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Nell’interpretazione quindi della norma codicistica in un’ottica soltanto funzionale alla punibilita’ di reati commessi in parte all’estero, la giurisprudenza, in assenza peraltro di disposizioni sul punto, si e’ preoccupata soltanto di ricercare un elemento di collegamento con il territorio dello Stato che giustificasse l’attrazione del fatto illecito nell’ambito della giurisdizione italiana, spesso individuato anche solo in un apprezzabile “frammento” della condotta in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero.
Il legislatore non si e’ invece curato di coordinare questa disposizione con la concorrente giurisdizione di altro Stato, il cui territorio sia stato parimenti interessato dall’iter criminoso (a differenza invece della ipotesi del reato commesso interamente all’estero, disciplinata dagli articoli 9 e 10 c.p., le cui previsioni, che se pur ispirate ad una tendenza universalistica della legge penale, ne condizionano il perseguimento nello Stato al bilanciamento tra le diverse esigenze del rispetto di impegni internazionali e della repressione penale).
Anzi, la prospettiva del codice relativamente ai reati commessi in parte sul territorio dello Stato, come dimostra plasticamente l’articolo 11 c.p., e’ quella della irrilevanza giuridica dell’esercizio della concorrente giurisdizione (Sez. 1, n. 708 del 08/04/1970, Tognolini, Rv. 115576).
E’ evidente che questa interpretazione dell’articolo 6 c.p., comma 2, risulti inadeguata quando vengano in considerazione esigenze di cooperazione internazionale, ponendosi in frizione con il mutato quadro internazionale ed in particolare con il contesto dello spazio giudiziario Europeo, nel quale la punibilita’ di taluni gravi reati, tipicamente transnazionali, costituisce un obiettivo “comune” delle politiche repressive degli Stati.
Queste considerazioni hanno ispirato talune interpretazioni ristrettive della portata dell’articolo 18, lettera p), cit., che tuttavia non appaiono condivisibili.
Da un lato, e’ parso possibile addivenire ad una nozione di “parte” del reato diversa (e meno espansiva) da quella fornita dall’articolo 6 c.p., comma 2. Tuttavia, tanto la norma Europea quanto la suddetta disposizione rinviano alla nozione interna di parte del reato.
Dall’altro, come dimostra la sentenza impugnata, si e’ cercato di attenuare l’impatto della disposizione, conferendo alla ipotesi in essa descritta soltanto l’effetto di ostacolare facoltativamente la consegna.
Questa Corte di recente ha gia’ avuto modo di pronunciarsi sulla natura obbligatoria di questa ipotesi di rifiuto in un caso in cui il giudice di merito, accedendo ad un’interpretazione adeguatrice della citata norma nei medesimi termini esposti nella sentenza ora in esame, aveva rifiutato la consegna (Sez. 6, n. 5549 del 01/02/2018, Manco, non ancora massimata).
In tal caso, la Suprema Corte ha escluso che si potesse accogliere una siffatta esegesi, sul rilievo che la formulazione del motivo di rifiuto in questione nella legge sul mandato di arresto Europeo, in termini espressamente obbligatori, non evidenziava alcun “insanabile contrasto” con la disposizione contenuta nella decisione quadro del 2002, che ha invece adottato una formula di tipo “elastico” (“L’autorita’ giudiziaria dell’esecuzione puo’ rifiutare di eseguire il mandato d’arresto Europeo… se il mandato d’arresto Europeo riguarda reati.. che dalla legge dello Stato membro di esecuzione sono considerati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in un luogo assimilato al suo territorio”), cosi’ consentendo ad ogni Stato, in sede di adattamento, di optare per il regime ritenuto piu’ compatibile con il proprio ordinamento.
Piuttosto, secondo la Corte di legittimita’, la diretta applicazione della norma Europea avrebbe avuto l’effetto di lasciare del tutto indefinita la facolta’ di rifiuto attribuita al giudice italiano, stante la totale assenza di specificazioni circa l’ambito di discrezionalita’ da riconoscere all’autorita’ giudiziaria dello Stato di esecuzione.
Nel citato arresto, la Suprema Corte ha infatti escluso che l’interpretazione proposta dai giudici di merito potesse trovare accoglimento, facendo leva sulla disciplina concernente la prevenzione e la risoluzione di conflitti di giurisdizione penale tra i Paesi dell’Unione Europea, intervenuta successivamente alla decisione quadro del 2002 in tema di mandato di arresto Europeo (ed alla L. n. 69 del 2005), posto il Decreto Legislativo n. 29 del 2016, contenente la relativa normativa di adattamento, prevede sia specifiche competenze, di natura giurisdizionale ma anche politica, sia lo svolgimento di un articolato iter procedimentale ai fini della decisione di concentrare il procedimento penale in altro Stato membro, da concludere con una sentenza di improcedibilita’ dell’azione penale in Italia.
La decisione di “trasferire” il procedimento penale per il quale sussiste anche la giurisdizione italiana con la sentenza che decide sulla richiesta di consegna in esecuzione di mandato di arresto Europeo verrebbe pertanto ad implicare una violazione delle competenze, delle procedure e delle articolate valutazioni previste dal Decreto Legislativo n. 29 del 2016 in presenza di procedimenti penali paralleli.
Coerentemente a questo quadro normativo, un limite al divieto di consegna di cui alla L. n. 69 del 2005, articolo 18, comma 1, lettera p), e’ stato individuato dalla Suprema Corte piuttosto nel caso in cui, nel rispetto delle competenze e procedure previste dal Decreto Legislativo n. 29 del 2016, sia stato raggiunto un accordo sulla concentrazione dei procedimenti penali e sia stata pronunciata, dal giudice del procedimento o del processo, sentenza di improcedibilita’ dell’azione penale in Italia.
4.2. Nel ribadire che il motivo di rifiuto in esame ha natura obbligatoria, il Collegio intende peraltro effettuare alcune precisazioni, a corollario dei principi ora esposti.
Come si e’ accennato poc’anzi e come ha piu’ volte evidenziato la giurisprudenza di legittimita’, il suddetto motivo di rifiuto corrisponde ad una tradizionale ipotesi di rifiuto dell’estradizione prevista dai trattati in materia.
Non si e’ mancato di osservare che costituiva ius receptum nell’esegesi di legittimita’ che la commissione del reato in Italia non escludeva la concorrente giurisdizione straniera, ne’ impediva l’estradizione fondata sulla Convenzione Europea del 1957, in virtu’ della quale siffatta ipotesi puo’ dar luogo solo al rifiuto facoltativo di estradizione (ex articolo 7), che non e’ di competenza dell’autorita’ giudiziaria, ma che rientra nelle attribuzioni esclusive del Ministro della Giustizia (tra tante, Sez. 6, n. 9119 del 25/01/2012, Topi, Rv. 252040).
Quindi la tutela della riserva di giurisdizione, in ambito estradizionale, restava confinata in una dimensione squisitamente politica, rilevando in sede giurisdizionale soltanto i casi in cui fosse gia’ pendente nello Stato un procedimento penale per i medesimi fatti ovvero che lo stesso si fosse concluso con sentenza irrevocabile (ex articoli 8 e 9 della Convenzione Europea cit. e articolo 705 c.p.p., comma 1), entrambi costituenti ipotesi necessariamente ostative alla estradizione.
La scelta operata dal codice di rito di non annoverare tra le ipotesi ostative all’estradizione anche quella del reato commesso nel territorio dello Stato trovava la sua ratio nei rapporti tra giurisdizioni statuali, che non impediva in via di principio la creazione di procedimenti penali “paralleli” per il medesimo fatto.
Pertanto, era rimesso alle valutazioni di opportunita’ da effettuarsi in relazione al caso concreto stabilire l’esistenza di un vulnus all’esercizio della giurisdizione italiana derivante dalla disposta estradizione di una persona per un reato commesso sul territorio dello Stato.
Invero, in linea generale la mancata materiale disponibilita’ della persona non impedisce di perseguirla in ordine a tale fatto, potendo farsi luogo ad un processo di tipo contumaciale, salvo poi pervenire ad un giudicato di condanna a pena detentiva non eseguibile senza la presenza fisica dell’interessato.
Il quadro in sede Europea e’ mutato con il riconoscimento del principio del ne bis in idem con la Convenzione di Schengen del 19 giugno 1990: nell’assetto dei rapporti tra Stati dell’Unione Europea, una volta giudicata una persona con sentenza definitiva in uno Stato membro, la stessa non puo’ essere piu’ sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in altro Stato a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa piu’ essere eseguita (articolo 54).
Il che significa che, una volta consegnata la persona perche’ sia giudicata per un reato commesso in parte sul territorio dello Stato richiedente e dello Stato richiesto (situazione questa che non legittima alcuna riserva al principio del ne bis in idem, ai sensi dell’articolo 55 della Convenzione di Schengen), quest’ultimo Stato avra’ ben limitate chance per esercitare la propria giurisdizione concorrente, potendo la stessa essere paralizzata, ancor prima della conclusione del giudizio, dalla preclusione derivante dal giudicato nel frattempo formatosi all’estero.
In questa prospettiva, la scelta operata dal legislatore in sede di adattamento alla decisione quadro sul mandato di arresto Europeo di prevedere in forma obbligatoria il rifiuto della consegna in siffatte ipotesi appare coerente con il diverso assetto dei rapporti tra giurisdizioni concorrenti derivante dalla disciplina suddetta, in funzione di una tutela “avanzata” del principio di sovranita’.
Peraltro, il rifiuto della consegna non impedisce allo Stato di emissione di procedere egualmente in ordine al fatto commesso nel territorio italiano, ben potendo, come si e’ detto, perseguire l’imputato in contumacia (nulla impedisce infatti al suddetto Stato di procedere alle notifiche a mezzo posta, come prevedono le fonti pattizie applicabili in ambito Europeo, ne’ le notificazioni eseguite per altra via sono ostacolabili a motivo della litispendenza, come si evince dall’articolo 726-bis c.p.p.) e pervenire ad un giudicato che rischia comunque di inibire la prosecuzione del procedimento penale nazionale.
Va a tal riguardo rammentato che l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che ha riconosciuto il principio del ne bis in idem quale garanzia generale da invocare nello spazio giuridico Europeo (Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resneli, Rv. 268931), ogni qualvolta il caso sottoposto al giudice nazionale presenti un elemento di collegamento con il diritto dell’Unione, ha una portata piu’ ampia della norma pattizia sopra indicata, sancendo il diritto di non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso reato (“nessuno puo’ essere perseguito o condannato per un reato per il quale e’ gia’ stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”), eliminando quindi tanto la condizione della esecuzione (anche in corso) della pena quanto le riserve previste dalla precedente normativa.
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