La massima
In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza e contraddittorietà di motivazione che richiedono la precisa indicazione dei punti contestati e delle affermazioni in contraddizione tra loro.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 31 gennaio 2013, n. 2299
CONSIDERATO IN FATTO
L’avv. D.C.G. agiva nei confronti di B. G., E. e M., innanzi al Tribunale di Taranto, per il pagamento di un compenso professionale per attività stragiudiziali aventi ad oggetto il reperimento di proposte d’acquisto di pacchetti azionari di varie società e che avevano dato luogo a due diverse trattative. Resistendo i convenuti, che contestavano sia la propria legittimazione passiva, sia il merito della pretesa, il Tribunale accoglieva la domanda condannando ciascuno di questi ultimi al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro 38.734,27.
L’appello principale dei B. e quello incidentale del D. C. erano respinti dalla Corte di Lecce, sezione distaccata di Taranto.
Richiamandosi ad altro proprio precedente fra le medesime parti (confermato poi in Cassazione), la Corte territoriale – per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità – riteneva che la legittimazione dovesse valutarsi a stregua della prospettazione della domanda operata dall’attore, il quale aveva dedotto di aver ricevuto dai convenuti un paritario incarico professionale finalizzato a verificare la possibilità della vendita di azioni societarie, di cui essi “avevano la materiale disponibilità e titolarità”, essendo le stesse azioni in parte pervenute loro per successione ereditaria, e in parte intestate alla vedova, Bi.Ca.. Nel merito, riteneva che l’attività svolta dall’attore dovesse ricondursi alla fattispecie della prestazione d’opera intellettuale avente ad oggetto un incarico di natura extragiudiziale, e non ad un contratto di mediazione, essendo stata posta in essere nell’esclusivo interesse dei B., in un rapporto di collaborazione e forse anche di dipendenza, che escludeva in radice la terzietà tipica del mediatore. Quanto alla prova del rapporto, la Corte ricavava il conferimento e l’esecuzione dell’incarico – anche a prescindere dalle deposizioni dei testi M., F. e L., di cui gli appellanti avevano dedotto la nullità – dalle dichiarazioni rese da altri testi ( O., P., Lu., S. e Po.), di cui dettagliava il contenuto.
In ordine al quantum debeatur, la Corte territoriale osservava che la particolare natura dell’incarico, diretto alla vendita alle migliori condizioni economiche di pacchetti azionari, da un lato implicava una compiuta valutazione patrimoniale delle società, e dall’altro richiedeva di sondare il mercato, sicchè il valore dell’affare doveva determinarsi in ragiona del prezzo offerto (ossia 5 miliardi di lire per una trattativa, e 10 miliardi per l’altra), con applicazione ad esso del coefficiente medio dell’1,5%, non rilevando il fatto che gli affari non fossero andati a buon fine, ciò essendo dipeso dall’opposizione di B.G..
Per la cassazione di tale sentenza B.M., E. ed A., quest’ultimo non in proprio, bensì quale tutore del genitore interdetto, B.G., propongono ricorso, affidato a quattro motivi.
Resiste con controricorso D.C.G..
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. – Preliminarmente va esaminata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per decorso del termine di cui all’art. 326 c.p.c.. Sostiene parte ricorrente di aver notificato la sentenza impugnata personalmente alle parti, odierne ricorrenti, l’11.2.2006, essendo deceduto il procuratore domiciliatario, avv. Giacomo Racugno, il 6.11.2004, pendente il giudizio d’appello. Pertanto, il ricorso per cassazione, depositato presso l’ufficio notifiche il 18.10.2006, dovrebbe ritenersi tardivamente proposto.
1.1.- L’eccezione è infondata.
Infatti, il ricorso per Cassazione – che non può essere notificato presso il procuratore domiciliatario dell’intimato per essere il predetto procuratore deceduto – deve essere notificato, ove l’intimato sia stato assistito nel giudizio di appello anche da altro procuratore, non all’intimato personalmente ma presso detto procuratore (Cass. nn. 3125/12 e 4116/90).
Nella specie, nel giudizio d’appello gli odierni ricorrenti erano rappresentati, oltre che dall’avv. Racugno, anche dall’avv. Lorenza Calvario, cui, pertanto, avrebbe dovuto essere notificata la sentenza una volta venuta meno la possibilità di notificarla al procuratore domiciliatario.
2, – Col primo motivo è dedotta la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 113 c.p.c., comma 1, prima parte, art. 115 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
Deduce parte ricorrente che la sentenza impugnata avrebbe indicato i fatti di causa in maniera generica, vaga ed erronea, senza dare contezza, neppure in sintesi, delle domande attoree, relative a due incarichi professionali, e in maniera tale da non integrare il requisito di concisa esposizione dello svolgimento del processo richiesto a pena di nullità dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.
2.1. – Il motivo è infondato.
In tema di contenuto della sentenza, la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto della decisione, richiesta dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, nella versione anteriore alla modifica da parte della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 17, non rappresenta un elemento meramente formale, ma un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione della intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui mancanza costituisce motivo di nullità della sentenza solo quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, stante il principio della strumentalità della forma, per il quale la nullità non può essere mai dichiarata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 3), e considerato che lo stesso legislatore, nel modificare l’art. 132 cit., ha espressamente stabilito un collegamento di tipo logico e funzionale tra l’indicazione in sentenza dei fatti di causa e le ragioni poste dal giudice a fondamento della decisione (Cass. n. 22845/10;
analogamente, Cass. n. 1170/04, secondo cui la sola carente esposizione, in apposita parte separata dalle altre, dello svolgimento del processo, non vale ad integrare un motivo di milita della sentenza, purchè dal contesto di questa sia dato desumere con sufficiente chiarezza le vicende processuali e in particolare le domande svolte nel processo, le sottese difese e le ragioni delle conseguenti decisioni adottate sulle stesse).
Nella specie dalla sentenza impugnata si ricava con sufficiente chiarezza che il D.C. aveva domandato il pagamento di un compenso per un’attività stragiudiziale svolta in relazione a due incarichi, uno per la cessione del pacchetto azionario delle società OMT, Lamel e Ornotec (v. pagg. 4 e 6 della sentenza d’appello), e l’altro per la vendita della Oceania s.p.a. (v. pag. 4), e a tali fatti la Corte territoriale si è in riferita, in maniera intelligibile, nel pronunciarsi.
3. – Col secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli ant. 99, 100 e 112 c.p.c. e art. 2331 c.c., comma 1, art. 2325 c.c., comma 1, artt. 2359 e 2384 c.c., ed allegata la nullità della sentenza e il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Con tale motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per non aver compreso che l’eccezione di difetto di legittimazione passiva, riprodotta quale motivo d’appello, derivava dal fatto che i B. erano stati convenuti in giudizio nella loro qualità di eredi di B.O. e l’attore ne aveva chiesto la condanna in tale loro qualità e pro quota, con la conseguenza che essi sarebbero privi di legittimazione ed interesse a contraddire visto che tale indicata qualità collideva apertamente con i fatti narrati dalla parte attrice, tutti riferiti ad un periodo di tempo successivo alla morte di B.O.. Pertanto, la Corte territoriale avrebbe dovuto non già ritenere solidale, piuttosto che parziaria, l’obbligazione a carico dei B., ma semplicemente rigettare la domanda. Oltre a incorrere così nel vizio di ultrapetizione, la Corte distrettuale ha motivato in merito all’eccezione di carenza di legittimazione passiva in maniera logicamente sconnessa, tautologica e giuridicamente errata, supponendo senza alcuna base nei fatti che gli odierni ricorrenti potessero disporre dei pacchetti azionari delle società.
3.1. – Il motivo è infondato.
Premesso che la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione diretta all’ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della controversia (giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. tra le ultime e per tutte Cass. n. 14177/11), e che, a sua volta, la natura giuridica dell’azione esercitata dipende dal nesso esistente tra l’effetto giuridico domandato e i fatti storici posti a fondamento della pretesa, va osservato che nella sentenza impugnata si afferma che ‘attenendo la questione alla titolarità del rapporto di mandato professionale e dunque alla sfera contrattuale, la stessa si appalesa materiata di una questione meramente terminologica, giacchè avendo l’attore prospettato che i convenuti in modo congiunto ebbero a conferirgli gli incarichi per cui è causa, gli stessi, ove gli estremi del conferimento fossero stati provati, ne avrebbero dovuto solidarmente rispondere, ma ciò impone eventualmente a questo giudice di ritenere solidale e non parziaria l’obbligazione dedotta in causa (…), ma giammai comporterebbe un rigetto della domanda’.
Prosegue la Corte territoriale affermando che l’attore ‘ha fondato la propria pretesa su di un incarico professionale finalizzato a verificare la possibilità della vendita di azioni societarie conferitagli paritariamente dai convenuti, che dunque ne avevano la materiale disponibilità e titolarità, essendo le stesse in parte ad essi pervenute per successione ereditaria ed in parte intestate alla vedova di Pi.Ca.’.
Sebbene in maniera appena contorta e tecnicamente non impeccabile, la Corte territoriale ha tuttavia chiaramente qualificato la domanda come azione contrattuale di adempimento di un contratto di incarico professionale conferito da più persone congiuntamente, contratto che, pertanto, è a sua volta riconducibile allo schema generale del mandato collettivo. Ciò posto, tanto la derivazione ereditaria quanto la titolarità delle azioni oggetto della trattativa affidata al mandatario, sono circostanze prive di rilievo ai fini della legittimazione passiva dei mandanti. Mediante l’espresso richiamo ad analogo precedente fra le stesse parti (definito con sentenza n.9346/03 di questa Corte), i giudici d’appello hanno inteso affermare che, come in allora, anche nella specie l’eventuale diversa titolarità delle azioni non costituiva un fattore ostativo alla configurazione del rapporto sostanziale dedotto, atteso che il mandante può di fatto essere in grado di disporre di azioni intestate ad altri, come avviene (nel caso in cui l’intestazione sia fittizia o fiduciaria ovvero) nell’ipotesi in cui il mandante abbia comunque la possibilità di condizionare o influenzare la condotta degli intestatari. Infine, proprio perchè, come rileva parte ricorrente, la qualità di eredi di B.O., con riferimento alla quale l’attore ha convenuto in giudizio B. G., E. e M., collide apertamente con gli stessi fatti posti a base della domanda, che sono successivi alla morte del de cuius, è di tutta evidenza che i B. sono stati evocati in giudizio per rispondere di un debito proprio e non già ereditario, cioè esistente nel patrimonio del loro dante causa. In senso contrario non militano le espressioni improprie adoperate dall’attore nel formulare le proprie conclusioni di merito, posto che l’interpretazione della domanda deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria (cfr. Cass. S.U. n. 3041/07).
4 – Col terzo motivo parte ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1350, 1392, 1362 e ss., 1704, 2230, 2697, 2700, 2725, 2733 e 2909 c.c., nonchè del R.D.L. n. 1578 del 1933 e degli artt. 57, 112, 115, 116 e 126 c.p.c., nonchè la nullità della sentenza per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
La sentenza impugnata, si sostiene, sarebbe nulla per non aver fatto alcun cenno all’interrogatorio formale dell’attore, che avrebbe.
confessato l’inesistenza degli incarichi, preferendo ad esso alcune testimonianze il cui tenore la Corte territoriale ha per di più modificato rispetto al loro significato oggettivo.
La Corte distrettuale, prosegue parte ricorrente, ha arbitrariamente sovrapposto la sua personale opinione alle emergenze di causa, lì dove ha apoditticamente espresso il proprio convincimento che nella specie ricorresse una prestazione d’opera intellettuale piuttosto che un contratto di mediazione, sulla base di tre rilievi incongrui ed erronei, ossia che il D.C. aveva già svolto per conto di B.O. un’attività di consulenza legale, che il R.D. n. 1578 del 1933 dichiara incompatibile la professionale forense con l’attività di mediazione, e che l’attività del D.C. si svolse nell’esclusivo interesse dei proponenti, nell’ambito di un rapporto di collaborazione e forse anche di dipendenza dai B..
Ancora, la Corte territoriale, lungi dall’esaminare il motivo d’impugnazione col quale era stata fatta valere la nullità dell’ordinanza che aveva ammesso, tra gli altri mezzi di prova, anche l’assunzione dei testi L. e F., si è limitata ad affermare che il conferimento dell’incarico in questione era provato anche a prescindere dalle censure mosse all’ammissione dei predetti testi, così omettendo l’esame della censura.
Contrariamente a quanto affermato dalla Corte distrettuale, che ha individuato nelle testimonianze dei testi O., P., Lu., S. e Po. la fonte del proprio convincimento circa il conferimento dei due incarichi da parte dei convenuti, tali deposizioni sono del tutto incongrue rispetto all’oggetto dell’indagine. Il teste O. non era presente al momento del conferimento dell’incarico, ma solo alla trattativa tra il D.C. e il sig. F., mentre nulla sapeva in merito al c.d. affare (OMISSIS); l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui la teste P. era a conoscenza delle condizioni non floride in cui versava l’azienda e del fatto che il D.C. sollecitava la vendita delle azioni prima che tale situazione si aggravasse, non presenta alcuna connessione col tema di prova; la teste S. si è richiamata a quanto appreso dal teste Lu., e questi, a sua volta, si è riferito alle pressioni del D.C. affinchè la trattativa con il sig. F. per la vendita delle azioni della OMT s.p.a. si concludesse entro il 31.12.1987, data entro la quale l’acquirente avrebbe potuto ottenere non meglio precisati finanziamenti. Di fronte a tali deposizioni, il convincimento espresso dalla Corte d’appello, lungi dal rientrare nell’insindacabile potere discrezionale di valutazione delle prove, ha indebitamente ed erroneamente desunto il conferimento dell’incarico sulla base di un processo logicamente e giuridicamente viziato. Infine, il teste Po., la cui testimonianza la Corte d’appello ha ritenuto essere ancora più chiara in merito al preteso conferimento dei due incarichi, nel deporre sul c.d. affare (OMISSIS) ha dichiarato di non sapere nulla della trattativa fra quest’ultimo e il D.C..
Del pari erroneo, incoerente e apodittico, conclude parte ricorrente, è il convincimento espresso dai giudici d’appello circa la natura professionale dell’attività svolta dal D.C., essendo di tutta evidenza gli errori, i fraintendimenti e le sviste che affliggono la sentenza impugnata.
4.1. – Il motivo è inammissibile.
In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (così, Cass. n. 19443/11).
Nella specie il motivo spazia dalla violazione di legge, ai vizi motivazionali e ai profili di nullità (attraverso il richiamo agli artt. 57, 112, 115, 116 e 126 c.p.c., cui si aggiunge, nell’esposizione, anche la dedotta violazione dell’art. 244 c.p.c., il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), e sviluppa promiscuamente le sue varie censure attraverso continui richiami alla valutazione del materiale istruttorio. Enunciata in termini di legittimità, ma in concreto declinata secondo parametri di erroneità, la critica svolta dalla parte ricorrente mira, in realtà, a provocare un sostanziale quanto inammissibile sindacato di merito ad opera di questa Corte.
Considerazioni del tutto analoghe valgono in ordine al quarto motivo, che denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2233, 2237, 2697 e 2733 c.c., degli artt. 4, 5, 6 e 10 della tariffa forense in materia stragiudiziale civile e penale, e dell’art. 112 c.p.c., la nullità della sentenza, nonchè il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
Anche in tal caso parte ricorrente condensa in un medesimo motivo una pluralità di questioni che tendono a confondersi l’una nell’altra.
Le censure svolte partono dal criterio di valore dei due affari adottato ai fini della determinazione del compenso richiesto dal D. C., proseguono nella valutazione di una bozza contrattuale, cui si nega ogni rilievo a tal fine, pervengono ad affermare il valore indeterminabile degli affari in oggetto, in quanto asseritamente non desumibile dal prezzo di offerta, e si appuntano, infine, su di un apprezzamento erroneo, ma tutt’altro che decisivo, della Corte territoriale, che ha utilizzato impropriamente il concetto di ‘responsabilità’ per chiarire che la mancata conclusione delle trattative intavolate dal D.C. era dipesa da una libera scelta dei mandanti. Quindi, a conclusione del motivo parte ricorrente afferma che ‘il ragionamento complessivamente svolto dalla Corte nell’impugnata sentenza è al contempo illogico, contraddittorio, carente ed errato e la sentenza pronunciata abnorme e radicalmente viziata’, a conferma di un inestricabile condensato di critiche, incompatibile con l’onere di specificità imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 4.
6. – In conclusione il ricorso va respinto.
7. – Le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza dei ricorrenti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, che liquida in Euro 4.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge.
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