Suprema Corte di Cassazione
sezione I
n. 12198 del 17 luglio 2012
Con la sentenza impugnata, di rigetto dell’impugnazione della pronuncia di primo grado, è stata accolta la domanda di accertamento giudiziale di paternità naturale proposta da G.G. nei confronti di D..R. , sul rilievo della piena idoneità dei riscontri probatori acquisiti, consistenti nell’ingiustificato rifiuto di sottoposi alla prova del DNA da parte del presunto padre e nelle dichiarazioni della madre dell’appellante. A tale riguardo, la Corte d’Appello di Bari ha richiamato la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo la quale le dichiarazioni materne non sono del tutto inutilizzabili ai sensi dell’art. 269, ultimo comma, cod. civ. ma devono essere valutate al pari degli altri elementi di fatto accertati. Tra tali elementi, primario rilievo deve essere attribuito al rifiuto ingiustificato di sottoporsi all’esame del DNA, il quale, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, costituisce comportamento processuale valutabile ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ. anche in assenza della prova di un qualsiasi rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre naturale, atteso che proprio la mancanza di prove oggettive, ben difficilmente acquisibili, giustifica il ricorso alla prova ematologica, il cui esito consente di escludere o accertare in modo sostanzialmente certo la contestata paternità (Cass. 10377 del 1997). Peraltro, si precisa nella sentenza impugnata, tale rifiuto non può giustificarsi neanche alla stregua del diritto alla riservatezza, in quanto l’uso dei dati acquisiti è esclusivamente diretto a fini di giustizia ed il consulente è tenuto al segreto professionale, così come affermato dalla Corte di Cassazione (13766 del 2001), ragione per cui non si determina alcuna lesione della libertà personale; (Cass. 14910 del 2000 e 2907 del 2002). Infine, nel quadro globale degli elementi di fatto acquisiti, le dichiarazioni della madre dell’appellante sono state circostanziate ed hanno posto in luce che il convenuto, coniugato con prole, aveva interrotto la relazione sentimentale con la teste, dopo aver saputo che era in stato di gravidanza senza aver mai contribuito al mantenimento del minore nonostante le richieste da essa formulate al riguardo. Secondo il giudice d’appello, proprio la condizione non libera del R. avrebbe fornito adeguata spiegazione dell’abbandono di ogni speranza di regolarizzazione da parte della giovane madre e del ritardo con il quale era stato intrapreso il percorso giudiziario. Infine, la Corte d’Appello ha ritenuto tale testimonianza pienamente ammissibile,atteso che legittimato passivo nell’azione in questione è esclusivamente il genitore verso il quale viene rivolta la domanda.
Anche il secondo motivo d’appello relativo all’ingiusto riconoscimento e liquidazione a titolo risarcitorio della somma di Euro 25000 in favore del G. veniva respinto, richiamando l’orientamento della Corte di Cassazione su tale danno (Cass. 7713 del 2006), secondo il quale il rifiuto reiterato di corrispondere al figlio naturale i mezzi di sussistenza costituisce di per sé lesione dei diritti fondamentali, riconosciuti dalla Costituzione, inerenti la qualità di figlio e di minore.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il R. , affidandosi a due motivi. Ha resistito con controricorso il G.
Motivi della decisione
Nel primo motivo viene denunciata la violazione delle norme e dei principi regolativi della prova testimoniale ed in particolare dell’art. 246 cod. proc. civ. e dell’art. 269 cod. civ., evidenziando che le dichiarazioni della madre del controricorrente sono state rese da soggetto incapace di testimoniare, in quanto qualificabile, ex art. 276, ultimo comma, cod. civ. come interventore adesivo dipendente. Pertanto tali dichiarazioni non avrebbero potuto integrare il quadro probatorio posto a base dell’accoglimento della domanda. La motivazione della sentenza su tale questione, secondo il ricorrente, è contraddittoria perché il precedente (Cass. n. 3143 del 1994) sul quale si fonda non esclude l’interesse a contraddire della madre (art. 276 ultimo comma cod. proc. civ.), limitandosi ad affermare che l’unico contraddittore necessario nell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità è il genitore verso il quale si intende accertare la filiazione naturale. In conclusione il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto:
‘La madre, essendo legittimata a spiegare intervento adesivo dipendente,è incapace di testimoniare nel giudizio intentato dal figlio per la dichiarazione di paternità naturale?’
Nel secondo motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione delle norme e dei principi in tema di riconoscimento della paternità ed in particolare della disciplina normativa prevista nell’art. 269, ultimo comma cod. civ. in correlazione con gli artt. 2697 cod. civ. e 116 cod. proc. civ. Secondo il ricorrente le sole dichiarazioni della madre naturale, peraltro nella specie prive d’indicazioni specifiche sul luogo e la frequenza degli incontri o la conoscenza della circostanza da parte di terzi non possono essere ritenute idonee ai fini dell’accertamento giudiziale della paternità solo perché correlate al rifiuto della parte convenuta a sottoporsi all’esame del DNA, ma sono necessari altri riscontri provenienti da testimonianze anche de relato o da altre risultanze istruttorie. I precedenti citati nella sentenza di secondo grado, precisa la parte ricorrente, riguardano tutti giudizi caratterizzati da un quadro probatorio più ampio delle mere dichiarazioni materne. Pertanto viene formulato il seguente quesito di diritto:
‘nel giudizio diretto ad ottenere sentenza dichiarativa di paternità naturale, in mancanza di prove o indizi gravi, precisi e concordanti della asserita relazione, solo dichiarata ma non provata, può il rifiuto di una parte di sottoporsi agli esami ematologici costituire comportamento rilevante ed integrativo che a norma dell’art. 116 cod. proc. civ. concorre alla formazione del convincimento del giudice?’
Seguendo l’ordine logico delle questioni individuate nel ricorso, è opportuno affrontare prioritariamente quest’ultimo motivo. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (tra le più recenti Cass. 6694 del 2006 e 14976 del 2007), la corretta interpretazione del secondo e del quarto comma dell’art. 269 cod. civ. conduce ad escludere che possa sussistere un ordine gerarchico delle prove riguardanti l’accertamento giudiziale di paternità e maternità. Il secondo comma stabilisce espressamente che la prova può essere data con ogni mezzo, con l’unico limite, indicato nell’ultimo comma, costituito dal fatto che il quadro probatorio non può consistere nelle sole dichiarazioni della madre e nella sola esistenza di rapporti tra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento. All’interno di questo perimetro, il giudice può liberamente valutare le prove, non sussistendo limiti legali (art. 116 primo comma, cod. proc. civ.) e può trarre argomenti di prova dal contegno processuale delle parti. (art. 116, secondo comma, cod. proc. civ.). Deve, pertanto, escludersi che il rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla prova ematologica possa essere valutato solo se sia stata provata aliunde l’esistenza di rapporti sessuali tra il presunto padre e la madre naturale, come ritenuto dal ricorrente. Al riguardo la sentenza n. 6694 del 2006 ha espressamente affermato che: in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269, secondo comma, cod. civ., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, né, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di merito di una sorta di ‘ordine cronologico’ nella loro ammissione ed assunzione, a seconda del ‘tipo’ di prova dedotta, avendo, per converso, tutti 1 mezzi di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge. E più di recente la sentenza n. 14976 del 2007, nel confermare integralmente il principio sopraesposto, ha aggiunto che ‘una diversa interpretazione si risolverebbe in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., in relazione ad un’azione volta alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status’. Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., anche in assenza di prove dei rapporti sessuali tra le parti, in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi assolutamente certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, potendosi trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre. (Cass. 6694 del 2006).L’orientamento sorto e consolidatosi negli anni ’90 (Cass. 6217 del 1994, 6550 del 1995, 1661 del 1997, 9307 del 1997, 692 del 1998, 2944 del 1998), è stato ribadito con la pronuncia n. 12679 del 1998, nella quale la Corte ha specificamente precisato, in un caso analogo a quello formante oggetto del presente giudizio che ‘la sentenza impugnata, nell’escludere ogni valenza probatoria al rifiuto del convenuto di sottoporsi alla perizia immuno ematologica in mancanza di ulteriori risultanze istruttorie che potessero consentire una valutazione globale di tale comportamento nel quadro della considerazione unitaria di tutti gli elementi acquisiti agli atti, è incorsa nel vizio di falsa applicazione di un principio in sé esatto, poiché non ha considerato che proprio l’assenza di prove in ordine alla reale natura dei rapporti tra le parti (…) se impedisce di fondare la prova della paternità naturale sulle sole dichiarazioni della madre (…) non esclude che il giudice possa trarre argomenti dal comportamento processuale delle parti e trarre dalla valutazione unitaria delle dichiarazioni della madre e del rifiuto del padre il fondato convincimento in ordine alla paternità naturale’.
Ne consegue, contrariamente a quanto sostenuto nel secondo motivo di ricorso, che non sono necessari, ai fini dell’accoglimento della domanda, ulteriori riscontri probatori a conferma delle dichiarazioni della madre naturale perché possa darsi rilievo all’ingiustificato rifiuto del convenuto di sottoporsi all’esame ematologico, dovendo essere valorizzato, proprio per la natura e l’oggetto delle circostanze di fatto da accertare, il contegno processuale delle parti, ed in particolare le ragioni del rifiuto del convenuto, nella specie, non fondate su alcuna giustificazione plausibile, attesa la tipologia, del tutto non invasiva ed innocua, dell’esame da svolgere, il cui esito consente non solo di escludere in modo assoluto la paternità, ma anche di confermarla con un grado di probabilità che, alla stregua delle attuali conoscenze scientifiche, supera normalmente il 99 per cento (Cass. 6550 del 1995). Ne consegue che la decisività di tale mezzo di prova costituisce un rilevante criterio di valutazione del comportamento processuale (Cass. 6217 del 1994) della parte. Peraltro, la sentenza di secondo grado, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, evidenzia la coerenza e la univocità delle dichiarazioni rese dalla madre naturale; oltre alle più che plausibili ragioni (lo stato coniugale del R. e la conseguente clandestinità della relazione) della mancanza di conoscenza di tale legame da parte di terzi. Al rigetto del secondo motivo segue il rigetto anche del primo. La madre naturale dell’attore, in primo grado, G..G. , maggiorenne fin dalla proposizione della domanda di accertamento della paternità, non è parte del presente giudizio. Non può essere litisconsorte necessaria, in quanto legittimato passivo è il solo genitore,. (ed in mancanza i suoi eredi) nei confronti del quale si intende accertare la filiazione (Cass. 3143 del 1994, S.U. 21287 del 2005), né legittimata attiva, quando il figlio naturale abbia raggiunto la maggiore età. La corretta configurazione della sua posizione processuale può essere desunta dall’interpretazione coordinata dell’art. 276, ultimo comma, e 269 cod. civ.. L’art. 276, ultimo comma, cod. civ. stabilisce che alla domanda può contraddire ‘chiunque ne abbia interesse’. Secondo l’orientamento di questa sezione (Cass. 8355 del 2007) tale norma prefigura un intervento principale,regolato dall’art. 105, primo comma, cod. proc. civ. e non meramente adesivo. Nell’ipotesi di maggiore età del richiedente l’accertamento giudiziale della paternità, non può astrattamente configurarsi un interesse principale ad agire o a contraddire (con intervento autonomo) della madre naturale ai sensi del citato art. 276, ultimo comma cod. civ., quando non sia più ravvisabile un obbligo legale di assistenza o mantenimento nei confronti del figlio naturale, ma, esclusivamente, la eventualità di un intervento adesivo dipendente quando sia ravvisabile, però, un interesse di fatto tutelabile in giudizio (Cass. 1369 del 1989). La disciplina normativa della legittimazione ad agire nell’azione giudiziale di paternità naturale, contenuta nell’art. 276 cod. civ., correlata all’interpretazione del secondo e quarto comma dell’art. 269 cod. civ., pone in evidenza che le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integrativo, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante. Ne consegue l’inapplicabilità, ai fini della valutazione di tali dichiarazioni, del parametro dell’incapacità a testimoniare contenuto nell’art. 246 cod. proc. civ., costituendo esse, per espressa previsione normativa e nei limiti dell’ultimo comma dell’art. 269 cod. civ., uno degli elementi di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione. Peraltro, la concreta valutazione di attendibilità delle dichiarazioni in oggetto non è censurabile in sede di legittimità, quando, come nella sentenza impugnata, è sorretta da una motivazione del tutto coerente ed adeguata. Anche il primo motivo di ricorso deve essere respinto. Al rigetto del ricorso segue l’applicazione del principio della soccombenza in ordine alle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso e condanna il contro ricorrente al pagamento delle spese del presente grado che liquida in complessivi Euro 3200 di cui 200 per esborsi oltre spese generali, ed accessori come per legge.
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