La massima

In tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli e di natanti, relativamente a fatto antecedente al 1 maggio 1993, per persona danneggiata, ai sensi dell’art. 21 della legge 24 dicembre 1969 n. 990, deve intendersi non solo la vittima diretta dell’incidente, ma anche i prossimi congiunti o gli aventi causa della stessa, così che i conseguenti danni non devono necessariamente essere soddisfatti tutti nell’ambito del massimale previsto per ogni singola persona, ma il limite del risarcimento è, distintamente per ciascun danno, quello previsto per ciascuna persona danneggiata, fermo nel complesso il massimale per singolo sinistro (c.d. massimale catastrofale)

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza del 4 settembre 2012, n. 14818

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 17.10.1991 V.L. , C.E. , V.L. , Va.Lu. e V.M. , il primo in qualità di infortunato nel sinistro verificatosi il (…), i secondi in qualità, rispettivamente di moglie e figli del primo, adivano il Tribunale di Treviso chiedendo la condanna in via solidale di D.F.M. e della Compagnia T. Assicurazioni s.p.a. al risarcimento del danno subito quantificato nella somma di L. 410.376.177 per l’infortunato e nell’ulteriore importo di L. 265.000.000 per i familiari. Esponevano che il giorno (…) V.L. , a bordo del moto ciclo Piaggio, percorreva Viale (…) con direzione (…) , mantenendo la stretta destra; che, giunto all’incrocio, veniva affiancato dall’autovettura Fiat 500 guidata da D.F.M. la quale contemporaneamente svoltava a destra tagliandogli la strada; che a causa del violento urto il V. cadeva a terra riportando gravissime lesioni. Si costituiva in giudizio D.F.M. negando ogni responsabilità in merito alla causazione del sinistro e sostenendo in via riconvenzionale che l’impatto fra i due veicoli era stato determinato dal v. nei confronti del quale avanzava richiesta di risarcimento danni. Concludeva chiedendo in via preliminare di essere tenuta indenne dalla propria Compagnia di Assicurazioni T. nell’ipotesi di accoglimento della domanda attorea. Si costituiva quest’ultima chiedendo il rigetto delle pretese azionate in via subordinata e la riduzione del quantum. Nel corso del giudizio interveniva il decesso di v.l. sicché si costituivano C.E. , V.L. e Va.Lu. e V.M. nella qualità di eredi manifestando l’intenzione di proseguire la causa al fine di ottenere il risarcimento dei danni. Con distinto atto di citazione notificato in data 6.12.992 gli stessi attori nella qualità di congiunti del defunto v. avviavano una nuova causa volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti in proprio. Si costituivano sia la D.F. ribadendo la linea difensiva già esposta nel precedente memoria sia la compagnia di assicurazioni. Dispostasi la riunione dei due procedimenti, il giudizio, interrotto a seguito della messa in liquidazione della Compagnia di assicurazioni, veniva successivamente riassunto. La Compagnia di assicurazione comunicava l’avvenuto versamento agli attori del residuo del massimale di polizza e questi ultimi, a fronte della produzione della copia dell’atto di quietanza, liberavano il Fondo di garanzia delle vittime della strada manifestando la volontà di proseguire nei confronti della sola D.F.M. , il cui procuratore contestava la domanda di estromissione dalla causa chiesta dalla T. e chiedeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti della Nuova T. ,cessionaria del portafoglio polizze della T. in l.c.a. affinché la tenesse manlevata nell’ipotesi di condanna al risarcimento del danno, richiesta questa cui si opponeva il legale della Nuova T. . Nel corso del giudizio venivano assunte prove orali e disposta consulenza medico-legale. Con sentenza del 13.3.2002 il Tribunale di Treviso condannava la convenuta D.F. a rifondere agli attori la somma complessiva di Euro 707.537,00 oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo con diritto della convenuta a detrarre gli acconti di Euro 41.316,55 e di Euro 59.684,34; condannava altresì la Compagnia T. in l.c.a. a pagare alla convenuta D.F. la somma di L 500.000.000 e le spese di lite liquidate in via forfettaria mentre dichiarava il difetto di legittimazione passiva della Nuova T. Assicurazione. Avverso tale pronuncia proponeva appello sia la Compagnia T. in l.c.a. chiedendo la parziale modifica della sentenza nella parte in cui condannava l’appellante a tenere indenne l’assicurata D.F. nei limiti di L. 500.000.000 sia la stessa D.F. chiedendo la riduzione del quantum. In esito al giudizio, la Corte di Appello di Venezia con sentenza depositata in data 19 gennaio 2007 in parziale riforma della sentenza condannava la D.F. al pagamento, in favore dei V. , della somma di Euro 251.500,00 a titolo di danno biologico, di Euro 18.459,00 per spese di assistenza, di Euro 2.575,00 per spese funerarie e di Euro 25.000,00 per danno morale, provvedeva quindi al governo delle spese.
Avverso la detta sentenza la D.F. ha proposto ricorso principale, affidato ad un unico motivo, mentre gli eredi V. hanno proposto ricorso in via incidentale articolato in quattro motivi. Resistono con controricorso, oltre alla D.F. ed agli eredi V. , anche la Compagnia T. in l.c.a.. Sia i ricorrenti sia la T. in l.c.a. hanno depositato memorie illustrative a norma dell’art. 378 del c.p.c.

Motivi della decisione

In via preliminare, deve rilevarsi che il ricorso principale e quello incidentale sono stati riuniti, in quanto proposti avverso la stessa sentenza.
Procedendo all’esame del ricorso principale, ancor prima di esaminare il contenuto della doglianza proposta dalla ricorrente principale, mette conto di soffermare l’attenzione su un’eccezione – di inammissibilità del ricorso de quo – formulata dalla Compagnia T. di assicurazioni, fondata sul rilievo che il ricorso principale sarebbe carente dei requisiti previsti dall’art. 366 primo comma n. 4 cpc, essendo stato articolato “in un’unica parte, che è stata denominata fatto, in cui sono narrati fatti e disseminate varie considerazioni in diritto. Nella parte finale e prima delle conclusioni compare l’enunciazione di un quesito di diritto in applicazione dell’art. 366 bis cpc non più in vigore”. L’eccezione non coglie nel segno. A riguardo, deve rilevarsi che se è vero che il motivo di ricorso per cassazione, ancorché la legge non esiga espressamente la sua specificità (come avviene invece per l’atto di appello), deve articolarsi nell’enunciazione di tutti gli elementi idonei a consentire alla Corte di legittimità di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento delle violazioni denunziate, è indubbio che tale requisito di specificità e completezza, come ha già avuto modo di statuire questa Corte in precedenti decisioni, è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorché la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo. (cfr Cass. n.4741/05, Cass. n. 6012/2008).
Coerentemente con tale premessa, l’indicazione delle norme che si assumono violate non si pone come requisito autonomo ed imprescindibile ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, ma come elemento richiesto al fine di chiarire il contenuto delle censure formulate e di identificare i limiti dell’impugnazione, ragion per cui la mancata indicazione delle disposizioni di legge non comporta l’inammissibilità del gravame qualora gli argomenti addotti dal ricorrente, valutati nel loro complesso, consentano di individuare le norme e i principi di diritto che si assumono violati e rendano possibile la delimitazione delle questioni sollevate, (cfr ex multis Cass. n. 2609/05).
Pertanto, il motivo è inammissibile solo quando non consente di comprendere con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dai giudici di secondo grado, mentre non hanno invece il minimo rilievo in senso contrario le modalità, l’ordine e l’ubicazione in cui, nello svolgimento dei motivi, siano state esposte le ragioni di doglianza.
Ora, è appena il caso di osservare che nella specie non ricorre alcuna ragione di inammissibilità in quanto la lettura delle argomentazioni svolte nel ricorso, intese a dimostrare l’erroneità delle affermazioni in diritto esposte nella sentenza gravata, consente di comprendere con chiarezza il contenuto della censura formulata. Ciò, senza considerare che risultano comunque indicati puntualmente nel quesito formulato a norma dell’art.366 bis cpc, ratione temporis applicabile nella specie, le norme e i principi di diritto che, da parte della ricorrente, si assumono violati.
Ne deriva l’infondatezza dell’eccezione formulata. Esaurita tale premessa, passando all’esame del contenuto del ricorso, va rilevato che con l’unica doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 19 e 21 legge n. 990/69, la ricorrente lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello ha ritenuto che per persona danneggiata o sinistrata ai sensi dell’art. 21 citato debba intendersi soltanto la vittima dell’incidente. Con la conseguenza che, dovendosi soddisfare il danno subito da tutti gli eredi facendo ricorso al massimale previsto per la vittima dell’incidente, nella specie, la Compagnia Assicuratrice nulla doveva in più della somma di L.200 milioni, versata ai familiari del deceduto.
Al contrario – questa, la tesi della ricorrente – i congiunti della vittima, che agiscono iure proprio, vanno considerati come persone danneggiate, per cui il massimale va riferito ad ognuno dei suddetti congiunti, ciascuno dei quali ha diritto a percepire l’intero importo del massimale.
La censura è fondata.

A riguardo, giova sottolineare che le Sezioni Unite di questa Corte (cfr S.U. n.15376/09), componendo il precedente contrasto giurisprudenziale hanno recentemente statuito il principio, secondo cui “in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante da circolazione di veicoli e di natanti, relativamente a fatto antecedente al 1 maggio 1993, per persona danneggiata, ai sensi dell’art. 21 della legge 24 dicembre 1969 n. 990, deve intendersi non solo la vittima diretta dell’incidente, ma anche i prossimi congiunti o gli aventi causa della stessa, così che i conseguenti danni non devono necessariamente essere soddisfatti tutti nell’ambito del massimale previsto per ogni singola persona, ma il limite del risarcimento è, distintamente per ciascun danno, quello previsto per ciascuna persona danneggiata, fermo nel complesso il massimale per singolo sinistro (c.d. massimale catastrofale)”.

Ne deriva l’accoglimento del ricorso proposto dalla ricorrente.
Passando all’esame del ricorso incidentale, proposto dagli eredi V. , deve rilevarsi che con la prima doglianza, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cpc nonché degli artt. 2059, 2043 cc, 29, 30, 32 Cost., 99, 112, 113 cpc, i ricorrenti hanno lamentato che i giudici di secondo grado avrebbero totalmente omesso di pronunciarsi sulla richiesta di liquidazione del danno biologico iure proprio in capo ai prossimi congiunti della vittima.
Hanno quindi concluso il motivo di impugnazione con il seguente quesito di diritto: “dica la Suprema Corte se ai familiari superstiti spetti il diritto al ristoro della salute conseguente alle gravissime lesioni e alla successiva traumatica perdita del familiare e se esso sia da ricondursi al diritto alla intangibilità dell’integrità familiare”. Il motivo di doglianza è inammissibile, alla luce del rilievo che il quesito non è minimamente conferente con la censura di omessa pronunzia né con la statuizione. Ed è appena il caso di sottolineare che, come ha già avuto modo di avvertire questa Corte, la necessità del collegamento del quesito con la specifica fattispecie costituisce requisito indispensabile ai fini dell’ammissibilità della doglianza, non potendosi prendere in considerazione il motivo di ricorso che si concluda con la formulazione di un quesito per nulla riferibile alla fattispecie o sia comunque assolutamente generico (cfr Sez. Un. n. 36/2007), come è avvenuto nel caso di specie in cui i ricorrenti si sono dapprima lamentati di un’omessa pronunzia da parte del giudice del merito e quindi, nella formulazione del quesito, hanno chiesto l’affermazione che ai familiari superstiti spetta il diritto al ristoro della salute conseguente alle gravissime lesioni e alla successiva traumatica perdita del familiare.
Con la successiva doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e falsa applicazione delle medesime norme di legge indicate nel primo motivo, i ricorrenti, premesso di avere negli atti di primo e secondo grado usato l’espressione “danno biologico iure proprio” intendendo riferirsi alla grave compromissione esistenziale loro derivata dalla grave malattia e quindi dalla morte del loro congiunto, hanno lamentato che l’utilizzazione di una terminologia impropria non doveva essere ostativa all’esame del giudice veneziano della reale domanda introdotta riguardante il danno esistenziale. Hanno quindi concluso il motivo di impugnazione con il seguente quesito di diritto: “dica la Suprema Corte se nel caso di illecito da circolazione stradale con lesioni mortali i parenti stretti e conviventi della vittima – che abbiano chiesto il risarcimento di tutti i danni loro conseguenti dall’uccisione del congiunto – abbiano diritto al ristoro anche del danno esistenziale indipendentemente dal nomen della relativa voce di danno”.
La doglianza è infondata. A riguardo, torna utile premettere che la Corte si è pronunziata ritenendo che mancasse una domanda rivolta al conseguimento del c.d. danno esistenziale e sul punto vale la pena di tener presente che l’interpretazione della domanda è attività discrezionale del giudice di merito, che risolvendosi in un tipico accertamento di fatto è censurabile in sede di legittimità solo sotto il profilo dell’esistenza, sufficienza e logicità della motivazione, per cui non è censurabile ove sorretta da una motivazione congrua e giuridicamente corretta, rispettosa dei canoni legali di ermeneutica, che dettati dal legislatore in materia contrattuale hanno validità generale.
Giova aggiungere ad ogni modo che, come hanno statuito le Sezioni Unite di questa Corte, non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che, ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel “danno esistenziale” si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 cod. civ. (Sez. Un. n. 26972/08).
Con la terza doglianza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2043 cc, 29, 30, 32 Cost., 99, 112, 113 cpc nonché per insufficienza e/o mancanza della motivazione, i ricorrenti hanno lamentato che la Corte avrebbe errato nell’aver ricondotto “il danno da soppressione parentale” alla sola ipotesi di lesione della salute estrinsecatasi in una patologia accertabile medicalmente. Hanno quindi concluso il motivo di impugnazione con il seguente quesito di diritto: “dica la Suprema Corte se nel caso di illecito da circolazione stradale con lesioni mortali, i danni conseguenti agli stretti congiunti della vittima si estrinsechino anche in ipotesi ulteriori e diverse da quella di lesione della loro salute”.
Il motivo non può essere preso in considerazione, dovendosi tener presente che il quesito di diritto deve costituire il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando, altrimenti, non ammissibile, l’investitura stessa del giudice di legittimità. Il quesito non può pertanto essere astratto ed avulso dalla fattispecie concreta, come nella specie, ma deve, imprescindibilmente, attenere al decisum ed essere specificamente riferito al motivo cui accede contrapponendosi direttamente alla regola di diritto – che si ritiene erroneamente applicata – ed indicando sia pure sinteticamente il principio di diritto che dovrebbe essere applicato nella fattispecie. Ne deriva l’inammissibilità della doglianza.
Con l’ultima doglianza, per violazione e falsa applicazione degli artt. 91-92 cpc, 4 dm 127/2004, nonché per carenza assoluta e contraddittorietà della motivazione, i ricorrenti hanno lamentato che la Corte avrebbe errato nel disporre la riduzione dell’importo delle spese legali liquidate in primo grado e la compensazione parziale delle spese di entrambi i gradi.
Hanno quindi concluso il motivo di impugnazione con il seguente quesito di diritto: “dica la Suprema Corte se il capo della sentenza che dispone la parziale compensazione delle spese debba essere adeguatamente motivato con riferimento alla soccombenza reciproca e/o ai giusti motivi ex art. 92 cpc. Dica altresì la Suprema Corte se, pur in presenza di parziale compensazione delle spese di lite, il Giudice di merito debba rispettare i minimi inderogabili previsti per gli onorari e i diritti dal D.M. 24 novembre 1990 n. 392, dal D.M. 5 ottobre 1994 n. 585 e dal D.M. 8 aprile 2004 n. 127?.
La doglianza è infondata, quanto alla disposta compensazione parziale. Ed invero, la motivazione addotta dalla Corte di merito, fondata sulla controvertibilità della questione sottesa all’interpretazione del disposto normativo, deve essere ritenuta assolutamente sufficiente consentendo di desumere chiaramente dal suo complesso le ragioni giustificatrici della disposta parziale compensazione. Del resto, la materia del governo delle spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito al quale compete in via esclusiva verificare la concorrenza delle ragioni che giustificano la compensazione delle spese, e, pertanto, esula dal sindacato di legittimità, salva la possibilità di censurarne la motivazione basata su ragioni illogiche o contraddittorie (profilo nella specie insussistente e neppure dedotto dai ricorrenti). Ne deriva l’infondatezza di tale profilo di doglianza.
Quanto alla pretesa violazione dei minimi tariffari, il profilo di censura è inammissibile in ragione della sua genericità. Ed invero, non può essere esaminata alcuna censura sul punto se non quando l’interessato specifichi le singole voci della tariffa, che sarebbero state violate, al fine di consentire il controllo della sussistenza dell’errore e la sua incidenza (cfr tra le altre Cass. 8857/01, 5467/01, 1382/03, 11583/04).
Alla stregua di tutte le pregresse considerazioni, deve essere rigettato il ricorso incidentale mentre va invece accolto il ricorso principale proposto dalla D.F.M. . Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione al ricorso accolto. Con l’ulteriore conseguenza che, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con la condanna della compagnia T. in l.c.a. a manlevare la ricorrente principale nei limiti del massimale per persona danneggiata di Euro 103.291,37 (pari a lire 200 milioni) con il limite del massimale per sinistro di Euro 258.228,44 (pari a 500 milioni).
Sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese del giudizio in quanto gli orientamenti giurisprudenziali riportati si sono consolidati solo dopo l’introduzione della lite.

P.Q.M.

La Corte decidendo sui ricorsi riuniti accoglie il ricorso principale e rigetta l’incidentale. Cassa la sentenza impugnata, in relazione al ricorso accolto, e, decidendo la causa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c, comma 1, condanna la compagnia T. in l.c.a. a manlevare la ricorrente principale nei limiti del massimale per persona danneggiata di Euro 103.291,37 (pari a lire 200 milioni) con il limite del massimale per sinistro di Euro 258.228,44 (pari a 500 milioni).
Compensa integralmente fra le parti le spese del giudizio.

Depositata in Cancelleria il 04.09.2012

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