Corte di Cassazione, sezione lavoro, Sentenza 21 maggio 2019, n. 13649.
La massima estrapolata:
In tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di “handicap”, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del recesso, che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte “ratione temporis” alla applicazione dell’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della Dir. 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto art. 5, considerato l’obbligo del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva anche prima del suo concreto recepimento e della sua attuazione.(Nella specie, la S.C. ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad un dipendente – dichiarato inidoneo alle mansioni di autista ed adibito, inizialmente, a compiti di aiuto meccanico e, successivamente, a mansioni di addetto alle pulizie, per essersi il medesimo rifiutato di svolgere tali ultime mansioni – sul rilevo che la stessa società datrice aveva dimostrato di poter adibire il lavoratore ai predetti compiti, compatibili con le menomazioni fisiche ed in adempimento dell’obbligo di adozione di accorgimenti ragionevoli esigibili).
Sentenza 21 maggio 2019, n. 13649
Data udienza 7 febbraio 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NOBILE Vittorio – Presidente
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere
Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1693/2018 proposto da:
(OMISSIS) S.R.L., (GIA’ (OMISSIS) S.A.S.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1201/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 23/06/2017 R.G.N. 734/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2019 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega verbale Avvocato (OMISSIS).
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Catanzaro,, con sentenza n. 1201 pubblicata il 23.6.2017, ha respinto l’appello della (OMISSIS) s.a.s., confermando la decisione di primo grado che, in accoglimento della domanda proposta da (OMISSIS), aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al predetto con lettera del 6.3.08 e condannato la societa’ datoriale alla reintegra e al risarcimento del danno.
2. La Corte territoriale ha premesso, in fatto, come il (OMISSIS), rientrato al lavoro nell’ottobre 2005 dopo un grave infortunio sul lavoro occorso nel 2004, fosse stato giudicato dal medico competente inidoneo “allo stato attuale” alle mansioni di autista e adibito ai compiti di aiuto meccanico presso l’officina aziendale; che nel dicembre 2007 era stato dichiarato permanentemente inidoneo alle mansioni di autista; che la societa’ gli aveva offerto il ruolo di addetto alle pulizie con riduzione dell’orario di lavoro e, di fronte al rifiuto dello stesso, aveva intimato il licenziamento per sopravvenuta permanente inidoneita’ fisica alle mansioni di autista e per il rifiuto di impiego in attivita’ compatibili con le residue capacita’ lavorative.
3. La Corte di merito ha escluso che dalla certificazione del medico competente del 25.10.05 potesse desumersi il carattere provvisorio della inidoneita’ alle mansioni di autista che, se pure accertata “allo stato attuale”, tuttavia non appariva come avente carattere transitorio e destinata alla risoluzione in tempi certi; la medesima inidoneita’ alle mansioni era stata attestata nel successivo certificato del 21.12.07.
4. Secondo la sentenza impugnata, la scelta della datrice di lavoro, di fronte alla accertata inidoneita’ del (OMISSIS) alle mansioni di autista, di creare una apposita postazione lavorativa di ausilio al personale dell’officina aziendale, costituiva adempimento dell’obbligo posto a carico della societa’ dalla L. n. 68 del 1999, articolo 1, comma 7 (confermato dal Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 42); con la conseguenza che dovesse ritenersi illegittimo il licenziamento intimato sulla base di un presupposto (la definitiva inidoneita’ alle mansioni di autista) non piu’ attuale, avendo la societa’ assegnato il predetto fin dall’ottobre 2005 a mansioni diverse, compatibili con la residua capacita’ lavorativa.
5. La Corte di merito ha escluso che potessero aver rilievo le prestazioni previdenziali per i postumi da infortunio ai fini dell’aliunde perceptum; ha ritenuto infondata l’eccezione di aliunde perceptum, peraltro sollevata dalla societa’ per la prima volta in appello, avendo il lavoratore documentato la tempestiva iscrizione nelle liste di disoccupazione.
6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la (OMISSIS) s.r.l. (gia’ (OMISSIS) s.a.s.), affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso il sig. (OMISSIS).
7. La (OMISSIS) s.r.l. ha depositato memoria, ai sensi dell’articolo 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Col primo motivo di ricorso la (OMISSIS) s.r.l. ha censurato la sentenza, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. n. 68 del 1999, articolo 1, comma 7 e articolo 4.
2. Ha sostenuto l’erronea sussunzione della fattispecie oggetto di causa nelle citate disposizioni di cui alla L. n. 68 del 1999, sul rilievo che il sig. (OMISSIS) non fosse mai stato giudicato invalido o disabile e che nei confronti del predetto era stata solo accertata dal medico competente, ai sensi del Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 16, l’inidoneita’ alla mansione per cui era stato assunto.
3. Col secondo motivo la societa’ ricorrente ha dedotto, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 42 e dell’articolo 11 preleggi.
4. Ha sostenuto come la Corte di merito avesse fatto applicazione del citato articolo 42, in relazione ad una fattispecie di licenziamento (del 7.3.08) verificatasi in epoca anteriore all’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 81 (15.5.08).
5. Ha aggiunto come erroneamente la Corte di merito avesse qualificato l’articolo 42 cit., come norma meramente confermativa del Decreto Legislativo n. 68 del 1999, articolo 4, comma 4.
6. Entrambi i motivi di ricorso sono infondati, rendendosi necessarie alcune integrazioni della motivazione in diritto, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c..
7. Occorre premettere come l’ordinamento italiano non contenga una nozione unitaria di disabilita’, bensi’ definizioni aventi valenza medico-sanitaria, dettate da differenti testi normativi; la L. n. 222 del 1984, disciplina l’invalidita’ legata alla riduzione permanente parziale della capacita’ lavorativa specifica (oltre che l’impossibilita’ assoluta e permanente di svolgere qualsiasi attivita’ lavorativa); la L. n. 18 del 1980 e L. n. 118 del 1971, regolamentano le provvidenze legate a inabilita’ o invalidita’ civile, quale perdita della capacita’ lavorativa generica; la L. n. 104 del 1992, detta disposizioni in materia di handicap, definito come “minorazione fisica, psichica o sensoriale stabilizzata o progressiva, che e’ causa di difficolta’ di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”; la L. n. 68 del 1999, si occupa del diritto al lavoro dei disabili quali “persone in eta’ lavorativa affette da minorazioni fisiche,, psichiche o sensoriali e i portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacita’ lavorativa superiore al 45 per cento”.
8. L’unificazione della nozione di disabilita’, in un significato essenzialmente sociale, deve attribuirsi alla legislazione sovranazionale ed esattamente alla Direttiva 78/2000/CE del 27 novembre 2000 sulla parita’ di trattamento in materia di occupazione, di cui questa Corte si e’ occupata, tra l’altro, a proposito di licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneita’ fisica alle mansioni (Cass. n. 6798 del 2018), fattispecie attratta nel campo di applicazione della direttiva citata per l’attinenza della controversia alle condizioni di lavoro, “comprese le condizioni di licenziamento” (articolo 3 della direttiva) oltre che per il fattore soggettivo dell'”handicap”, protetto dall’articolo 1 della direttiva.
9. Nella sentenza di legittimita’ appena citata e’ ricostruito il percorso di definizione della condizione di handicap attraverso le pronunce della Corte di Giustizia (sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42), specie successive alla ratifica da parte della Unione Europea (con decisione 2010/48) della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita’ (UNCRPD) del 2006; se e’ vero che la nozione di handicap non e’ definita nella stessa direttiva 2000/78, la Corte di Giustizia ha pacificamente inteso tale nozione, alla luce della Convenzione dell’ONU, come relativa ad una “limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”, (cfr. anche Cass. n. 17867 del 2016; n. 27243 del 2018).
10. Ai fini della controversia in esame, occorre richiamare l’articolo 5 della direttiva secondo cui: “per garantire il rispetto del principio della parita’ di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Cio’ significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perche’ possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato…”.
11. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza HK Danmark cit., punti 49-59; sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011, Commissione Europea/Repubblica Italiana), l’articolo 5 della direttiva 2000/78, letto in combinato disposto con i considerando 20 e 21, impone agli Stati membri di stabilire nella loro legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioe’ provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, senza imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato. Tali provvedimenti, come ha giudicato la Corte al punto 64 della citata sentenza HK Danmark, possono anche consistere in una riduzione dell’orario di lavoro.
12. Come accertato con sentenza delle Corte di Giustizia del 4 luglio 2013, nella C-312/11 Commissione/Repubblica Italiana, “La Repubblica italiana, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, e’ venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parita’ di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”.
13. Il legislatore italiano ha posto rimedio all’inadempimento con la L. n. 99 del 2013 (articolo 9, comma 4-ter) che ha aggiunto al Decreto Legislativo n. 216 del 2003, articolo 3, il comma 3 bis, del seguente tenore: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parita’ di trattamento delle persone con disabilita’, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilita’, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilita’ la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
14. Sulla base di tali premesse, la sentenza di questa Corte n. 6798 del 2018 ha statuito che “In tema di licenziamento per inidoneita’ fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di “handicap”, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilita’ di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimita’ del recesso, che discende, pur con riferimento a fattispecie sottratte “ratione temporis” alla applicazione del Decreto Legislativo n. 216 del 2003, articolo 3, comma 3 bis, di recepimento dell’articolo 5 della Dir. 2000/78/CE, dall’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme agli obiettivi posti dal predetto articolo 5″.
15. Non ha rilievo ostativo il fatto che la fattispecie oggetto di causa si collochi in epoca anteriore alla normativa di recepimento della direttiva, considerato l’obbligo del giudice nazionale di offrire una interpretazione del diritto interno conforme agli obiettivi di una direttiva anche prima del suo concreto recepimento e della sua attuazione (cfr. Cass. n. 6798 del 2018; n. 17867 del 2016 e giurisprudenza ivi richiamata).
16. Poste tali premesse quanto alla ricostruzione del contesto normativo, interno e sovranazionale, risultano infondate le censure di erronea sussunzione della fattispecie oggetto di causa nella L. n. 68 del 1999 e di violazione del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, poiche’ la nozione di disabilita’, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita in conformita’ al contenuto della direttiva, come interpretata dalla Corte di Giustizia, quindi quale “limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”.
17. Tale nozione si pone come unificante e sovrastante rispetto alle definizioni dettate dalle singole disposizioni su cui si fondano la sentenza d’appello ed i motivi di ricorso per cassazione, esattamente la L. n. 68 del 1999, articolo 1, comma 7 (ai sensi del quale “I datori di lavoro, pubblici e privati, sono tenuti a garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilita’”) e il Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 42 (comma 1. “Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla L. 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneita’ alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con il suo stato di salute”) ed e’ rispetto ad essa che occorre valutare le censure alla sentenza impugnata.
18. Nel caso di specie non e’ in discussione il carattere duraturo delle menomazioni diagnosticate a sig. (OMISSIS) e tali da comportare un giudizio del medico competente di “permanente inidoneita’ alle mansioni di autista”.
19. Inoltre, la possibilita’ di adattamenti organizzativi ragionevoli nel luogo di lavoro al fine di garantire al dipendente, divenuto disabile in conseguenza di un grave infortunio sul lavoro, la piena eguaglianza con gli altri lavoratori, e’ stata accertata in fatto dalla Corte di merito sulla base della stessa condotta datoriale che, al rientro del dipendente a lavoro, aveva individuato una mansione compatibile con le residue capacita’ del predetto e con la sua professionalita’.
20. La Corte di merito ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato dalla societa’ per sopravvenuta inidoneita’ fisica alle mansioni di autista sulla base di un duplice ordine di ragioni: per essere la motivazione del recesso non attuale, atteso che il dipendente nel 2008 non svolgeva piu’ da anni le mansioni di autista; inoltre, per avere la societa’ dimostrato di poter adibire il lavoratore ad altre mansioni, compatibili con le menomazioni fisiche, il che coincide con gli accorgimenti ragionevoli esigibili in base alla ricostruzione sopra fatta e risulta dirimente ai fini dell’esclusione della violazione di legge.
21. Il ricorso deve quindi essere respinto, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate come in dispositivo.
22. Si da’ atto della sussistenza dei presupposti di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’ che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo articolo 13, comma 1 bis.
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