Corte di Cassazione, sezione sesta civile, Ordinanza 2 maggio 2018, n. 10406.
Le massime estrapolate
Anche il vizio di omessa pronuncia, ove la parte intenda denunziarlo con l’appello, anziché avvalersi della possibilità di riproposizione della domanda non decisa in separata sede, deve costituire oggetto di un puntuale motivo di appello, con il quale si segnali l’errore commesso dal giudice di primo grado, sebbene la specificazione delle ragioni poste a fondamento del motivo possa esaurirsi nell’evidenziare la mancata adozione in sentenza di una decisione sulla domanda ritualmente proposta.
Sebbene in caso di omessa pronuncia, alla parte sia data la possibilita’ alternativa di riproporre la domanda non decisa in separata sede ovvero di reiterare la richiesta in sede di impugnazione, e’ pero’ ineludibile che laddove si opti per tale seconda soluzione, la riproposizione della domanda debba essere veicolata mediante la formulazione di un apposito motivo di appello (principale o incidentale che sia), volto per l’appunto a far valere la violazione della norma processuale che ha determinato l’omissione di pronuncia.
La nullita’ della consulenza tecnica d’ufficio, derivante dalla mancata comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni peritali o attinente alla loro partecipazione alla prosecuzione delle operazioni stesse, avendo carattere relativo, resta sanata se non eccepita nella prima istanza o difesa successiva al deposito, per tale intendendosi anche l’udienza di mero rinvio della causa disposto dal giudice per consentire ai difensori l’esame della relazione, poiche’ la denuncia di detto inadempimento formale non richiede la conoscenza del contenuto dell’elaborato del consulente.
La divisione parziale tra comproprietari e’ ammissibile quando essi vi consentano o quando formi oggetto di domanda giudiziale che nessuna delle parti estenda, chiedendo la trasformazione, in porzioni concrete, delle quote dei singoli comproprietari sull’intero asse
Ordinanza 2 maggio 2018, n. 10406
Data udienza 21 settembre 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere
Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere
Dott. ABETE Luigi – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27895/2015 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1448/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 06/10/2015;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. MILENA FALASCHI.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
(OMISSIS) evocava in giudizio, innanzi al Tribunale di Palermo, il fratello (OMISSIS) chiedendo che venisse ordinata la demolizione del capannone industriale abusivo posto sul terreno comune, che le parti avevano ereditato dal padre (OMISSIS), previa divisione del terreno medesimo, e che il fratello fosse condannato a corrisponderle un’indennita’ per l’utilizzo esclusivo dell’immobile.
Instaurato il contraddittorio, si costituiva il convenuto chiedendo il rigetto delle domande attorce, oltre a spiegare domanda riconvenzionale onde ottenere la divisione dei patrimoni ereditari dei genitori delle parti in lite.
Con sentenza del 7 luglio 2008 il Tribunale adito respingeva la domanda attorea, rilevando che non poteva procedersi a divisione in assenza di prova circa la regolarita’ urbanistica di uno dei cespiti immobiliari facenti parte dell’asse, secondo quanto disposto dalla L. n. 47 del 1985, articolo 40, comma 2, mentre nessuna pronuncia veniva adottata quanto alla riconvenzionale.
In virtu’ di gravame interposto dalla (OMISSIS), la Corte di appello di Palermo, accoglieva l’impugnazione e in riforma della decisione impugnata disponeva lo scioglimento della comunione relativamente all’immobile in questione, condannando l’appellato al pagamento della somma di Euro 105.225,00, oltre accessori.
A sostegno della decisione adottata osservava preliminarmente che la mancata proposizione di appello incidentale da parte di (OMISSIS) avverso l’implicito rigetto della domanda riconvenzionale circoscriveva l’oggetto del giudizio alla sola divisione del terreno; quindi rilevava che le nullita’ previste dalla L. n. 47 del 1985, concernevano unicamente gli atti fra vivi e non la divisione ereditaria, con la quale non si verificava alcun effetto traslativo della proprieta’ dei beni, e disponeva la divisione del terreno secondo il progetto redatto dal consulente tecnico nominato, condannando (OMISSIS) corrispondere alla sorella un’indennita’ per l’illegittima occupazione esclusiva dell’edificio.
Per la cassazione di detta pronunzia ha proposto ricorso (OMISSIS) sulla base di cinque motivi e l’intimata ha resistito con controricorso.
Ritenuto che il ricorso potesse essere respinto, con la conseguente definibilita’ nelle forme di cui all’articolo 380 bis c.p.c., in relazione all’articolo 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata alle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della Camera di consiglio.
Atteso che:
con il primo motivo il ricorrente, nel contestare la nullita’ della sentenza per violazione degli articoli 112 e 346 c.p.c., lamenta che la corte d’appello ha erroneamente ritenuto l’implicito rigetto della domanda riconvenzionale da parte del giudice di prime cure, che invece non si era pronunziato sulla stessa in conseguenza del mancato deposito del fascicolo di parte. Esso e’ manifestamente infondato.
Il giudice distrettuale ha ritenuto che l’omessa pronunzia da parte del primo giudice quanto alla domanda riconvenzionale – peraltro conseguente alla mancata restituzione del fascicolo a cura di parte convenuta – equivalesse a rigetto implicito della stessa, presumendosi la volontarieta’ della mancata restituzione (cfr. Cass. n. 18237 del 2008; Cass. n. 6521 del 1997); in relazione a detta pronunzia ha poi considerato necessaria la proposizione di appello incidentale da parte dell’appellato, che pacificamente non ha riproposto la domanda con l’atto di costituzione in appello.
Ritiene il Collegio che di fronte all’omesso esame di un qualsiasi profilo della originaria domanda riconvenzionale, l’unico modo in cui egli poteva ottenere che la relativa questione rimanesse sub iudice era l’appello incidentale, perche’ quella omissione che fosse motivata o meno dal rigetto della domanda principale di parte attrice che fosse, rappresentava una parte della sentenza ai sensi dell’articolo 329 c.p.c., comma 2, che doveva essere criticata per essere ridiscussa dal giudice d’appello e cio’ perche’ rappresentante un decisum di essa. Come tale ridiscutibile appunto solo con l’esercizio del diritto di impugnazione e cio’ ancorche’ lo (OMISSIS) fosse vittorioso nell’esito finale della lite e soccombente solo rispetto alla sua domanda.
Infatti, pacifico che il giudice di primo grado, nonostante l’asserita rituale proposizione di una domanda riconvenzionale, ha omesso qualsivoglia decisione sulla stessa ed e’ evidente che la sentenza del tribunale risultava affetta dalla violazione della previsione di cui all’articolo 112 c.p.c..
Sebbene in caso di omessa pronuncia, alla parte sia data la possibilita’ alternativa di riproporre la domanda non decisa in separata sede ovvero di reiterare la richiesta in sede di impugnazione, e’ pero’ ineludibile che laddove si opti per tale seconda soluzione, la riproposizione della domanda debba essere veicolata mediante la formulazione di un apposito motivo di appello (principale o incidentale che sia), volto per l’appunto a far valere la violazione della norma processuale che ha determinato l’omissione di pronuncia.
In tal senso non appare sufficiente, cosi’ come vorrebbe il ricorrente, limitarsi a depositare il fascicolo di primo grado per ritenere riprodotta la richiesta non esaminata da parte del giudice di primo grado, sicche’ correttamente la sentenza impugnata ha rilevato l’inammissibilita’ della domanda riconvenzionale in assenza della formulazione di una specifica censura circa la sua mancata disamina da parte del giudice di primo grado.
Reputa sul punto il Collegio di non poter condividere quanto in precedenza affermato da questa Corte, da ultimo nella sentenza del 30 aprile 2014 n. 9485, nella quale si e’ invece sostenuto che in caso di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su di un punto della domanda, l’appellante, ai fini della specificita’ del motivo di gravame deve soltanto reiterare la richiesta non esaminata in prime cure (in senso conforme Cass. 20 giugno 1978 n. 3054).
Ad avviso del Collegio tale principio non tiene adeguatamente conto di quella che e’ la reale natura del giudizio di appello, quale scaturente dall’inquadramento offertone dalla piu’ recente giurisprudenza delle Sezioni Unite. Ed, infatti, ancorche’ al fine di determinare la corretta applicazione della regola di giudizio di cui all’articolo 2697 c.c., in grado di appello, la Corte (Cass. Sez. Un., n. 3033 del 2013) ha affermato che: “Nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non puo’ piu’ dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata (“novum judiciumu”), ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata (“revisioprioris instantiae”) (in senso conforme Cass. Sez. Un. n. 28498 del 2005; di recente, Cass. Sez. Un. n. 11799 del 2017).
Ne consegue che poiche’ il giudizio di appello mira ad una revisione in chiave critica dell’operato del giudice di primo grado, del quale deve essere evidenziata l’erroneita’ sia nella corretta applicazione delle norme che regolano il processo, sia nella concreta attivita’ valutativa dei fatti di causa, sia nella corretta applicazione delle norme di diritto, la critica deve essere necessariamente veicolata mediante la specifica formulazione di un motivo di gravame, in ossequio al dettato dell’articolo 342 c.p.c., ovvero dell’articolo 329 c.p.c., di modo che, anche il vizio di omessa pronuncia, ove la parte intenda denunziarlo con l’appello, anziche’ avvalersi della possibilita’ di riproposizione della domanda non decisa in separata sede, deve costituire oggetto di un puntuale motivo di appello, con il quale si segnali l’errore commesso dal giudice di primo grado, sebbene la specificazione delle ragioni poste a fondamento del motivo possa esaurirsi nell’evidenziare la mancata adozione in sentenza di una decisione sulla domanda ritualmente proposta. Solo a tali condizioni, e cioe’ imponendosi che le critiche alla sentenza impugnata trovino formale esplicitazione in un espresso motivo di impugnazione, e’ possibile assicurare che il giudizio di appello conservi la natura di revisio prioris instantiae, in quanto ad opinare diversamente, e proprio in relazione al caso in esame, la semplice riproposizione della domanda non esaminata, non accompagnata anche dalla concreta individuazione dell’errore commesso dal giudice di primo grado, determinerebbe l’assimilazione del giudizio di secondo grado ad un iudicium novum, con effetto devolutivo pieno, in contrasto coni suddetti arresti delle Sezioni Unite.
Giusta quanto osservato si deve rilevare che in modo del tutto corretto la corte distrettuale ha escluso che fosse sufficiente la c.d. riproposizione ai sensi dell’articolo 346 c.p.c., della domanda riconvenzionale;
– con il secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione “delle norme sulla divisione ereditaria contenute nel titolo 4 del libro 2 del codice civile”, assumendo che il procedimento di divisione ereditaria non puo’ che essere unitario e che, pertanto, quando uno dei coeredi chiede la divisione parziale i restanti possono sempre domandare a loro volta la divisione dell’intero asse, ampliando la domanda; assume, pertanto, che la corte d’appello avrebbe dovuto dar corso alla divisione integrale dei due patrimoni ereditari, tanto piu’ dopo che nel corso del giudizio di primo grado la coerede aveva aderito alla sua domanda. Esso e’ in parte superato dalle considerazioni sopra svolte ed in parte infondato.
Per un verso, infatti, la censura non tiene conto della affermata rinuncia alla domanda riconvenzionale, ritenuta dal giudice distrettuale in conseguenza della mancata proposizione di appello incidentale (v. pag. 4 della decisione impugnata. Per altro verso, va ricordato che il principio dell’universalita’ della divisione ereditaria non e’ assoluto ed inderogabile ed e’ possibile una divisione parziale, sia quando al riguardo intervenga un accordo tra le parti, sia quando (ed e’ il caso che in concreto si e’ realizzato nella specie), essendo stata richiesta tale divisione da una delle parti, le altre non amplino la domanda, chiedendo a loro volta la divisione dell’intero asse (Cass. n. 573 del 2011; Cass. n. 10220 del 1994).
In definitiva, la divisione parziale tra comproprietari e’ ammissibile quando essi vi consentano o quando formi oggetto di domanda giudiziale che nessuna delle parti estenda, chiedendo la trasformazione, in porzioni concrete, delle quote dei singoli comproprietari sull’intero asse (Cass. n. 1086 del 1967);
– con il terzo motivo il ricorrente deduce nullita’ della sentenza per violazione dell’articolo 194 c.p.c., ravvisando una grave violazione del principio del contraddittorio nel fatto che il consulente nominato aveva omesso di invitarlo a partecipare al secondo sopralluogo. La censura non e’ fondata.
Questa Corte ha in piu’ occasioni ribadito che la nullita’ della consulenza tecnica d’ufficio, derivante dalla mancata comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni peritali o attinente alla loro partecipazione alla prosecuzione delle operazioni stesse, avendo carattere relativo, resta sanata se non eccepita nella prima istanza o difesa successiva al deposito, per tale intendendosi anche l’udienza di mero rinvio della causa disposto dal giudice per consentire ai difensori l’esame della relazione, poiche’ la denuncia di detto inadempimento formale non richiede la conoscenza del contenuto dell’elaborato del consulente (v., tra le altre, Cass. 10 dicembre 2010 n. 24996; Cass. 24 gennaio 2013 n. 1744); cio’ in conformita’ alla previsione generale dell’articolo 157 c.p.c., comma 2.
A fronte di simile orientamento, la ricorrente non solo non da’ conto di avere tempestivamente eccepito la presunta nullita’ in sede di giudizio di merito – in tal modo non ottemperando ai requisiti di cui all’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – ma sostanzialmente non coglie nel segno, poiche’ la giurisprudenza di questa Corte ha pure affermato che in tema di consulenza tecnica d’ufficio, ai sensi dell’articolo 194 c.p.c., comma 2 e dell’articolo 90 disp. att. c.p.c., comma 1, alle parti va data comunicazione del giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni peritali, mentre l’obbligo di comunicazione non riguarda le indagini successive, incombendo alle parti l’onere di informarsi sul prosieguo di queste al fine di parteciparvi (Cass. 2 marzo 2004 n. 4271 e Cass. 7 luglio 2008 n. 18598). Il ricorso neppure prospetta che il rinvio da parte del c.t.u. dopo il primo accesso sia stato a data da destinarsi; d’altro canto soltanto nel caso di rinvio delle operazioni senza comunicazione puo’ configurarsi una nullita’ della consulenza, sempre che la parte interessata dimostri il pregiudizio al proprio diritto di difesa in relazione alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass. n. 6195 del 2014; Cass. n. 10054 del 2010; Cass. n. 18598 del 2008), mentre nulla riferisce al riguardo, sicche’ e’ evidente che questo aspetto della censura e’ privo di fondamento;
– con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’articolo 720 c.c., contestando la ritenuta comoda divisibilita’ del terreno in comproprieta’. La doglianza e’ inammissibile prima che infondata.
La Corte di merito, cui era riservata ogni valutazione sul punto, in ambito di un tipico apprezzamento di fatto, non censurabile in sede di legittimita’ se sorretto da motivazione adeguata (v. Cass. n. 7961 del 2004; Cass. n. 12498 del 2007), ha argomentato, specificamente e coerentemente, in ordine la comoda divisibilita’ del compendio immobiliare in oggetto, per prevedere il frazionamento predisposto dal c.t.u. la individuazione di due porzioni omogenee di mq 468 ciascuna, con accesso autonomo da (OMISSIS), aventi il medesimo valore.
Alla luce di tali argomentazioni risulta evidente l’inconsistenza della critica mossa da parte ricorrente;
– con il quinto motivo il ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio assumendo che la corte di appello avrebbe errato nel ritenere pacifico l’utilizzo esclusivo del fabbricato da parte sua – determinando di conseguenza l’indennizzo – omettendo di tener conto di allegazioni di segno contrario. Anche quest’ultima censura non e’ fondata.
Dalle stesse allegazioni invocate dal ricorrente a sostegno della censura, in particolare la mancanza di una qualche iniziativa da parte della sorella volta alla condivisione in termini economici del terreno in questione – ed evidentemente considerate dal giudice d’appello – emerge come egli utilizzasse in via esclusiva l’immobile per l’esercizio dell’attivita’ di autonoleggio, gia’ svolta dal padre, a nulla rilevando il fatto che, come dallo stesso affermato, alla sorella “nessuno vietasse di fruire del terreno per qualsiasi attivita’, compresa quella dell’autonoleggio”. Ai sensi dell’articolo 820 c.c., comma 2, infatti, i frutti civili hanno la funzione di corrispettivo del godimento del bene utilizzato in via esclusiva da un comproprietario, a prescindere dallo stato psicologico delle parti.
In conclusione il ricorso deve pertanto essere respinto.
Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Poiche’ il ricorso e’ stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed e’ rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilita’ 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in favore della controricorrente in complessivi Euro 5.800,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario e agli accessori come per legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.
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