Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza n. 16809  del 3 ottobre 2012

 

Svolgimento del processo

Con sentenza del 18/2 – 8/4/10 la Corte d’appello degli Abruzzi l’Aquila – sezione lavoro, pronunziando sull’impugnazione proposta da P.T. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Chieti, ha rigettato l’appello principale svolto dal lavoratore per l’annullamento del licenziamento intimatogli dalla società assicuratrice Milano Assicurazioni s.p.a. ed ha parzialmente accolto l’appello incidentale di quest’ultima, per cui in parziale riforma della sentenza gravata ha condannato il P. al risarcimento del danno nella misura di Euro 5737,83, oltre che agi interessi legali ed alle spese del grado.
Nel pervenire a tale decisione la Corte territoriale ha spiegato che erano infondate, alla luce delle risultanze istruttorie, le doglianze mosse dal lavoratore con riferimento all’asserita intempestività ed infondatezza dell’impugnato licenziamento, il quale era stato, invece, intimato in tempi accettabili rispetto alla complessità degli accertamenti e sulla base della comprovata sussistenza di numerose operazioni irregolari di liquidazione di sinistri in assenza di qualsivoglia giustificazione tecnica e gestionale poste in essere dal P. nella sua qualità di responsabile del centro sinistri di (omissis) al fine di percepire il “bonus” di incentivazione, con danno della compagnia assicuratrice. Nel contempo il giudice d’appello ha riconosciuto fondato l’appello incidentale della società assicuratrice nei soli limiti del diritto a recuperare dal P. il “bonus” corrispostogli per gli anni 1995 e 1996 per l’importo di L. 11.110.000, pari ad Euro 5737,83.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso P.T., il quale affida l’impugnazione a due motivi di censura.
Resiste con controricorso la Milano Assicurazioni s.p.a..
Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 3 e 4, degli artt. 2119, 1175, 1375 e 2697 c.c., nonchè della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 5, il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Sostiene il ricorrente che la distanza temporale che separava i singoli comportamenti censurati, risalenti al periodo compreso tra il 1993 ed il 1996, dalla data in cui gli stessi furono contestati (4 novembre 1997), nonchè l’arco di tempo intercorso tra la trasmissione della relazione ispettiva (30 maggio 1997) e la data della contestazione, erano tali da vanificare del tutto il concetto di immediatezza che deve contraddistinguere la comunicazione dell’addebito disciplinare, tanto più che nella fattispecie le modalità di svolgimento delle operazioni contestate, oltre ad essere note alla Direzione dell’azienda, erano quasi sempre le stesse.
Conseguentemente, il ricorrente contesta l’interpretazione del concetto di tempestività della contestazione disciplinare operata dalla Corte di merito, la quale lo ha inteso come concetto da rapportare in modo ragionevolmente elastico alle circostanze del singolo caso, omettendo di considerare che la società non aveva invocato alcuna ragione a sostegno dei suddetti ritardi.
Infine, i ricorrente contesta la decisione di accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalla società assicuratrice, sia perchè strettamente connessa alla conferma della discussa legittimità del recesso, sia perchè sfornita di qualsiasi supporto probatorio.
2. Col secondo motivo è dedotta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonchè il travisamento dei fatti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
Si contesta, anzitutto, la collocazione della vicenda nell’ambito dei controlli svolti in concomitanza di un’opera di ristrutturazione della società, tesi, questa, contrastata dalla evidenziazione del fatto che per un lungo lasso di tempo il ricorrente fu sottoposto ad una serie di controlli a tappeto; si imputa, inoltre, al giudice d’appello di non aver fornito alcuna spiegazione in ordine alla circostanza per la quale i fatti contestati erano stati rilevati solo a seguito della visita ispettiva e del perchè erano sfuggiti per tanti anni ai due capi area, preposti alla zona di competenza dell’ufficio sinistri di (omissis), oltre che all’ufficio centrale “Auditing”, istituzionalmente incaricato della verifica della correttezza di ogni singola pratica di sinistro; infine, si obietta che le difficoltà organizzative e produttive dell’azienda non potevano essere utilizzate dalla Corte di merito come causa di giustificazione della tardiva contestazione.

Si contesta, altresì, il fatto che il perseguimento delle incentivazioni potesse essere posto a base della rottura del vincolo fiduciario quale causa del licenziamento, facendosi osservare che in relazione agli anni 1993 e 1995 era risultato dai documenti in atti che non vi era stata alcuna incentivazione, che gli assegni spediti ai danneggiati erano stati in parte rifiutati e successivamente annullati e che alcuni di tali assegni si riferivano a sinistri trattati da altri liquidatori nei periodi di assenza del ricorrente.
Si obietta, inoltre, che la ricostruzione dei fatti, confermata nei due gradi di giudizio, era avvenuta sulla scorta di quanto riferito dai due ispettori inviati dalla direzione aziendale, cioè di soggetti certamente non disinteressati.
Osserva la Corte che i motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto in entrambi è posta in discussione la questione della tempestività della contestazione e del susseguente licenziamento.
Ebbene, entrambi i motivi sono infondati, atteso che per il loro tramite il ricorrente tenta di operare una rivalutazione dei fatti di causa e di inficiare la decisione riproponendo l’eccezione della intempestività della contestazione che è stata, invece, esclusa dal giudice d’appello con una motivazione congrua e logica che si sottrae a qualsiasi censura.
Invero, la Corte d’appello ha spiegato che il lasso di tempo intercorso tra la relazione ispettiva, che consentì alla società di venire per la prima volta a conoscenza delle inadempienze oggetto del procedimento disciplinare, e la contestazione, lungi dal configurare una violazione del principio di buona fede della parte datoriale, appariva, in realtà, espressione di una scelta ponderata, dato che, in relazione alla situazione deficitaria presentata dalle compagnie del gruppo, il nuovo “management” si era trovato di fronte ad inadempimenti di tal genere, durata e gravità, che si inserivano presumibilmente in un contesto di inefficienze e complicità, per cui era necessario ricostruire il quadro d’insieme e non tener conto della sola posizione del singolo dipendente. Infatti, la Corte territoriale ha posto in evidenza che la suddetta verifica ispettiva del 1997 fu eseguita in concomitanza dell’opera di ristrutturazione della compagnia e delle altre società del gruppo, a sua volta determinata da una situazione di grave inefficienza ed improduttività della compagnia assicuratrice.

La stessa Corte ha precisato che la prova testimoniale aveva consentito di appurare che prima della visita ispettiva del 1997 non ve ne erano state altre, per cui risultava confermato che anche per gli episodi risalenti al 1993 la società aveva avuto contezza dei fatti solo a seguito di quel controllo. Inoltre, la Corte di merito ha posto in rilievo che quel ritardo, giustificato dalle predette circostanze, non aveva, comunque, inciso sul diritto di difesa del ricorrente il quale, avendo reiterato nel tempo la condotta addebitatagli, non poteva non avere avuto consapevolezza della gravità della stessa, nè poteva aver nutrito dei dubbi sull’esercizio del potere disciplinare da parte della datrice di lavoro.
Tra l’altro, è bene ricordare che questa Corte (Cass. Sez. Lav. n. 5546 dell’8 marzo 2010) ha già avuto modo di affermare che “nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi dei dipendente. n ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un dipendente di un’azienda telefonica determinato dall’uso scorretto del telefono cellulare di servizio, consistito nell’invio di decine di migliaia di “s.m.s.”, aveva escluso l’intempestività della contestazione, intervenuta a pochi mesi di distanza dall’inizio delle necessarie verifiche, le quali avevano richiesto l’esame di complessi tabulati e prospetti, al fine di distinguere il traffico telefonico di servizio da quello illecito)” In senso conforme v. Cass. sez. lav. n. 22066 del 22/10/2007 e n. 29480 del 17/12/2008).
Nè colgono nel segno le censure che mirano a porre in discussione l’accertata legittimità del licenziamento alla stregua della verificata gravità delle condotte oggetto d’addebito, trattandosi di tentativi di rivisitazione del merito probatorio adeguatamente apprezzato dal giudice d’appello con argomentazioni esenti da vizi logici e giuridici, per cui le suddette doglianze finiscono per rivelarsi inammissibili. Non va, infatti, dimenticato che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico- formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti)” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).
Nella fattispecie, la Corte di merito ha attentamente valutato con argomentazioni logiche e ben motivate in ordine ai riscontri eseguiti, immuni da vizi giuridici, l’ampio materiale istruttorio raccolto, per cui le doglianze appena riferite non ne scalfiscono la relativa “ratio decidendi”.
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese di lite del seguente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per onorario e di Euro 40,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.

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