Consiglio di Stato, sezione seconda, Sentenza 18 luglio 2019, n. 5070.
La massima estrapolata:
Nell’azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi non solo del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, ma anche dell’antigiuridicità del fatto.
Sentenza 18 luglio 2019, n. 5070
Data udienza 9 luglio 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4148 del 2010, proposto dal signor Pa. Pa. in qualità di procuratore generale della signora Va. Ma. Ba., rappresentato e difeso dagli avvocati Ez. Pe. e Fr. Ca., con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via (…),
contro
– il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. An. Ma., Ma. Ce. e An. Ma., con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via (…),
– il Magistrato per il Po – Ufficio Operativo di Cremona (ora Agenzia Interregionale per il Fiume Po di Parma), non costituito in giudizio;
nei confronti
signor Al. Gr. e S.d.f. Gr. & So., non costituiti in giudizio,
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Quarta n. 3730/2009, resa tra le parti, concernente il risarcimento danni per annullamento dell’autorizzazione edilizia e demolizione opere.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis);
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 luglio 2019 il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e uditi per le parti gli avvocati Ez. Pe. e Gi. Ca., su delega di An. Ma.;
FATTO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Milano, Sez. IV, con la sentenza 14 maggio 2009, n. 3730, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere relativamente al ricorso, proposto dall’attuale parte appellante, per l’annullamento:
– dell’atto del 7 aprile 1994 emanato dal Commissario del Comune di (omissis) e recante l’annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 22293-91 del 2 febbraio 1993 rilasciata alla signora Va. Ma. Ba., notificato in data 13 aprile 1994;
– dell’ordinanza del 7 aprile 1994 P.G. 22293-91 I.E. 758 emanata dal Commissario del Comune di (omissis) ed avente ad oggetto la demolizione delle opere realizzate in forza del provvedimento annullato e il ripristino dello stato dei luoghi, notificata in data 13 aprile 1994.
Inoltre, il TAR ha respinto la domanda di risarcimento del danno subito nel periodo decorrente dal 17 dicembre 1993, oppure in subordine dal 6 luglio 1994, al 3 maggio 2004.
Secondo il TAR, sinteticamente:
– l’intervenuta revoca in autotutela, con decreto del 6 luglio 1994, prot. n. 3585, del decreto n. 6336 del 17 dicembre 1993 emesso dal Magistrato per il Po, facendo venire meno i presupposti degli atti impugnati e permettendo la relativa ripresa dei lavori di cui all’autorizzazione edilizia n. 22293-91 del 2 febbraio 1993, determina la conseguente dichiarazione della cessazione della materia del contendere;
– i provvedimenti impugnati sono stati notificati alla parte ricorrente in data 13 aprile 1994 e sono stati revocati in autotutela in data 6 luglio 1994 (decreto prot. n. 3585);
– successivamente, in data 7 luglio 1994, è intervenuta l’ordinanza del TAR n. 2176-1994, che ha sospeso l’esecuzione dei provvedimenti predetti;
– sulla base di siffatti presupposti non appare verosimile che si siano prodotti danni di natura patrimoniale a carico della parte ricorrente;
– difatti, l’annullamento dell’autorizzazione edilizia non determina, di regola, alcun pregiudizio immediato in capo al soggetto privato, almeno fino al momento in cui non vengono adottate e attuate delle misure consequenziali, come può essere la demolizione del manufatto eventualmente realizzato sulla base dell’autorizzazione poi annullata;
– nel caso in esame, pur essendo stato adottato anche il provvedimento demolitorio, la successiva revoca in autotutela dello stesso, seguita inoltre dall’ordinanza di sospensione, ha impedito che venisse portato ad esecuzione;
– la parte ricorrente non ha dimostrato che avrebbe avuto intenzione di alienare il chiosco con il quale svolgeva l’attività di gelateria: anzi, dalla documentazione depositata in giudizio risulta chiara l’intenzione di proseguire l’attività almeno fino al 2017 (anno di scadenza della nuova concessione – docc. 20 e 21). Con riferimento poi all’impossibilità di svolgere l’attività nel nuovo chiosco nel periodo 17 dicembre 1993 – 6 luglio 1994, non è stato dimostrato che lo stesso in tale periodo non sia entrato in funzione, anche perché non si trattava di una nuova struttura, ma della ristrutturazione e parziale sostituzione di quella già esistente.
La parte appellante contestava la sentenza del TAR deducendone l’erroneità e sostenendo la fondatezza della domanda risarcitoria per i seguenti motivi:
– eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo dell’eccesso di potere per inesatta rappresentazione e/o travisamento dei presupposti di fatto e di diritto; eccesso di potere per incoerenza, insufficienza e/o inadeguatezza della motivazione; carenza di motivazione e contraddittorietà manifesta; violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 3, L. n. 1034-1971, come sostituito dall’art. 35 d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, a sua volta modificato dall’art. 7 L. 21 luglio 2000, n. 205; violazione di legge per difetto di istruttoria;
– non corrispondenza al fatti ed alle circostanze del presupposti del rigetto della domanda risarcitoria e sulla violazione del principio della “pregiudiziale amministrativa”; violazione e falsa applicazione art. 7, comma 3, L. n. 1034-1971; fondamento della pretesa risarcitoria nell’an per la lesione dell’interesse legittimo oppositivo;
– illegittimità della sentenza appellata per violazione dell’art. 7, comma 3, L. n. 1034-1971 per omessa valutazione ai sensi dell’art. 2043 c.c. del nesso causale tra condotta causativa della dedotta lesione dell’interesse giuridicamente rilevante e l’eventus damni;
– illegittimità della sentenza appellata per totale difetto di valutazione e determinazione nel quantum del danno risarcibile; violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 3, L. n. 1034-1971 in relazione all’art 2043 c.c.; difetto di istruttoria.
Con l’appello in esame chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado sotto il profilo risarcitorio.
Si costituiva il Comune appellato, chiedendo la reiezione dell’appello.
All’udienza pubblica del 9 luglio 2019 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Rileva il Collegio che il giudizio di primo grado, introdotto con ricorso notificato in data 24 maggio 1994 e depositato il 20 giugno 1994, ha avuto per oggetto l’impugnazione dell’atto del 7 aprile 1994, emanato dal Commissario del Comune di (omissis), recante l’annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 22293-91 del 2 febbraio 1993, rilasciata alla signora Va. Ma. Ba. e l’ordinanza del 7 aprile 1994, PG 22293/91, IE 758, emanata dal Commissario del Comune di (omissis), avente ad oggetto la demolizione delle opere realizzate in forza del provvedimento annullato ed il ripristino dello stato dei luoghi, entrambi gli atti notificati in data 13 aprile 1994.
Con ordinanza del TAR n. 2176-1994, è stata accolta la domanda di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti impugnati.
Con ricorso per motivi aggiunti, notificato in data 2 marzo 2009 e depositato in data 3 marzo 2009, gli odierni appellanti hanno chiesto la condanna del Comune di (omissis) al risarcimento dei danni subiti nel periodo che va dal 17 dicembre 1993 ad oggi, oppure in subordine dal 6 luglio 1994 al 3 maggio 2004.
2. Può, in primo luogo, prescindersi dall’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, formulata dal Comune di (omissis) ai sensi dell’art. 2947 c.c. – assorbita dal TAR e ritenuta inammissibile da parte appellante in quanto formulata dal Comune oltre il termine previsto dall’art. 101, comma 2, c.p.a. – stante l’infondatezza nel merito della domanda risarcitoria.
Parimenti, si può prescindere, per le stesse ragioni, dalla questione della tardività del deposito della memoria in forma cartacea, ex art. 73 c.p.a., eccepita in sede di discussione dell’appello.
3. Come è noto, secondo la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., da ultimo, sez. VI, 18 settembre 2018, n. 5452, e sez. V, 22 gennaio 2015, n. 282), il principio generale dell’onere della prova previsto nell’art. 2697 c.c. si applica anche all’azione di risarcimento per danni proposta dinanzi al giudice amministrativo, con la conseguenza che spetta al danneggiato dare in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi non solo del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, ma anche dell’antigiuridicità del fatto (sia esso concretizzato in un atto o in un comportamento) che si assume lo abbia causato, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento danni manchi della prova di uno degli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria la stessa deve essere respinta.
Nel caso di specie, non vi è stata la dimostrazione di alcun danno originante dal provvedimento amministrativo illegittimo, il quale infatti non può ritenersi concretamente lesivo della sfera giuridica dell’odierna appellante.
L’atto lesivo che è stato oggetto del ricorso, e quindi del giudizio di primo grado, è costituito, da un lato, dall’atto 7 aprile 1994 emanato dal Commissario del Comune di (omissis), recante l’annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 22293-91 del 2 febbraio 1993, rilasciata alla signora Va. Ma. Ba.; dall’altro, dall’ordinanza del 7 aprile 1994, PG 22293-91, IE 758, emanata sempre dal Commissario del Comune di (omissis), avente ad oggetto la demolizione delle opere realizzate in forza del provvedimento annullato e il ripristino dello stato dei luoghi, entrambi notificati in data 13 aprile 1994.
Quest’ultima, tuttavia, non ha mai avuto esecuzione poiché è stata tempestivamente sospesa dal TAR in sede cautelare con ordinanza del 7 luglio 1994 (ordinanza del TAR n. 2176-1994) e, dunque, non può certo ritenersi lesiva.
Pertanto, l’unico atto antigiuridico in ipotesi rilevante nella presente fattispecie risarcitoria quale fonte del danno, è il predetto atto del 7 aprile 1994, notificato in data 13 aprile 1994.
In primo luogo, in relazione a tale atto, deve ritenersi che gli effetti (in ipotesi) pregiudizievoli nella sfera giuridica del destinatario (l’attuale appellante) possano decorrere soltanto dalla sua notifica in data 13 aprile 1994.
Tale atto ha inciso esclusivamente sull’autorizzazione edilizia n. 22293-91 del 2 febbraio 1993, ma non ha in alcun modo pregiudicato l’attività del chiosco, non risultando adeguatamente dimostrato che, con specifico riferimento alla predetta data (13 aprile 1994), vi sia stata un’interruzione di attività .
Inoltre, non sussiste alcun danno in ordine alla commerciabilità del bene, poiché non vi sono parimenti dimostrazioni che nel periodo considerato (13 aprile 1994 – 7 luglio 1994) fosse imminente la vendita del bene, impedita dalla sua incommerciabilità : tale dimostrazione è del tutto assente e non può certo dedursi un danno in via ipotetica basato sulla semplice potenzialità di cessione del bene, che resta un’eventualità astratta, incompatibile con la necessaria dimostrazione del danno concretamente subito.
Come già detto, potrebbe in astratto prospettarsi un danno da cessazione temporanea dell’attività per il periodo 13 aprile 1994 – 7 luglio 1994, danno che può ricondursi, in astratto, ad una perdita reddituale.
A tale fine, parte appellante ritiene di dimostrarlo in base alle differenze reddituali che “emergono dal raffronto delle dichiarazioni che prodotte agli atti di causa, ai fini della valutazione del danno risarcibile, appunto, relativamente alla forzosa sospensione dell’attività nel periodo compreso tra il 17.12.1993 e il 7.6.1994” (rectius: 7.7.1994), come afferma parte appellante nella memoria di replica (pag. 11).
Tuttavia, tale perdita reddituale, così come dedotta dalla parte appellante, appare del tutto inverosimile: in primo luogo, si ribadisce, la stessa può farsi decorrere, al più, soltanto dalla data del 13 aprile 1994, data in cui è stato emanato il provvedimento negativo, e non può risalire a quasi quattro mesi prima.
Peraltro, poiché non vi sono dimostrazioni che il chiosco in esame avesse cessato l’attività anche posteriormente alla predetta data del 13 aprile 1994, atteso che il provvedimento non incide direttamente sull’attività commerciale, ma soltanto sulla liceità della struttura, manca una prova idonea circa l’eziologia del danno, ovvero la dimostrazione della cessazione dell’attività e la decorrenza di tale cessazione.
Tale deduzione della parte appellante, quindi, non è credibile ed inficia ogni idonea funzione dimostrativa delle deduzioni formulate a sostegno della domanda risarcitoria.
Per quanto sopra, risulta accertata la carenza dei requisiti per integrare la fattispecie di responsabilità ai sensi dell’art. 2043, c.c., a nulla rilevando la questione, sollevata dalla parte appellante, della cd. pregiudiziale amministrativa.
4. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato.
Le spese di lite del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe indicato, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite del presente grado di giudizio in favore della parte appellata, spese che liquida in euro 4.000,00, oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco – Presidente
Paolo Giovanni Nicolò Lotti – Consigliere, Estensore
Fulvio Rocco – Consigliere
Antonella Manzione – Consigliere
Giovanni Orsini – Consigliere
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