Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 16 maggio 2014, n. 10852
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il 13 maggio 1998, S.F. , premesso che era proprietaria di una unità immobiliare in un edificio sito in (omissis) ; che Si.Ro. , proprietario di un’altra unità immobiliare del medesimo edificio, aveva installato un ascensore esterno a servizio della propria unità immobiliare; che il Si. ed altra condomina, T.B.A. , avevano mutato la destinazione d’uso delle proprie unità immobiliari da, rispettivamente, albergo e abitazione, a comunità terapeutica assistita; che le modifiche attuate avevano determinato immissioni nocive ed erano illegittime trattandosi di innovazioni non debitamente autorizzate dall’assemblea condominiale, che determinavano un uso illegittimo delle parti comuni dell’edificio, ne alteravano il decoro architettonico e pregiudicavano la proprietà di essa attrice; tanto premesso, la S. conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, il Si. e la T.B. chiedendo che fossero condannati ad eliminare le opere e le innovazioni illegittimamente realizzate e al risarcimento dei danni.
Si costituivano entrambi i convenuti, contestando le domande e chiedendone il rigetto.
L’adito Tribunale, istruita la causa a mezzo c.t.u., con sentenza depositata il 13 maggio 2004, rigettava le domande, ritenendo legittime le opere e le modifiche attuate dai convenuti.
Avverso questa sentenza S.F. proponeva gravame; nella resistenza degli appellati, la Corte d’appello di Messina, con sentenza depositata in data 1 giugno 2007, rigettava l’appello.
Quanto al primo e al secondo motivo di gravame (erronea valutazione delle risultanze obiettive della c.t.u., a prescindere dalla non condivisione di alcune valutazioni espresse dall’ausiliario; non corretta qualificazione giuridica della domanda, travisamento dei fatti ed erronea interpretazione delle norme di legge applicabili al caso), la Corte distrettuale rilevava che l’appellante si era limitata a richiamare il riconoscimento, da parte del c.t.u., della sussistenza oggettiva delle opere e delle modifiche denunziate con l’atto di citazione, senza tuttavia opporre conducenti argomentazioni contrarie a quelle contenute nella sentenza impugnata, tutte orientate nel senso della legittimità delle opere e delle modificazioni attuate dagli appellati.
La Corte d’appello ricordava, quindi, che il Tribunale aveva rilevato, con approfondita motivazione: che la installazione dell’ascensore esterno all’edificio, in quanto eseguita a spese esclusive del condomino Si. , non richiedeva, ai sensi degli artt. 1120 e 1121 cod. civ., autorizzazione del Condominio, rientrando nella previsione di cui all’art. 1102 cod. civ.; che la detta innovazione doveva essere considerata legittima in quanto insisteva su parte comune dell’edificio, non incideva sull’uso degli altri condomini su tale parte comune, non pregiudicava la stabilità dell’edificio, comportava una modifica legittima del muro perimetrale, senza alterare negativamente il decoro architettonico dell’edificio; che nella specie era applicabile l’art. 3 della legge n. 13 del 1989, prevedente deroga all’obbligo del rispetto delle distanze dalle vedute; che il mutamento di destinazione delle unità immobiliari dei convenuti non era vietato dal regolamento condominiale; che non sussistevano immissioni illegittime. E tali motivazioni, ad avviso della Corte d’appello, non avevano formato oggetto di specifiche censure ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ..
Quanto al terzo motivo, concernente la condanna dell’appellante alle spese, la Corte d’appello riteneva sussistenti giusti motivi per compensare per metà tra le parti sia le spese del primo grado che quelle del grado di appello.
Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso S.F. sulla base di tre motivi.
Gli intimati non hanno svolto difese.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., evidenziando il difetto di motivazione della sentenza impugnata.
In particolare, la Corte d’appello, ad avviso della ricorrente, si sarebbe limitata a fare propria la motivazione della sentenza di primo grado, cosi omettendo di rispondere adeguatamente alle censure proposte. Con il primo motivo, infatti, si era fatto rilevare al giudice del gravame che l’installazione dell’ascensore e le opere relative costituivano innovazioni, in quanto non previste nei progetti originari dell’immobile; che i convenuti non avevano rispettato le distanze legali dalle vedute dei balconi sui prospetti nord ed est di essa ricorrente, con conseguente violazione della privacy; che il fabbricato aveva subito un radicale cambiamento nella sua struttura e nella sua destinazione d’uso; che le denunciate immissioni di esalazioni nocive ed inquinanti costituivano molestia e turbativa, come i rumori provenienti da quella parte dell’edificio, destinata dai convenuti a CTA prima, e a ricovero per anziani poi; che l’uso dell’ascensore da parte dei fruitori aveva determinato una perdita del valore commerciale della sua unità immobiliare. Con il secondo motivo, poi, essa ricorrente aveva evidenziato il comportamento illegittimo e arbitrario degli appellati, risultando chiaramente dagli atti di causa che tutte le opere e le modificazioni erano state poste in essere esclusivamente a vantaggio delle unità immobiliari degli appellati e in suo danno. Non risponde quindi al vero che le censure svolte nell’atto di appello non fossero specifiche; sicché la sentenza impugnata, motivata sostanzialmente per relationem a quella di primo grado, risulta viziata, non rinvenendosi nella motivazione elementi tali da indurre a ritenere che il giudice del gravame abbia esaminato e valutato i motivi di impugnazione.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1102 cod. civ.; violazione degli artt. 1121, 1122 e 1120 cod. civ.; mancata applicazione della norma, motivazione omessa: art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.; erronea valutazione delle risultanze processuali: violazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.; motivazione omessa, comunque non idonea e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.
La ricorrente ricorda che con l’atto di appello aveva censurato la sentenza di primo grado perché non aveva apprezzato nella oggettività risultante dagli accertamenti del c.t.u. la illegittimità della installazione dell’ascensore, vera e propria innovazione vietata e non giustificata neanche dalla legge sull’abbattimento delle barriere architettoniche.
Ad avviso della ricorrente, l’intervento in questione non poteva in alcun modo essere ricondotto nell’ambito di applicazione dell’art. 1102 cod. civ., atteso che era risultata alterata la destinazione della cosa comune e ne era stato impedito agli altri condomini, e segnatamente ad essa ricorrente, di farne parimenti uso. Del resto, il c.t.u. aveva qualificato l’installazione dell’ascensore come innovazione, in quanto non prevista dai progetti originari; aveva accertato che erano state violate le norme in tema di distanze legali dalle vedute dei balconi ; che era risultato occupato uno spazio comune, sottratto alla utilizzazione degli altri condomini quale area di parcheggio; che la detta installazione aveva consentito il mutamento di destinazione delle unità immobiliari dei convenuti, dalle quali provenivano immissioni dannose proprio in considerazione della utilizzazione dell’ascensore consentita ai fruitori della struttura a qualsiasi ora.
In tale contesto, sostiene la ricorrente, la Corte d’appello non avrebbe potuto condividere le motivazioni del Tribunale, essendo evidente che le modificazioni apportate dagli intimati avevano implicato alterazioni della consistenza e della destinazione della cosa comune, pregiudicando i diritti di uso e di godimento degli altri condomini, e che quindi le stesse integravano una innovazione vietata ai sensi dell’art. 1120 cod. civ.. Ed ancora, erronea si rivelava la motivazione della sentenza impugnata quanto al mancato riconoscimento, nella descritta situazione di fatto, di ulteriori elementi di illegittimità: a) l’occupazione dello spazio comune del condominio ad opera dell’ascensore, che aveva altresì impedito la utilizzabilità dei detti spazi e di quelli circostanti come parcheggio; b) la installazione dell’ascensore aveva certamente alterato il profilo architettonico dell’edificio cosi come il mutamento di destinazione era avvenuto illegittimamente; in proposito, la ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello avrebbe omesso ogni motivazione sulle ragioni per cui gli interventi complessivamente posti in essere, ivi compreso il mutamento di destinazione, non sarebbero stati illegittimi; e ciò tanto più in quanto dalla installazione dell’ascensore e dalle altre innovazioni non era derivata alcuna utilità per gli altri condomini; c) la installazione dell’ascensore aveva determinato la costituzione di servitù a carico dell’appartamento di sua proprietà.
A conclusione del motivo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “Se l’ascensore, installato all’esterno di un edificio preesistente, sia pure a spese di un singolo partecipante alla comunione, che serva soltanto le unità immobiliari di questi e non consente il “pari uso” agli altri condomini; che muti o radicalmente trasformi la destinazione originaria dell’edificio; che ne alteri il decoro architettonico; che occupi suolo comune destinato a parcheggio, a tal fine rendendolo inservibile; che non rispetti le distanze legali dalle vedute come progettate originariamente e come esistenti, e che crei abusive servitù, ed immissioni moleste, in danno di unità immobiliari di altri condomini; costituisca fattispecie inquadrabile nella previsione dell’art. 1102 c.c. o non costituisca, piuttosto, innovazione vietata ai sensi dell’art. 1120 c.c., secondo comma”.
3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta “erronea interpretazione della legge 9 gennaio 1989, n. 13; falsa applicazione dell’art. 3 e delle altre norme riferentisi alle opere per il superamento delle barriere architettoniche nei complessi condominiali privati; mancata applicazione dell’art. 907 c.c. in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.; insufficiente e contraddittoria, quando non omessa, motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio”.
Ad avviso della ricorrente, la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere applicabile, nel caso di specie, l’art. 3 della legge n. 13 del 1989, trattandosi di convincimento contrastante con quanto affermato dal c.t.u., il quale aveva rilevato che la installazione della piattaforma era stata realizzata a distanza inferiore a quella minima consentita dalle norme del codice civile nel caso di esercizio di vedute. Inoltre, non poteva esservi dubbio sul fatto che non esisteva alcuna deliberazione assembleare sul punto della installazione dell’ascensore; circostanza, questa, erroneamente non apprezzata dalla Corte d’appello che, come il Tribunale, la ha ritenuta del tutto irrilevante. Ed ancora, l’art. 3 della legge n. 13 del 1989 opera con riferimento alla costruzione o ristrutturazione di interi edifici, mentre nel caso di specie si era in presenza di una innovazione apportata nell’interesse esclusivo di un condomino, rispetto alla quale non poteva contestarsi l’applicabilità dell’art. 907 cod. civ..
A conclusione del motivo la ricorrente formula il seguente quesito di diritto: “a) Se l’installazione, ai fini dell’abbattimento delle barriere architettoniche, di un ascensore esterno ad un edificio preesistente, possa essere inquadrata nella previsione dell’art. 3 L. 9 gennaio 1989 n. 13, o non piuttosto nella ipotesi di cui all’art. 2 della predetta legge; b) Se l’art. 2, 3 comma, della legge 9.1.1989, n. 13, prevede che, pur quando l’assemblea condominiale abbia autorizzato le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche, debba restare fermo quanto disposto dall’art. 1120, secondo comma”.
4. Il ricorso, i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente, è infondato.
Escluso che sussista la denunciata carenza assoluta di motivazione, posto che dalla sentenza impugnata si evincono le ragioni poste a fondamento della decisione, deve rilevarsi che in tema di installazione di un ascensore nell’ambito di edificio condominiale, questa Corte ha avuto di recente occasione di affermare che “in tema di condominio, l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 cod. civ., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall’art. 907 cod. civ. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell’art. 3, comma secondo, della legge 9 gennaio 1989, n. 13, non trovando detta disposizione applicazione in ambito condominiale” (Cass. n. 14096 del 2012).
In applicazione di tale principio, nella citata occasione questa Corte ebbe a cassare la sentenza impugnata che aveva ritenuto comunque operanti le norme sulle distanze. In motivazione si è chiarito che nella valutazione del legislatore, quale si desume dall’art. 1 della legge n. 13 del 1989 (operante a prescindere dalla effettiva utilizzazione degli edifici considerati da parte di persone portatrici di handicap: Corte cost. n. 167 del 1999), l’installazione dell’ascensore o di altri congegni, con le caratteristiche richieste dalla normativa tecnica, idonei ad assicurare l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici, costituisce elemento che deve essere necessariamente previsto dai progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici, ivi compresi quelli di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata, presentati dopo sei mesi dall’entrata in vigore della legge. Da tale indicazione si desume agevolmente che, nella valutazione del legislatore, l’ascensore o i congegni similari (ma negli edifici con più di tre livelli fuori terra, solo l’ascensore) costituiscono dotazione imprescindibile per l’approvazione dei relativi progetti edilizi; in altri termini, l’esistenza dell’ascensore può senz’altro definirsi funzionale ad assicurare la vivibilità dell’appartamento, sia cioè assimilabile, quanto ai principi volti a garantirne la installazione, agli impianti di luce, acqua, riscaldamento e similari. Vero è che tale qualificazione è dal legislatore imposta per i nuovi edifici o per la ristrutturazione di interi edifici, mentre per gli edifici privati esistenti valgono le disposizioni di cui all’art. 2 della legge n. 13 del 1989; tuttavia, la assolutezza della previsione di cui all’art. 1 non può non costituire un criterio di interpretazione anche per la soluzione dei potenziali conflitti che dovessero verificarsi con riferimento alla necessità di adattamento degli edifici esistenti alle prescrizioni dell’art. 2.
In questo senso – si è ulteriormente precisato – non vi è ragione per escludere, in via di principio, l’operatività, anche riguardo all’ascensore, del principio secondo cui negli edifici condominiali l’utilizzazione delle parti comuni con impianto a servizio esclusivo di un appartamento esige non solo il rispetto delle regole dettate dall’art. 1102 cod. civ., comportanti il divieto di alterare la destinazione della cosa comune e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, ma anche l’osservanza delle norme del codice in tema di distanze, onde evitare la violazione del diritto degli altri condomini sulle porzioni immobiliari di loro esclusiva proprietà.
Tale disciplina, tuttavia, non opera nell’ipotesi dell’installazione di impianti che devono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell’appartamento, intesa nel senso di una condizione abitativa che rispetti l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini e lo sviluppo delle moderne concezioni in tema di igiene, salvo l’apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni alle unità immobiliari altrui (Cass. n. 7752 del 1995; Cass. n. 6885 del 1991; Cass. n. 11695 del 1990).
In questo contesto risulta del tutto priva di rilievo la deduzione della ricorrente, secondo cui la installazione dell’ascensore non poteva essere qualificata come uso più intenso della cosa comune, integrando anzi una innovazione, per non essere stata prevista nei progetti originari di costruzione dell’edificio e per non essere stata preceduta da apposita delibera assembleare.
Appare quindi evidente che la decisione impugnata, nella parte in cui ha ricondotto nell’ambito di applicazione dell’art. 1102 cod. civ. la questione della installazione, da parte di un condomino e a proprie spese, di un ascensore esterno, si sia attenuta all’indicato principio di diritto e sia dunque immune dalle censure di violazione di legge formulate dalla ricorrente.
4.1. Né può ritenersi che la installazione dell’impianto trovasse ostacolo nella applicazione delle norme sulle distanze di cui all’art. 907 cod. civ., pure invocata, segnatamente nel terzo motivo, dalla ricorrente.
Nella giurisprudenza di questa Corte (vedi, da ultimo, Cass. n. 14096 del 2012, cit. ; Cass. n. 6546 del 2010) si è infatti affermato il principio per cui le norme sulle distanze sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l’applicazione di quest’ultima non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l’inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all’art. 1102 cod. civ., deve ritenersi legittima l’opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell’edificio condominiale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabili alla costruzione di un balcone le norme in tema di vedute e non anche quella dell’art. 1102 cod. civ.).
La Corte d’appello ha quindi correttamente escluso, nel caso di specie, la violazione dell’art. 907 cod. civ., avendo ritenuto accertato che il manufatto realizzato dagli intimati su cose comuni avesse rispettato i limiti posti dall’art. 1102 cod. civ. all’uso della cosa comune. Ciò tanto più in quanto dalla stessa sentenza impugnata emerge che il giudice di primo grado, recependo l’accertamento svolto dal consulente tecnico d’ufficio, aveva concluso nel senso della insussistenza del pregiudizio per l’utilizzazione della cosa comune (area esterna all’edificio sulla quale è stato realizzato l’impianto).
Né può ritenersi che la disciplina di cui all’art. 907 cod. civ. potesse operare per effetto del richiamo ad essa contenuto nell’art. 3, comma 2, della legge n. 13 del 1989. In proposito, deve rilevarsi che l’art. 3 citato dispone, al comma 1, che le opere di cui all’art. 2 possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati e, al comma 2, che è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c. nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune. Nel suo complesso, tale disposizione non può ritenersi applicabile all’ipotesi in cui venga in rilievo, non un fabbricato distinto da quello comune, ma una unità immobiliare ubicata nell’edificio comune. In sostanza, il richiamo contenuto nell’art. 3, comma 2, ai “fabbricati alieni” impone di escludere che la disposizione stessa possa trovare applicazione in ambito condominiale.
Difetta, dunque, nel caso di specie, il presupposto di fatto per l’operatività della richiamata disposizione di cui all’art. 907 cod. civ., e cioè l’altruità del fabbricato dal quale si esercita la veduta che si intende tutelare.
4.3. Ed ancora, deve rilevarsi che, secondo quanto riferito dalla sentenza impugnata, il consulente tecnico d’ufficio aveva positivamente escluso la lesione del decoro architettonico, svolgendo argomentate osservazioni in proposito.
4.4. Le deduzioni della ricorrente con le quali si mira a contrastare la valutazione, in fatto, della riconducibilità dell’intervento operato dagli intimati nell’ambito di applicazione dell’art. 1102 cod. civ. e non già in quello dell’art. 1120 cod. civ., appaiono insuscettibili di accoglimento, risolvendosi le stesse in una sostanziale richiesta di nuovo apprezzamento di circostanze di fatto già adeguatamente considerate e valutate dal giudice di merito (nel caso di specie, da entrambi i giudici di merito).
In proposito, deve ricordarsi che l’obbligo di motivazione del giudice è ottemperato mediante l’indicazione delle ragioni della sua decisione, ossia del ragionamento da lui svolto con riferimento a ciascuna delle domande o eccezioni (nel giudizio di primo grado) o a ciascuno dei motivi d’impugnazione (nei giudizi d’impugnazione), mentre non è necessario che egli confuti espressamente – pur dovendoli prendere in considerazione -tutti gli argomenti portati dalla parte interessata a sostegno delle proprie domande, eccezioni o motivi disattesi e cioè anche gli argomenti assorbiti o incompatibili con le ragioni espressamente indicate dal giudice stesso (Cass. n. 12123 del 2013).
D’altra parte, la stessa formulazione dei quesiti di diritto prospettati dalla ricorrente a conclusione del secondo e del terzo motivo, postula l’accertamento di circostanze di fatto che invece la Corte d’appello, e prima il Tribunale, hanno invece escluso (significativi sono sia il riferimento alla lesione del decoro architettonico, che la stessa ricorrente riferisce essere stata esclusa dal c.t.u., sia il riferimento alla perdurante possibilità di utilizzo dell’area parzialmente occupata dall’impianto, che i giudici di merito hanno affermato essere rimasta parimenti garantita alla ricorrente), mentre l’eventuale mutamento di destinazione delle unità immobiliari dei resistenti (peraltro nella sentenza d’appello si riferisce – senza che sul punto la ricorrente abbia svolto deduzioni in senso contrario – che la T.B. ha precisato di avere successivamente destinato nuovamente la propria unità immobiliare a civile abitazione) è stato ritenuto dalla Corte d’appello irrilevante in considerazione del fatto che non era vietato dal regolamento di condominio. Altrettanto è a dirsi quanto alle distanze legali, che la ricorrente nella formulazione dei quesiti ritiene violate, laddove la Corte d’appello ha escluso l’applicazione della relativa normativa, in forza di quanto disposto dalla legge n. 13 del 1989.
5. In conclusione, il ricorso è infondato e va quindi rigettato.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
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