Consiglio di Stato
sezione VI
sentenza 4 settembre 2015, n. 4114
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE SESTA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
SENTENZA PARZIALE E CONTESTUALE ORDINANZA DI RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA
sul ricorso numero di registro generale 2384 del 2013, proposto da:
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, Via (…);
contro
Al. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. Vi.Ir., Se.Ca., con domicilio eletto presso Vi.Ce. in Roma, Via (…);
sul ricorso per decreto ingiuntivo numero di registro generale 3987 del 2013, proposto da:
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, Via (…);
contro
Al. s.p.a., rappresentato e difeso dagli avvocati Vi.Ir., Se.Ca., con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Vi.Ce. in Roma, Via (…);
per la riforma
quanto al ricorso n. 2384 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I n. 00867/2013, resa tra le parti; quanto al ricorso n. 3987 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio – Roma: Sezione I n. 03718/2013, resa tra le parti;
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto gli atti di costituzione in entrambi i giudizi di Al. s.p.a.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 giugno 2015 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Fi. ed altri;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La società Al., unitamente ad altre imprese, è stata destinataria di un provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di seguito anche solo AGCM o Autorità) che, riconoscendone la partecipazione ad un’intesa restrittiva della concorrenza, ha ordinato la cessazione della condotta e ha applicato una sanzione amministrativa.
2. Il provvedimento è stato impugnato dalla società e il T.a.r. Lazio, con sentenza 29 marzo 2012, n. 3029, ha parzialmente accolto il ricorso, riconoscendo la legittimità della contestazione mossa dall’Autorità a ordinando a essa di rideterminare la sanzione, depurandola, in particolare, della quota corrispondente alla c.d. “aggravante organizzativa”.
La sentenza del T.a.r. è stata confermata in appello da questo Consiglio di Stato con sentenza n. 4506 del 2014.
3. Nelle more del giudizio di appello, la società ha proposto due diversi ricorsi, impugnando:
– il provvedimento n. 23888 del 12 settembre 2012, con il quale l’Autorità, in esecuzione della sentenza del T.a.r. n. 3029 del 2012, ha rideterminato l’ammontare della sanzione;
– una nota del Segretario Generale dell’Autorità, prot. n. 53848, in data 14 settembre 2012, con cui veniva chiesto il pagamento della maggiorazione del 10% dell’importo della sanzione (come rideterminata in attuazione della sentenza di merito del T.a.r.) ai sensi dell’art. 27, comma 6, della legge n. 689 del 1981.
4. I due ricorsi sono stati accolti dal T.a.r. Lazio.
In particolare, il T.a.r.:
con sentenza 11 aprile 2013, n. 3718, ha accolto il ricorso contro il provvedimento di rideterminazione della sanzione.
con sentenza 24 gennaio 2013, n. 876, il T.a.r. ha accolto il ricorso contro la richiesta della maggiorazione del 10%.
5. Entrambe le sentenze sono state appellate dall’AGCM con ricorsi rispettivamente iscritti al numero 3987/2014 e al numero 2384/2013 del Ruolo generale.
6. Si è costituita in entrambi i giudizi la società Al. chiedendo il rigetto degli appelli.
7. Occorre, anzitutto, disporre la riunione dei due appelli stante l’evidente connessione sia oggettiva che soggettiva.
8. La società Al. nel giudizio di primo grado ha lamentato che l’AGCM avrebbe erroneamente eseguito la sentenza del T.a.r. Lazio n. 3029/2012 (confermato in appello da questo Consiglio di Stato con sentenza n. 4056 del 2014), perché, anziché ridurre la sanzione di un importo corrispondente alla c.d. aggravante organizzativa, la cui applicazione era stata ritenuta illegittima dal T.a.r., ha confermato l’importo originariamente inflitto alla società Al., pari a Euro 8.477.792,00.
L’AGCM è giunta a tale conclusione perché ha applicato la riduzione derivante dall’eliminazione dell’aggravante organizzativa all’importo base della sanzione, determinato in Euro 16.313.734,00.
Ciò ha comportato che detto importo base, anche una volta decurtato del peso percentuale dell’aggravante (quantificato dalla stessa Autorità in Euro 3.262.747,00), è risultato comunque pari a Euro 13.050.987,00: ancora superiore, quindi, al tetto massimo del 10% del fatturato della società nell’anno 2009.
Sicché, contenendo tale ammontare entro i limiti del massimo edittale, l’importo rideterminato dell’ammenda è risultato identico a quello originario (Euro 8.477.792,00).
Il metodo seguito dall’AGCM non ha, in altri termini, portato ad alcuna riduzione della sanzione, atteso che l’eliminazione del peso percentuale dell’aggravante sul suo importo base, anziché su quello iniziale non ha comunque impedito che la sanzione continuasse a superare la soglia del 10% del fatturato e che, quindi, il quantum dovuto continuasse ad attestarsi (pur a fronte dell’accertata minore gravità della condotta ascrivibile alla Al.) sul livello massimo consentito.
La società Al., oltre a contestare la rideterminazione della sanzione, ha anche impugnato la nota a firma del Segretario Generale dell’AGCM in data 12 settembre 2012, nella parte in cui imponeva, oltre al pagamento della sanzione ammontante a Euro 8.477.792,00, anche il pagamento di una maggiorazione, ex art. 27, comma 6, legge n. 689 del 1981, in misura pari al 10% dell’importo della sanzione così rideterminata, a titolo di interessi decorrenti dall’adozione dell’originario provvedimento sanzionatorio, già annullato dal T.a.r. con la sentenza n. 3029 del 2012. La società ha contestato l’erroneità della scelta di individuare quale dies a quo per il computo degli interessi e delle maggiorazioni, la data fissata per il pagamento dal primo provvedimento sanzionatorio, poi annullato dal T.a.r., e non invece la scadenza del termine per il pagamento fissato nel provvedimento di rideterminazione.
10. Prima di affrontare nel merito le questioni di diritto sollevate dai ricorsi, occorre risolvere alcune eccezioni pregiudiziali di rito relative all’ammissibilità del ricorso di primo grado, riproposte in appello dall’AGCM.
11. In particolare, con riferimento al ricorso proposto in primo grado contro la nota del Segretario Generale dell’AGCM in data 14 settembre 2012, n. 53848 (concernente la maggiorazione del 10%), l’AGCM sostiene che il ricorso introduttivo sarebbe inammissibile sotto due profili distinti:
a) per la violazione del principio di unicità del giudizio. Secondo l’Autorità ci sarebbe una identità tra il ricorso proposto in sede di ottemperanza contro il provvedimento di rideterminazione della sanzione e il ricorso proposto secondo il rito ordinario di fronte al giudice di cognizione contro la nota del Segretario Generale concernente la maggiorazione del 10%);
b) per difetto di interesse o, comunque, per difetto di giurisdizione: secondo l’Autorità la nota del Segretario generale non avrebbe natura provvedimentale, trattandosi di un mero atto di trasmissione del provvedimento di rideterminazione della sanzione, o, in altri termini, di un sollecito al pagamento della sanzione e delle maggiorazioni che sarebbero dovute ex lege. Pertanto, detta nota non sarebbe idonea a produrre di per sé alcuna lesione diretta, lesione che potrebbe invece prodursi solo a seguito dell’attivazione delle procedura di iscrizione a ruolo e dell’emissione da parte del concessionario della riscossione della cartella di pagamento, la cui contestazione rientrerebbe però nella giurisdizione ordinaria.
12. Entrambe le eccezioni sono infondate.
Per quanto riguarda l’asserita violazione del principio di unicità del giudizio, risulta evidente la diversità (nonostante la già evidenziata connessione) tra i due ricorsi proposti, aventi ad oggetto, l’uno, il provvedimento di rideterminazione della sanzione, l’altro la maggiorazione da ritardato pagamento della sanzione di cui all’art. 27, comma 6, legge n. 689 del 1981.
Infondata è anche l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse o di giurisdizione.
Sul punto è sufficiente richiamare quanto recentemente affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui “appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. l) e 134, comma 1, lett. c), c.p.a., la controversia relativa all’intimazione di pagamento delle maggiorazioni da ritardato pagamento della sanzione, di cui all’art. 37, comma 6, legge n. 689 del 1981, atteso il carattere parimenti sanzionatorio di tale atto, strumentale non alla mera esecuzione, ma alla determinazione dell’an e del quantum delle sanzioni aggiuntive accessorie a quella principale, tale soluzione rispondendo, peraltro, ad una interpretazione costituzionalmente orientata che impone, al fine di assicurare la funzionalità del sistema processuale, di escludere il frazionamento della medesima materia tra autorità giudiziarie diverse” (cfr. Cass. Sez. Un. 16 settembre 2014, n. 22613).
13. Si può, quindi, passare all’esame del merito.
14. La prima questione controversa consiste nello stabilire se la riduzione di pena derivante dall’eliminazione dell’aggravante organizzativa debba avvenire partendo dall’importo base o dalla sanzione finale.
Il Collegio ritiene preferibile la prima soluzione: l’aggravante va scomputata dall’importo base, con la conseguenza che l’importo finale della sanzione può rimanere il medesimo. Ciò deriva dalla considerazione che, nel procedimento di quantificazione delle sanzioni irrogate dall’AGCM per le infrazioni alla concorrenza, in conformità con gli “orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’art. 23, paragrafo 2, lettera a) del regolamento CE n. 1/2003”, elaborati dalla Commissione nella Comunicazione 2006/C 210/02, il limite del 10% del fatturato non rappresenta propriamente il “massimo edittale” di una cornice sanzionatoria al cui interno deve essere concretamente calibrata la sanzione da irrogare in proporzione con la gravità del fatto, ma costituisce soltanto una “soglia legale massima”, ovvero un “correttivo” che opera dall’esterno al solo fine di evitare, comunque, l’applicazione di sanzioni di importo ritenuto in astratto eccessivamente elevato quale che sia la gravità dell’infrazione.
L’unico limite edittale che l’Autorità incontra nella determinazione dell’importo base della sanzione è rappresentato dalla percentuale del 30% riferita al valore delle vendite.
Una volta fissata nell’ambito di questa cornice edittale, in funzione della gravità dell’infrazione (tenendo conto di un certo numero di elementi, quali la natura dell’infrazione, la quota di mercato aggregata di tutte le imprese interessate, l’estensione geografica della infrazione, se sia stata data o meno attuazione all’intesa), la percentuale da applicare al valore delle vendite (e una volta moltiplicato tale importo per il numero di anni di partecipazione all’infrazione di ciascuna impresa), si applicano su questo importo gli adeguamenti in aumento o in diminuzione dipendenti dal riconoscimento di eventuali circostanze aggravanti o attenuanti e si determina, quindi, l’importo finale della sanzione, che poi viene ridotta, in un’ottica di favor per il soggetto sanzionato, entro il limite esterno del 10% del fatturato.
La percentuale del 10% del fatturato rappresenta, dunque, un tetto esterno, una “soglia di contenimento”, che non svolge alcuna funzione all’interno del procedimento che porta alla determinazione dell’importo base e non condiziona il potere dell’Autorità, che rimane, nell’ambito della sua discrezionalità, certamente libera di fissare una percentuale, rapportata alla ritenuta gravità della violazione, tale da determinare un importo base sensibilmente superiore rispetto al limite esterno.
15. Anche la questione oggetto del secondo appello (se le maggiorazioni da ritardato pagamento della sanzione, di cui all’art. 27, comma 6, legge 24 novembre 1981, n. 689 debbano essere calcolate assumendo come dies a quo la data fissata per il pagamento dal primo provvedimento sanzionatorio, e non invece la scadenza del termine per il pagamento fissato nel provvedimento di rideterminazione) va risolta nel senso sostenuto dall’AGCM.
La maggiorazione di cui all’art. 27, comma 6, legge 689 del 1981 sanziona il ritardo nel pagamento di una sanzione precedentemente irrogata. Tale ritardo viene certamente meno se la sanzione, all’esito del giudizio, è annullata; se la sanzione non è annullata, ma è solo rideterminata nel suo importo, il ritardo nel pagamento non è cancellato e decorre sempre dalla data dell’originario provvedimento (salva la diversa base di computo della maggiorazione se la sanzione viene ridotta nel quantum).
La sentenza che riduce il quantum conferma, infatti, che la sanzione è stata legittimamente irrogata e che, sebbene per un importo minore di quello precedentemente determinato, il suo pagamento era dovuto ed era dovuto sin dalla data indicata nell’originario provvedimento. In caso di riduzione dell’importo della sanzione muta la base di calcolo della maggiorazione che sarà l’importo minore rideterminato, ma il dies a quo per il calcolo della maggiorazione non può che essere quella fissata dall’originario provvedimento.
La diversa soluzione accolta dalla sentenza appellata, fondata sulla distinzione tra l’ipotesi in cui la rideterminazione venga compiuta direttamente dalla sentenza del giudice e l’ipotesi in cui venga eseguita dall’AGCM in esecuzione dei criteri indicati dal giudice, risulta priva di fondamento normativo e dà luogo ad una irragionevole disparità di trattamento tra due situazioni che sono, invece, perfettamente equiparabili per ciò che attiene all’individuazione del dies a quo del pagamento della maggiorazione. Quale che sia la modalità di rideterminazione della sanzione (compiuta direttamente in sentenza o “delega” all’AGCM sulla base dei criteri indicati nella sentenza) ciò che conta, al fine di valutare il dies a quo del ritardo, è la circostanza che la sanzione originariamente inflitta, nei limiti del quantum, eventualmente ridotto, risultante dalla rideterminazione, avrebbe dovuto essere pagata sin dalla scadenza del termine fissato nell’originario provvedimento. Il mancato pagamento della sanzione nelle more del giudizio rappresenta, pertanto, un “ritardo” che non è cancellato dalla sentenza del giudice in tutti i casi in cui la sentenza incide solo sull’importo dovuto, ma non sull’an dell’obbligo di pagare.
16. Devono a questo punto essere esaminati i dubbi di legittimità comunitaria sollevati dall’impresa originaria ricorrente.
Secondo la parte privata, la tesi più rigorosa in questa sede accolta (in particolare per ciò che attiene alla rideterminazione della sanzione depurata della quota relativa all’aggravante), si porrebbe in contrasto con alcuni principi fondamentali dell’ordinamento dell’Unione Europea, in particolare con il principio di proporzionalità e di adeguatezza della sanzione di cui all’art. 49, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Ciò in quanto la soluzione interpretativa in questa sede accolta darebbe luogo a sanzioni eccessivamente elevate, non calibrate (stante il livellamento imposto dal tetto del 10%) sulla specifica situazione di ciascuna impresa.
Al riguardo, nel corso della discussione orale (ove gli appelli riuniti sono stati discussi contestualmente all’appello n. 3915/2013 vertente su identica questione) le parti private hanno chiesto di sottoporre alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267, comma 3, TFUE, una questione pregiudiziale di corretta interpretazione del diritto euro-unitario, volta in particolare a chiarire se il principio di proporzionalità sancito dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, osti ad una interpretazione della normativa nazionale nel senso già indicato.
La rilevanza anche per il diritto euro-unitario della questione sarebbe ulteriormente confermata, secondo le parti private, dal fatto che l’AGCM, nel procedimento di determinazione della sanzione, ha aderito agli Orientamenti per il calcolo delle ammende approvati dalla Commissione europea (2006/C 210/02), da qui l’ulteriore necessità di verificare con l’ausilio del rinvio pregiudiziale se il principio di proporzionalità osti ad una interpretazione dell’art. 23, par. 2, lett. a) del regolamento CE n. 1/2003 – quale è quella consolidata dalla Commissione europea attraverso gli Orientamenti per il calcolo delle ammende – e alla relativa prassi applicativa anche nazionale, secondo cui la sanzione da applicare alle imprese che abbiano violato il divieto di intese restrittive della concorrenza si calcola applicando la circostanze sull’importo base scaturente dal computo dei diversi fattori di cui occorre tenere conto ai sensi della normativa UE e, comunque, prima della riduzione del 10% del fatturato, con il rischio che l’applicazione delle attenuanti sull’importo base si riveli inidonea a produrre l’effetto di personalizzazione della sanzione cui, invece, le circostanze sono preordinate attraverso la modulazione del relativo ammontare in ragione della caratteristiche del caso concreto.
17. Va evidenziato che a parere del Collegio la questione posta nella richiesta di rinvio pregiudiziale andrebbe risolta nel senso di escludere ogni dubbio di incompatibilità comunitaria.
La circostanza che, in conseguenza dell’operatività di questo tetto esterno, potrebbe verificarsi un livellamento tra sanzioni relative a fatti di diversa gravità (e possa essere in parte alterata la proporzionalità tra gravità dell’infrazione e sanzione irrogata) non sembra, infatti, porre problemi di legittimità comunitaria, atteso che si tratta, comunque, di una rimodulazione della sanzione che avviene in un’ottica di favor per il soggetto sanzionato, al fine di porre dall’esterno un limite alla discrezionalità dell’AGCM, che in mancanza di tale tetto sarebbe (data anche l’ampiezza del limite edittale interno) eccessivamente ampia.
Le conclusioni appena esposte sembrano, peraltro, in linea con la giurisprudenza comunitaria. Il Tribunale UE ha evidenziato come il massimale del 10% rappresenta una “semplice soglia di contenimento”, applicata dopo un’eventuale riduzione dell’ammenda in forza di circostanze attenuanti o del principio di proporzionalità. Tuttavia, ha sottolineato il giudice comunitario, “la moltiplicazione dell’importo determinato in funzione del valore delle vendite per il numero di anni di partecipazione all’infrazione può implicare che, nel quadro degli orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’art. 23, paragrafo 2, lettera a) del regolamento CE 1/2003, l’applicazione del massimale del 10% previsto da detto art. 23, n. 3, sia ormai la regola piuttosto che l’eccezione per ogni impresa che operi principalmente su un unico mercato e che abbia partecipato ad una intesa per più di un anno. In tale ipotesi, ogni differenziazione in funzione della gravità o di circostanze attenuanti non sarà più di norma idonea a ripercuotersi su un’ammenda che è già stata contenuta per essere mantenuta entro il 10%”. (sentenza 16 giugno 2011, Putters Internationale/Commissione, Causa T-211/08).
18. Sebbene queste considerazioni consentirebbero di risolvere la questione interpretativa prospettata dalle parti private, tuttavia, questo Consiglio di Stato, nella veste di giudice di ultima istanza, ha l’obbligo di dare seguito alla rinvio pregiudiziale, anche in considerazione del fatto che non sembrano ricorrere i presupposti (nonostante il richiamato precedente del Tribunale di primo grado) di deroga all’obbligo del giudice di ultima istanza elaborati dalla nota teoria dell’acte clair.
19. La rilevanza della questione ai fini della decisione del giudizio risulta in maniera evidente dalla circostanza che una eventuale risoluzione della questione pregiudiziale nel senso indicato dalle parti private indurrebbe ad una diversa interpretazione del diritto nazionale e con essa ad un diverso esito del presente giudizio.
20. La questione, peraltro, assume rilevanza comunitaria sotto diversi profili.
Da un lato, perché si contesta la violazione di un diritto fondamentale della persona (quello di proporzionalità e di adeguatezza della “pena”) in una materia (la tutela della concorrenza) rientrante comunque nelle competenze dell’Unione europea, al di là del fatto che nel caso di specie viene in rilievo un provvedimento sanzionatorio adottato dall’Autorità nazionale.
Dall’altro lato, perché la prassi applicativa nazionale scaturisce, comunque, dall’applicazione degli stessi criteri indicati negli Orientamenti per il calcolo delle ammende adottati dalla Commissione europea, seguiti anche dall’Autorità nazionale per la concorrenza (cfr. il provvedimento dell’AGCM n. 24893 del 13 maggio 2014, recante Linee guida sulle modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità).
21. Pertanto, si ritiene di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE, la seguente questioni interpretativa: “se il principio di proporzionalità che deve guidare il processo di quantificazione delle sanzioni – così come affermato dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – osti ad una interpretazione dell’art. 23, par. 2, lett. a) del regolamento n. 1/2003, quale è quella consolidata dalla Commissione europea attraverso gli Orientamenti per il calcolo delle ammende (2006/C 201/02) e alla relativa prassi applicativa anche nazionale – secondo cui la sanzione da applicare alle imprese che abbiano violato il divieto di intese restrittive della concorrenza si calcola applicando le circostanze sull’importo base scaturente dal computo dei diversi fattori di cui occorre tenere conto ai sensi della normativa UE e comunque prima della riduzione del 10% del fatturato, con il rischio che l’applicazione delle attenuanti sull’importo base si riveli del tutto inidoneo a produrre l’effetto di personalizzazione della sanzione cui, invece, le circostanze sono preordinate attraverso la modulazione del relativo ammontare in ragione delle specifiche caratteristiche del caso concreto”.
22. Ai sensi della “nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali” 2011/C 160/01 in G.U.C.E. 28 maggio 2011, vanno trasmessi alla cancelleria della Corte mediante plico raccomandato in copia i seguenti atti:
– i provvedimenti impugnati con il ricorso di primo grado;
– i ricorsi di primo grado;
– le sentenze del T.a.r. appellate;
– gli atti di appello dell’AGCM;
– le memorie difensive depositate da tutte parti nel giudizio di appello;
– la presente decisione;
23. Il presente giudizio viene sospeso, nelle more della definizione dell’incidente comunitario, e ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle spese, è riservata alla pronuncia definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), non definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, respinge i motivi diretti a far valere l’inammissibilità del ricorso di primo grado, e dispone:
1) a cura della segreteria, la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nei sensi e con le modalità di cui in motivazione, e con copia degli atti ivi indicati;
2) la sospensione del presente giudizio;
3) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 giugno 2015 con l’intervento dei magistrati:
Stefano Baccarini – Presidente
Sergio De Felice – Consigliere
Roberto Giovagnoli – Consigliere, Estensore
Claudio Contessa – Consigliere
Carlo Mosca – Consigliere
Depositata in Segreteria il 4 settembre 2015.
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