIS). Quella contestata all’odierna imputata sarebbe una condotta mai tenuta, e/o comunque isolata (non ricorrente, come al contrario necessario per consolidata giurisprudenza al fine di inferirne la partecipazione al sodalizio) e, peraltro, ben spiegabile in considerazione dei legami familiari (si trattava di un invito a fare la pace), peraltro al piu’ integrante il reato di cui all’articolo 418 c.p.. L’assunto accusatorio sarebbe smentito anche dalle dichiarazioni rese da (OMISSIS) in data 13.9.2012 quanto al ruolo delle donne nel sodalizio, che riferisce essere marginale, riguardando comunicazioni inerenti a questioni di minore importanza; le ulteriori dichiarazioni dei pentiti (OMISSIS) e (OMISSIS) sarebbero divergenti ed inattendibili; lamenta che la portata delle dichiarazioni rese da (OMISSIS) non sarebbe stata presa in considerazione. Vi sarebbe comunque violazione dell’articolo 416-bis c.p. come interpretato dalla giurisprudenza, poiche’ per riconoscere a chi funge da messo un ruolo di partecipe non basterebbe accertare l’esp’etamento dell’incarico, occorrendo altresi’ la prova dell’intervenuta disponibilita’ del congiunto ad apportare un concreto contributo anche minimo alla vita dell’associazione per assicurarne continuativita’ ed operativita’ all’esterno (cita a sostegno Sez. 1, n. 41467/11, n.nn.).
La non considerazione dei predetti elementi, pure acquisiti agli atti, integrerebbe il dedotto vizio di motivazione; la non configurabilita’, in relazione all’ipotizzato contributo, di una condotta di partecipazione integrerebbe la dedotta violazione dell’articolo 416-bis c.p..
Inoltre, tre collaboratori (le cui dichiarazioni sono riportate a f. 17/24 del ricorso), ovvero (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), avrebbero escluso che l’imputata ricoprisse un ruolo attivo nel sodalizio: anche su cio’ la Corte d’appello sarebbe rimasta inopinatamente silente.
Il riferimento a quanto captato in sede di colloquio tra (OMISSIS) padre e figlio sarebbe illogico sotto piu’ profili: manca la prova dell’effettivita’ della riferita dazione, e l’evento, episodico ed avente ad oggetto una somma esigua, puo’ ben ritenersi trascurabile nell’ambito della vita del sodalizio, perche’ dovuto a solidarieta’ occasionale, piu’ che ad una forma di mantenimento organizzato dei detenuti.
Non configurabili sarebbero, inoltre, le due estorsioni, in difetto di una qualsivoglia condotta addebitabile all’imputata che mai risulta avere chiesto sconti (solo una tale richiesta avrebbe potuto essere valorizzata come portatrice di una minaccia larvata), al contrario spontaneamente concessi, e mai in alcun modo reclamati; difetterebbe, quindi, una qualsivoglia minaccia percepibile dalle pp.oo., ovvero un qualsivoglia gesto valorizzabile per ritenere configurabile l’estorsione ambientale, secondo la giurisprudenza consolidata (cita Sez. 2, n. 53652/14); la p.o. (OMISSIS) era, inoltre, imprenditore vicino alla cosca, perche’ compagno della cognata di (OMISSIS) ed in passato a sua volta indagato per il reato di cui all’articolo 416-ter c.p.: le sue dichiarazioni andavano, pertanto, asseritamene assunte con l’ausilio di un difensore – come documentato con i motivi aggiunti depositati in appello, in ampia parte riportati a ff. 30/49 del ricorso -; conclude che (OMISSIS) era vicino alla cosca, non certo sua vittima, e cio’ vale anche ad escludere la possibile consapevolezza che l’imputata ingenerasse in lui un metus quando si recava per fare compere presso il suo esercizio commerciale.
Analoghi rilievi, quanto alla mancanza di una condotta valorizzabile, sono riproposti per l’estorsione di cui al capo 28, la cui p.o. era anche presente al matrimonio del fratello dell’imputata.
Non sarebbe, infine, configurabile il c.d. metodo mafioso.
8.2. Il ricorso e’, nel complesso, infondato.
8.2.1. Quanto al 5 motivo, inerente alle affermazioni di responsabilita’, sono state gia’ illustrate (nel § 1.3. di queste Considerazioni in diritto) le ragioni per le quali e’ inammissibile il motivo in cui si deduca la violazione dell’articolo 192 c.p.p., anche se in relazione all’articolo 125 c.p.p. e articolo 546 c.p.p., comma 1, lettera e), per censurare l’omessa od erronea valutazione di ogni elemento di prova acquisito o acquisibile.
8.2.2. Quanto agli ulteriori motivi, tutti inerenti alle affermazioni di responsabilita’ in ordine ai reati ascritti all’imputata ed alla configurabilita’, per le estorsioni, dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, articolo 7, le doglianze dell’imputata reiterano, piu’ o meno pedissequamente, a fronte di una doppia conforme affermazione di responsabilita’ (cfr. § 1.6.2. di queste Considerazioni in diritto) censure gia’ dedotte in appello e gia’ non accolte, risultando, pertanto, prive della specificita’ necessaria ai sensi dell’articolo 581 c.p.p., comma 1, lettera C), (Sez. 4, sentenza n. 15497 del 22 febbraio – 24 aprile 2002, CED Cass. n. 221693; Sez. 6, sentenza n. 34521 del 27 giugno – 8 agosto 2013, CED Cass. n. 256133), e, comunque, meramente assertive nonche’ manifestamente infondate, in considerazione dei rilievi con i quali la Corte di appello – con argomentazioni giuridicamente corrette, nonche’ esaurienti, logiche e non contraddittorie, e, pertanto, esenti da vizi rilevabili in questa sede ha motivato le contestate affermazioni di responsabilita’ (in particolare, ff. 127 ss. della sentenza impugnata), valorizzando plurime e convergenti dichiarazioni di collaboratori di giustizia motivatamente ritenute attendibili, sia intrinsecamente che estrinsecamente, nonche’ esiti di intercettazioni di conversazioni e dichiarazioni testimoniali quanto alla estorsioni, oltre che puntualmente esaminando, e dettagliatamente confutando, tutte le censure specifiche dell’appellante.
Nel caso di specie, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio gia’ sottoposto al vaglio del Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante, e’ giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilita’ dell’imputata che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze gia’ incensurabilmente disattese dalla Corte di appello e riproporre la propria diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture difensive improduttive di effetti.
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