Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 27 novembre 2015, n. 24220

Svolgimento del processo

1.- I coniugi S.L. e C.M. citavano in giudizio dinanzi al Tribunale di Mantova il dottor P.M. , ginecologo, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni, che assumevano essere loro derivati per la mancata informazione circa le indagini prenatali da effettuarsi, ovvero comunque effettuabili, nonché per la mancata diagnosi delle gravi patologie da cui era affetto il feto di sesso femminile, partorito al termine della gravidanza, che dichiaravano di non aver riconosciuto quale loro figlia a causa delle suddette patologie.
1.1.- Si costituiva il convenuto, eccependo di avere informato la paziente che per essere certi in merito all’assenza di malformazioni del feto, era necessario sottoporsi ad esami invasivi, comportanti un rischio abortivo e con costo a carico della paziente, la quale aveva preferito non farli.
Interveniva volontariamente in giudizio, ai sensi dell’art. 105 cod. proc. civ., la società Lloyd Adriatico S.p.A., compagnia con la quale il Dott. P. aveva stipulato contratto di assicurazione per la responsabilità civile professionale. L’intervenuta aderiva alla richiesta di rigetto della domanda degli attori ed, in subordine, eccepiva l’inoperatività della garanzia e, comunque, chiedeva che l’obbligo dell’istituto assicuratore fosse contenuto nei limiti del massimale, considerata la franchigia.
1.2.- Il Tribunale – esperita istruttoria orale ed espletata CTU -, con sentenza del 6 febbraio 2006, rigettava la domanda compensando le spese processuali.
2.- Avverso la sentenza i coniugi S. -C. proponevano appello, a cui resistevano entrambi i convenuti; il Dott. P. avanzava appello incidentale condizionato.
Con la sentenza qui impugnata, pubblicata il 16 febbraio 2011, la Corte d’Appello di Brescia ha rigettato l’appello, condannando gli appellanti al pagamento delle spese del grado in favore del Dott. P. e compensando tra le parti tutte le altre spese.
3.- Contro questa sentenza S.L. e C.M. propongono ricorso affidato a tre motivi.
Il dottor P.M. si difende con controricorso.
La società Allianz S.p.A. (già S.p.A. R.A.S. conferitaria dell’azienda Lloyd Adriatico S.p.A.) si difende, a sua volta, con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

1.- Col primo motivo si critica l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui la questione relativa alla legittimazione attiva del C. , marito della gestante e padre della nascitura, presuppone la responsabilità professionale del sanitario e diventa attuale solo nel caso in cui questa venga riconosciuta. Perciò, la Corte ha ritenuto che fosse rimasta implicitamente assorbita dalla pronuncia di primo grado di rigetto della domanda risarcitoria.
L’affermazione -a prescindere dal merito (per il quale cfr. Cass. n. 2354/10, tra le altre)- non è validamente censurata.
I ricorrenti denunciano un vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., che attiene esclusivamente alla ricostruzione del fatto, laddove, nella specie, la questione posta è di diritto.
Il motivo è quindi inammissibile.
2.- Nel merito, la Corte d’Appello, condividendo la valutazione compiuta dal giudice di primo grado, ha respinto l’impugnazione per le seguenti ragioni:
– a) quanto all’addebito di non aver diagnosticato le malformazioni del feto, prescrivendo l’amniocentesi o l’analisi dei villi coriali, impedendo perciò l’esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, la Corte ha ritenuto che: per come emerso dalla CTU, l’indagine sul cariotipo, unico metodo per una diagnosi prenatale della sindrome di Down, non era consigliata nel caso specifico, stante la giovane età della madre, il suo basso rischio per patologie cromosomiche fetali e l’esito di altre indagini, effettuate nel corso della gravidanza. Ha perciò condiviso il giudizio del primo giudice di insussistenza di errori tecnico professionali imputabili al ginecologo ed ha concluso per l’avvenuta dimostrazione che la mancata diagnosi era derivata da causa non imputabile al medico;
– b) quanto all’addebito di non avere adeguatamente informato la madre circa tutti i possibili metodi che avrebbero potuto essere adottati al fine di pervenire alla diagnosi di gravi malformazioni e/o patologie del feto, facendo perdere il diritto di scelta di interrompere la gravidanza, la Corte ha ritenuto che: fermo restando che incombe sul sanitario l’onere della prova di aver fornito una completa informazione sulla situazione e sugli interventi sanitari utili o necessari, incomberebbe invece al paziente, che deduca la violazione dell’onere di informazione da parte del medico, dimostrare che, ove l’informazione fosse stata fornita, avrebbe optato per quel trattamento sanitario. Ha quindi considerato che questa prova non sarebbe stata mai nemmeno dedotta dall’appellante, mentre – tenuto conto delle circostanze del caso concreto – il medico non sarebbe stato tenuto ad informarla di tutti i trattamenti noti alla scienza medica, ma solo di quelli indicati per chi si trovi nella condizione di salute della paziente. Ha aggiunto che con la trascrizione sulla cartella clinica del referto negativo del bi-test, corredato dall’indicazione che il risultato positivo o negativo dell’esame non significa affatto presenza o assenza delle patologie menzionate, ma piuttosto un’aumentata o diminuita probabilità del loro verificarsi, il medico avrebbe assolto l’onere probatorio a suo carico di avere informato la gestante che l’esame effettuato non escludeva con certezza l’esistenza di una patologia cromosomica;
– c) quanto all’addebito di avere prescritto l’ecografia morfologica alla fine della 24A settimana di gestazione, quando oramai non sarebbe stato possibile praticare l’interruzione volontaria della gravidanza ai sensi della legge n. 194 del 1978, la Corte ha ritenuto che: fosse evidente la mancanza di nesso causale con l’evento dannoso prospettato, cioè con la mancata interruzione della gravidanza. È giunta a questa conclusione richiamando la CTU, da cui risultava che l’ecografia non aveva messo in evidenza alcuna patologia del feto, sicché, quand’anche fosse stata eseguita alla 22A settimana, non avrebbe potuto indurre la madre a chiedere l’interruzione della gravidanza, che si svolgeva normalmente e con un feto apparentemente sano.
3.- Il secondo ed il terzo motivo vanno trattati unitariamente perché connessi e riguardanti tutte e tre dette affermazioni.
Essi non sono meritevoli di accoglimento per la parte in cui censurano quelle sopra riportate sub a) e sub c).
Col secondo motivo, che è basato sulla violazione di norme di diritto (di una serie di articoli del Codice di Deontologia Medica, in vigore dal 3 ottobre 1998, e degli artt. 2, 29, 30, 31 e 32 della Costituzione, indicati in epigrafe, nonché vi degli artt. 1218 e 2236 cod. civ., indicati al termine dell’illustrazione), i ricorrenti propongono, soprattutto, censure concernenti la violazione da parte del medico dell’obbligo di informazione (di cui si dirà ai punti 5 e seg., infra).
In merito a quanto affermato dalla Corte d’appello riportato sopra sub a), si limitano a sostenere che “non è vero che non vi fossero indicazioni per gli approfondimenti”; che “il risultato del bi-test era tale da suonare quale campanello d’allarme…” perché avrebbe evidenziato un rischio doppio rispetto alla norma; che, a partire dal secondo trimestre di gravidanza, i riscontri ecografici avrebbero mostrato percentuali di crescita del feto non congrui.
In merito a quanto affermato dalla Corte d’appello riportato sopra sub c), riconoscono l’esattezza, in punto di fatto, dell’affermazione che non fossero emerse particolari patologie, ma insistono nel sostenere che l’esito dell’ecografia morfologica sulla crescita del feto inferiore alla norma “avrebbe dovuto indurre ad ulteriori approfondimenti”.
I ricorrenti concludono con il perentorio assunto che, per entrambi gli aspetti considerati (oltre che per la violazione dell’obbligo di informazione, su cui infra), si sarebbe avuto un inadempimento del medico al contratto intercorso con la paziente/gestante ai sensi degli artt. 1218 e 2236 cod. civ..
3.1.- Col terzo motivo si lamenta il vizio di motivazione relativamente all’interpretazione che il giudice del merito ha dato alle risultanze della CTU ed alla mancata considerazione da parte dello stesso giudice delle critiche mosse dal consulente tecnico di parte.
4.- Con riferimento alla denuncia di responsabilità professionale del medico per errore nella prescrizione e nell’esecuzione degli esami diagnostici e per la mancata diagnosi, i motivi sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
Sono inammissibili nella parte in cui criticano la ricezione della Corte d’Appello degli esiti della consulenza d’ufficio.
Allo scopo, vengono riportate in ricorso parti di testo della relazione tecnica del tutto compatibili e coerenti con le conclusioni tratte dai giudici di merito, sicché le censure si riducono all’inammissibile richiesta di una differente lettura – nel senso preteso dai ricorrenti, a sé favorevole – delle conclusioni peritali. Con motivazione congrua, e comunque non validamente censurata, il giudice ha condiviso i seguenti accertamenti del proprio consulente tecnico:
– quanto alla mancata diagnosi delle patologie, non vi era una situazione di rischio specifico, che avrebbe imposto, o anche soltanto consigliato, l’amniocentesi o la villocentesi;
– quanto all’esecuzione dell’ecografia morfologica alla 24^ settimana, a questa data non erano emerse anomalie significative, sicché, a maggior ragione, non sarebbe stato decisivo effettuare prima lo stesso esame diagnostico.
Sono questi i dati di fatto fondamentali ai fini del giudizio in merito alla responsabilità medica per omessa diagnosi, che i ricorrenti non riescono a scalfire.
4.1.- Conseguentemente, per l’aspetto in esame, i motivi di ricorso sono infondati in diritto. La decisione della Corte d’appello risponde al seguente principio regolatore della materia, alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte: “nel giudizio di risarcimento del danno conseguente ad attività medico chirurgica, l’attore danneggiato ha l’onere di provare l’esistenza del contratto (o del contatto sociale) e l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia, nonché di allegare l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a determinare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, restando, invece, a carico del medico e/o della struttura sanitaria l’onere di dimostrare che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che esso non abbia avuto incidenza causale sulla produzione del danno” (così da ultimo Cass. n. 8473/15 e n. 12690/15, conformi a Cass. Sez. Un. n.577/08, n.27855/13, n. 20547/14); cui va aggiunto quello per il quale “costituisce onere del medico, per evitare la condanna in sede risarcitoria, provare che l’insuccesso dell’intervento è dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà e tale prova va fornita dimostrando di aver osservato nell’esecuzione della prestazione sanitaria la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione” (così Cass. n. 24791/08; cfr. anche Cass. n. 12274/11 e n. 15993/11), vale a dire dimostrando l’assenza di colpa nella prestazione dell’attività medico-chirurgica, in questa compresa l’attività diagnostica.
Nella specie, come detto, è risultata dimostrata, per un verso, l’assenza di colpa del sanitario per la mancata prescrizione alla gestante di esami diagnostici non imposti dalle sue condizioni di salute né suggeriti dai protocolli medici nel caso specifico; per altro verso, si è constatata l’assenza di nesso causale tra l’esecuzione asseritamente tardiva dell’ecografica morfologica e la perdita del diritto di interrompere la gravidanza, in quanto anche l’esecuzione tempestiva del detto accertamento diagnostico non avrebbe consentito di evidenziare le malformazioni e le patologie del feto.
Per tali ragioni, la sentenza impugnata va reputata corretta e non meritevole di censure, quanto all’esclusione di responsabilità del medico, odierno resistente, per omessa o tardiva esecuzione di indagini diagnostiche e per mancata od erronea diagnosi.
5.- I due motivi di ricorso dei quali si è fin qui detto sono invece fondati per la parte in cui censurano il rigetto della domanda risarcitoria per violazione degli obblighi di informazione che avrebbero consentito alla gestante di autodeterminarsi, in primo luogo, in merito all’esecuzione dell’amniocentesi e, quindi, eventualmente, anche in merito all’interruzione della gravidanza.
Le ragioni esposte dalla Corte d’Appello sono quelle riassunte sopra al punto 2 sub b).
Avverso queste ragioni, i ricorrenti deducono:
– col secondo motivo, che, in forza del contratto stipulato con la gestante, il medico avrebbe dovuto mettere a sua disposizione tutte le sue conoscenze, non solo per consentirle una gravidanza serena, ma anche per prevenire/impedire la nascita di un figlio affetto da patologie; che lo stesso Dott. P. , nel costituirsi in giudizio in primo grado, aveva dedotto di avere interrogato la gestante sull’atteggiamento che avrebbe assunto in caso di malformazioni fetali e di averla informata di tutti i possibili mezzi per diagnosticarle preventivamente; che però la deduzione sarebbe rimasta sfornita di prova; che il medico avrebbe impedito ai coniugi di autodeterminarsi nella scelta del trattamento sanitario; che la signora S. non avrebbe potuto fornire la prova – pretesa dalla Corte d’Appello – che, se fosse stata informata, si sarebbe sottoposta all’amniocentesi, perché non sarebbe stata messa a conoscenza della possibilità Co della necessità) di effettuare l’esame; che il mancato riconoscimento della figlia nata affetta da sindrome di Down e da altre patologie avrebbe dovuto indurre i giudici di merito ad inferire che, ove informata, la gestante si sarebbe sottoposta all’esame diagnostico, tanto più che nella comparsa di risposta del convenuto era riconosciuto che la gestante aveva dichiarato che non avrebbe “accettato” un figlio affetto da quella sindrome; che l’informazione stampata in calce al referto del bi-test – valorizzata dalla Corte d’Appello- non sarebbe sufficiente a far ritenere assolti i doveri imposti al medico dagli artt. 18, 30 e 32 del codice deontologico (riportati in ricorso);
– col terzo motivo, denunciando il vizio di motivazione, si ripetono le argomentazioni che fanno leva sulle ammissioni contenute nella comparsa di risposta del convenuto e sulla non esaustività delle indicazioni riportate in calce al referto del bi-test.
6.- Le censure sono fondate sia quanto alla violazione di norme di legge (non delle norme deontologiche, a rilevanza disciplinare, ma piuttosto degli artt. 1218 e 2236 cod. civ., in riferimento agli obblighi di informazione che incombono sul sanitario in forza del contratto stipulato con la paziente), che quanto all’insufficienza della motivazione.
La sentenza è errata perché fa gravare sulla paziente un onere probatorio che non le compete.
Giova precisare che il ricorso non pone immediatamente la questione del riparto degli oneri probatori, su cui l’ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 3569/15 ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, vale a dire la questione della prova della correlazione causale fra l’inadempimento dei sanitari – che si assume consistito nell’omissione di approfondimenti diagnostici – e il mancato ricorso all’aborto, nonché della prova della sussistenza delle condizioni comunque necessarie per procedere ali1 interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione (in relazione alla legge n. 194 del 1978, art. 6).
Nella specie, è in discussione la violazione dell’obbligo di informare la paziente degli esami diagnostici effettuabili per conoscere preventivamente le patologie fetali; obbligo, questo, che si pone a monte dell’esecuzione della prestazione medica ulteriore consistente nella verifica degli esiti di esami già effettuati e nella valutazione della necessità di approfondimenti. Tanto è vero che, nel caso in esame, come detto sopra, si è escluso che il sanitario sia stato negligente od imperito nel prescrivere gli accertamenti diagnostici o nel valutarne gli esiti. La condotta omissiva che gli si imputa riguarda la mancanza di informazioni nei confronti della paziente gestante.
6.1.- Il principio regolatore dell’onere della prova da cui prendere le mosse è allora quello per il quale la responsabilità professionale del medico – ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all’illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell’intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato – ha natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell’allegazione, da parte del paziente, dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, è il medico gravato dell’onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione (Cass. n. 2847/10; cfr. anche Cass. n. 20984/12, n. 19220/13).
Non è invece pertinente il richiamo della Corte d’Appello ai precedenti costituiti da Cass. n. 2847/10 e Cass. n. 16394/10, dai quali ha tratto l’errato convincimento che ogniqualvolta il paziente alleghi la violazione dell’obbligo di informazione da parte del medico, ha l’onere (di allegare e) di provare che, ove l’informazione fosse stata fornita, avrebbe evitato un certo intervento ovvero, come nella specie, vi si sarebbe sottoposto, anche in presenza di rischi. Si tratta di un onere di allegazione, e men che meno di prova, che non è in alcun modo riferibile al caso in cui il danneggiato lamenti la violazione del proprio diritto di autodeterminarsi.
Va infatti tenuto presente che il diritto all’autodeterminazione è diverso dal diritto alla salute e che vanno trattate diversamente le fattispecie in cui il danneggiato lamenti la lesione del primo e/o la lesione del secondo (cfr. da ultimo, Cass. 2854/15); ed, a maggior ragione, le fattispecie, come quella in esame, in cui lamenti che dalla lesione del diritto all’autodeterminazione in tema di scelte diagnostiche, sia conseguita la lesione di altro diritto, quale quello di interrompere volontariamente la gravidanza, o di autodeterminarsi in merito alla scelta di procedere o meno a siffatta interruzione.
I precedenti richiamati dal giudice di merito attengono ad ipotesi in cui non era (o non era più) in discussione la lesione del (solo) diritto all’autodeterminazione, quanto piuttosto la, sia pur connessa, lesione del diritto alla salute.
Questa Corte di recente ha avuto modo di ribadire che la responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo di acquisire il consenso informato discende dal solo fatto della sua condotta omissiva, rilevando soltanto che, a causa del deficit di informazione, il paziente non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni (cfr. Cass. n. 16543/2011 e n.12205/15, tra le altre) e che l’inadempimento dell’obbligo di informazione assume autonomo rilievo nel rapporto contrattuale, a prescindere dalla correttezza o meno del trattamento sanitario eseguito o dalla prova che il danneggiato avrebbe rifiutato l’intervento se adeguatamente informato (così, da ultimo, Cass. n. 14642/15).
Corollario di quanto fin qui esposto è che il sanitario, cui incombe l’obbligo di informare il paziente circa i possibili accertamenti diagnostici utili o necessari in una determinata situazione e circa i rischi ed i vantaggi a ciascuno connessi, deve dare la prova di avere adempiuto a tale obbligo, restando a suo carico, in caso contrario, la responsabilità per lesione del diritto del paziente all’autodeterminazione anche in merito alle scelte diagnostiche.
7.- Va a questo punto delibata l’ulteriore affermazione della sentenza secondo cui, nel caso di specie, il ginecologo, non avendo l’obbligo di procedere, in mancanza di rischio specifico, all’effettuazione dell’amniocentesi, nemmeno avrebbe avuto l’obbligo di informare la gestante della possibilità di sottoporsi all’esame.
Trattasi di assunto che si scontra con un’affermazione già presente nella giurisprudenza di legittimità, per la quale in tema di responsabilità medica, il sanitario che formuli una diagnosi di normalità morfologica del feto anche sulla base di esami strumentali che non ne hanno consentito, senza sua colpa, la visualizzazione nella sua interezza, ha l’obbligo d’informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, in vista dell’esercizio del diritto della gestante di interrompere la gravidanza, ricorrendone i presupposti (così Cass. n. 15386/11).
Nella specie, il principio è viepiù applicabile perché i ricorrenti assumono di aver manifestato al proprio medico di fiducia che non avrebbero “accettato” la nascita di un figlio affetto da gravi patologie e questo sarebbe stato riconosciuto negli scritti difensivi del convenuto.
Per questo aspetto, la motivazione è insufficiente, perché non tiene conto – anche soltanto al fine di confutarne la portata confessoria sostenuta dai ricorrenti – di quanto dedotto dal sanitario nella propria comparsa di risposta.
8.- La decisione è inoltre viziata nella parte in cui reputa comunque idonea all’assolvimento dell’obbligo di informazione gravante sul medico la trascrizione nella cartella clinica del referto negativo del bi-test. La Corte d’Appello riconosce che questo dato era sufficiente ad informare la paziente del fatto che “l’esame effettuato non escludeva con certezza l’esistenza di una patologia croraosomica”. Tuttavia, il giudice non considera che si trattò di un’informazione, pur apprezzabile, ma comunque parziale. Essa, infatti, consentiva ai destinatari di non fare totale affidamento sull’esito dell’accertamento diagnostico, ma non li rendeva edotti della possibilità di ricorrere ad altro esame dagli esiti più certi, anche se comportante dei fattori di rischio.
8.1.- Il consenso ad eseguire ovvero, come nella specie, a non eseguire un determinato intervento medico o chirurgico va acquisito previa informazione completa ed effettiva delle possibilità offerte dalla scienza medica in relazione alla situazione del paziente ed ai suoi bisogni di cura o di assistenza. Compete al sanitario l’individuazione degli esami diagnostici e delle terapie (o dell’intervento chirurgico) da praticare nel caso concreto, ma -contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di merito – egli non può esimersi dal prospettare la possibilità, nota alla scienza, di esami o terapie (o interventi) alternativi o complementari, pur se comportanti dei costi e dei rischi maggiori, essendo rimessa al paziente la valutazione dei costi e dei rischi (cfr. Cass. n. 19731/14), previa adeguata prospettazione degli uni e degli altri da parte del medico.
In conclusione, il ricorso va accolto limitatamente alle censure dei ricorrenti riguardanti la violazione, da parte del resistente P. , del diritto della paziente di autodeterminarsi e quindi limitatamente all’addebito di responsabilità per violazione dell’obbligo di informazione. La sentenza impugnata va cassata nei limiti di questo accoglimento.
La causa va rinviata alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa composizione, affinché accerti, alla stregua dei principi sopra enunciati, se vi sia stata una corretta informazione da parte del ginecologo, che avrebbe consentito alla gestante di autodeterminarsi, in primo luogo, in merito all’esecuzione dell’amniocentesi. Resta demandato al giudice del rinvio anche l’accertamento del distinto, ed eventualmente consequenziale, profilo di responsabilità, e quindi di danno, concernente la lesione del diritto di autodeterminarsi anche in merito all’interruzione della gravidanza e del diritto di procedervi (previa verifica dell’assolvimento dell’onere di allegazione e di prova sui presupposti di questo ulteriore diritto, gravante in capo alla gestante: cfr. Cass. ord. n. 3569/15, su menzionata). Si rimette al giudice di rinvio anche la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo ed accoglie il secondo ed il terzo nei limiti specificati in motivazione e, negli stessi limiti, cassa la sentenza impugnata. Rinvia alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

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