Le massime

1. Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 319-ter c.p. deve considerarsi atto giudiziario non soltanto l’atto del giudice, bensì l’atto funzionale ad un procedimento giudiziario, sicché rientra nello stesso anche la deposizione testimoniale resa nell’ambito di un processo penale e l’atto del direttore sanitario presso una casa circondariale, anche se non legato dall’Amministrazione Penitenziaria da un rapporto di pubblico impiego.

2. Rientra nella fattispecie di cui all’art. 319-ter c.p. l’atto del funzionario di cancelleria, collocato nella struttura dell’ufficio giudiziario, che esercita un potere (l’assegnazione del processi tramite manipolazione dei criteri automatici di assegnazione) idoneo ad incidere sul suo concreto funzionamento e sull’esito del procedimento giudiziario.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

SENTENZA 19 giugno 2012, n.24349

Ritenuto in fatto

 

1. A seguito di denuncia di G..P. e relative indagini di polizia giudiziaria, fu sottoposto a misura cautelare carceraria per il reato di corruzione in atti giudiziari E..M. , cancelliere del tribunale di Salerno, in servizio presso la sezione distaccata di Eboli.

Dalla confessione resa dall’indagato emerse che il M. , “in accordo con collega Le..Sa. , si era “messo in affari” con alcuni avvocati interessati ad azionare in sede esecutiva migliaia di titoli del lotto, al fine di ottenere rapide approvazioni dei piani di riparto redatti dai predetti avvocati”.

Di tali titoli, la cui vincita di poche migliaia di lire non risultava pagata, gli avvocati facevano incetta, corrispondendo agli acquirenti il prezzo nominale dei titoli, che venivano poi azionati in sede esecutiva nell’esclusivo interesse degli avvocati per lucrare onorari e spese legali.

2. Vari imputati furono rinviati a giudizio per rispondere, tra l’altro, dei delitti di corruzione in atti giudiziari (sia per atti d’ufficio sia per atti contrari ai doveri d’ufficio) consistenti nel raggiunto accordo tra avvocati e due cancellieri in servizio presso il Tribunale di Salerno (M. e Sa. ) per far si che le procedure esecutive da essi intentate nei confronti del Ministero delle Finanze venissero assegnate in violazione dei criteri predeterminati a giudici onorari compiacenti al successivo fine di far loro approvare senz’altro, rapidamente, in udienza, e senza alcun controllo sostanziale sugli stessi, i piani di riparto delle somme pignorate consentendo la liquidazione delle somme indicate nei titoli esecutivi azionati, quali onorari e spese legali, che risultavano eccessive ed esorbitanti rispetto alla causa, sovente con la conseguente ulteriore dichiarazione di incapienza delle somme pignorate, e la possibilità di reiterare il meccanismo, iniziando una nuova procedura esecutiva, (sempre sulla base dello stesso titolo, in cui la sorta capitale era di infimo valore) con ulteriore attribuzione di spese legali in eccesso; il tutto in cambio di somme di danaro elargite ai cancellieri in proporzione al numero dei procedimenti e interventi nelle procedure esecutive secondo un ‘piano tariffario’ predeterminato e concordato dagli stessi avvocati e cancellieri.

3. Le imputazioni contestata ai due cancellieri e a taluni avvocati concorrenti nel reato, tra cui D.G. e Si. , indicati come ‘i collettori’ delle illecite dazioni di denaro consegnate ai cancellieri, furono definite per separato giudizio. I giudici onorari G..N. e A..D. furono assolti dal giudice dell’udienza preliminare dai reati di abuso d’ufficio, in quanto ritenuti in buona fede, quasi raggirati dai cancellieri suindicati.

Il presente procedimento ha ad oggetto la condotta degli avvocati F.G. e M. , C..A. , S.G. e M..C. .

In esito a rito abbreviato, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Napoli, condannò alla pena (sospesa ex art. 163 cod. pen.) di un anno e sei mesi di reclusione per i reati loro ascritti i primi tre imputati, mentre assolse il S. e la C. per non avere commesso il fatto.

4. La Corte d’appello di Napoli, pronunciando sull’impugnazione del pubblico ministero e degli imputati, ha confermato la sentenza del g.u.p. nei confronti di G..F. ; ha limitato la condanna di M..F. e C..A. al reato di cui agli artt. 110 e 619 ter cod. pen., riducendo la pena a un anno, un mesi e cinque giorni di reclusione ciascuno; ha dichiarato la responsabilità penale per concorso nello stesso reato anche di G..S. e C.M. , condannando (con pena condizionalmente sospesa) il primo alla reclusione di un anno, quattro mesi e dieci giorni, e la seconda alla reclusione di un anno, quattro mesi e dieci giorni.

Nei confronti di tutti gli imputati è stata disposta la pena accessoria dell’interdizione dall’esercizio della professione forense per un anno.

5. Ricorrono per cassazione i cinque imputati.

5.1. G..F. deduce, ex art. 606.1 lett. b ed e c.p.p., erronea applicazione dell’art. 319-ter cod. pen. e degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen., nonché illogicità della motivazione della sentenza, denunciando:

a) insussistenza di atto giudiziario commesso per favorire o danneggiare una parte in un processo;

b) insussistenza di un atto di ufficio riconducibile alla sfera di competenza del pubblico ufficiale corrotto;

c) sussistenza della parte favorita o danneggiata nel processo, erroneamente individuata nel Ministero delle Finanze e negli avvocati;

d) sussistenza della concussione, dovendosi censurare in particolare la valutazione delle chiamate in correità, la attendibilità dei chiamanti e la sussistenza dei riscontri;

e) errata applicazione dell’art. 319-ter cod. pen. per aver omesso di ritenere che si tratti di circostanza aggravante.

5.2. M..F. deduce erronea applicazione dell’art. 319-ter cod. pen. e degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen., nonché illogicità della motivazione della sentenza, assumendo che la condotta del cancelliere non poteva influire sull’atto giudiziario che avrebbe emanato il giudice, in quanto estranea al procedimento valutativo proprio del magistrato.

Deduce la mancanza di riscontri e censura inoltre il diverso criterio utilizzato per la valutazione della identica posizione del coimputato Carlo Balbiani, nonché l’apodittica pretesa necessaria conoscenza dei fatti e degli accordi soltanto perché parente di G..F. .

5.3. C..A. lamenta inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 319-ter cod. pen., 192 c.p.p. e relativo vizio di motivazione, con riferimento alla chiamata in correità e ai relativi riscontri.

5.4. G..S. denuncia contraddittorietà ed illogicità della motivazione con riferimento alle dichiarazioni di E..M. , di Ma..Si. , di Le..Sa. , mancanza di motivazione in relazione ai rilievi mossi con la memoria difensiva depositata il 9.3.2003, erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 318 e 319 cod. pen. e alla connessa declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

5.5. M..C. censura la violazione dell’art. 606.1 lett. b) ed e; c.p.p. in relazione all’art. 192 c.p.p., con particolare riferimento alla chiamata in correità del Sa. e alla mancanza di idonei riscontri.

 

Considerato in diritto

 

1. I motivi di ricorso di G..F. , separatamente presentati dall’avv. S. Perongini e dall’avv. M. Alfano, in gran parte reiterano quelli dedotti con l’atto di gravame, rigettati dalla Corte d’appello con una approfondita, completa e ineccepibile motivazione.

1.2 Senza fondamento è la prima censura, formulata nell’ambito del primo motivo di ricorso, la quale lamenta che la Corte napoletana ha frainteso il motivo d’appello con cui si era evidenziato che delle tre tipologie di atti giudiziari, originariamente contestati, a cui era finalizzato l’accordo corruttivo (velocizzare il rilascio di copie esecutive; assegnare ai giudizi onorari compiacenti alcune procedure esecutive mobiliari; rappresentare al giudice delegato l’intervenuta verifica della congruità dei titoli esecutivi azionati e della corrispondenza ai parametri tariffari delle competenze legali indicate nel piano di distribuzione amichevole delle somme pignorate), la terza era stata ritenuta insussistente. Con ciò egli aveva inteso denunciare la mancanza di correlazione tra quanto ritenuto in sentenza e quanto prospettato nei capi di imputazione, non già al fine di invocare una violazione del diritto di difesa, bensì di dimostrare che il giudice di primo grado aveva eliminato dal contestato reato di corruzione in atti giudiziari la presenza stessa ‘dell’atto commesso per favorire o danneggiare una parte in un processo’.

Indipendentemente dalle considerazioni svolte nella sentenza impugnata sull’inesistente violazione del diritto di difesa, la Corte territoriale ha ben individuato che l’appellante assumeva che da tale eliminazione dovesse conseguire inevitabilmente la caduta dell’intera contestazione a causa del venir meno del delitto di corruzione in atti giudiziari, per l’assenza dell’elemento rappresentato dal beneficio o danno arrecato ad una delle parti processuali.

La deduzione è stata condivisibilmente rigettata, osservando la Corte territoriale che dagli atti, e in particolare dalle dichiarazioni del Sa. e del N. , emerge che i cancellieri assicuravano i giudici onorari sulla perfetta regolarità delle procedura esecutive (compresa la quantificazione degli onorari) e che tale condotta era funzionale alla velocizzazione dell’approvazione dei piani di riparto, che venivano firmati in udienza: ‘se il giudice si fosse, come avrebbe certamente dovuto fare, messo a controllare uno per uno i titoli esecutivi, […] e verificare che attività professionale aveva formalmente svolto il legale, quali spese aveva sostenuto, dovendo ogni volta esaminare centinaia di procedure riunite, certamente avrebbe dovuto riservare la decisione, certamente il piano di riparto non avrebbe potuto essere approvato con formula di stile, ma ci sarebbe voluto più tempo (e probabilmente gli onorari sarebbero stati congruamente decurtati anche in assenza di una specifica nota spese idonea a giustificarne il rilevante importo): proprio la velocità dell’approvazione senza problemi e senza decurtazione era stata l’oggetto dell’accordo intervenuto tra gli avvocati ed i cancellieri, che a tal fine dovevano trovare il giudice “alla mano” pronto a prestarsi ad approvazioni’ senza controllo, fidandosi delle rassicurazioni dei più esperti dei cancellieri.

1.3 Assolutamente corretta e condivisibile è la qualificazione giuridica dei fatti, operata dalla Corte d’appello, con analisi e argomentazioni del tutto conformi alla giurisprudenza di legittimità.

È stato ben puntualizzato che, ai fini della sussistenza dell’atto contrario ai doveri d’ufficio, non è necessario che l’atto richiesto al pubblico ufficiale in cambio di un vantaggio indebito debba essere in sé illegittimo (Cass. n. 44971/2005, Rv. 233505, Caristo), giacché ciò che rileva è che esso sia contrario ai doveri dell’ufficio e che risulti confluente in un atto giudiziario destinato ad incidere negativamente sulla sfera giuridica di un terzo. Nel caso in esame – ha ben valutato il giudice d’appello – gli atti dei due funzionari di cancelleria non erano conformi ai doveri d’ufficio, perché essi pilotavano l’assegnazione delle procedure attraverso la manipolazione dei meccanismi di assegnazione, convogliando verso un ben individuato giudice onorario compiacente le ordinanze di assegnazione, secondo le indicazioni offerte dagli stessi legali; tali atti giudiziari avevano ovviamente un’immediata incidenza nella sfera giuridica del debitore esecutato, che si vedeva condannato al pagamento di somme per spese legali esorbitanti.

Per quanto le modalità di realizzazione del delitto di corruzione in atti giudiziari siano sostanzialmente le stesse della corruzione impropria e propria (Cass. n. 44971/2005, Rv. 233505, Caristo; n. 23024/2004, Rv. 230441, Drassich), le peculiarità del reato di cui all’art. 319-ter cod. pen., funzionale all’adozione di un atto talvolta implicante la soluzione di questioni giuridiche complesse, talaltra di valutazioni discrezionali, rendono meno agevole la stessa valutazione di conformità o contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio.

Correttamente, dunque, nella sentenza impugnata, richiamando precedenti di questa Corte di legittimità (Cass. n. 33435/2006, Battistella; ma v. anche Cass. Sez. U, n. 1520804/2010, Rv. 246582, Mills), si afferma che non appare decisiva la mera verifica della regolarità formale del provvedimento, potenzialmente compatibile con un atto frutto di corruzione, perché ciò che assume rilievo qualificante è la contaminazione del libero ed indipendente esercizio della funzione giurisdizionale: non è il contenuto dell’atto in sé a qualificare come propria o impropria la corruzione, ma è decisivo il metodo con cui si giunge alla decisione che, pur formalmente corretta, potrebbe risultare compromessa da un inquinamento metodologico a monte.

1.4 Del tutto infondata è la censura del ricorrente circa l’insussistenza di un atto di ufficio riconducibile alla sfera di competenza del pubblico ufficiale corrotto, sull’assunto che la condotta del cancelliere non poteva influire sull’atto giudiziario che avrebbe emanato il giudice, in quanto estranea al procedimento valutativo proprio del magistrato.

Come ha ben ritenuto la Corte d’appello, l’atto d’ufficio oggetto del patto corruttivo può essere inteso sia come atto formale, sia come attività che costituisce estrinsecazione dei poteri-doveri inerenti l’ufficio ricoperto o la funzione in concreto esercitata, potendosi risolvere anche in un comportamento materiale rispetto al quale sia individuabile un rapporto di congruità con la posizione istituzionale del soggetto agente e di causalità con la retribuzione indebita. Non è necessario neppure che il corrotto abbia una competenza specifica ed esclusiva in relazione all’atto da compiere, essendo sufficiente una competenza generica, che gli consenta di interferire o comunque influire sull’emanazione dell’atto che gli derivi dall’appartenenza all’ufficio o dalla funzione di rilievo pubblicistico in concreto esercitata.

Del resto, è stato reiteratamente affermato da questa Corte che ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 319-ter cod. pen., deve considerarsi atto giudiziario non soltanto l’atto del giudice, bensì l’atto funzionale ad un procedimento giudiziario, sicché rientra nello stesso anche la deposizione testimoniale resa nell’ambito di un processo penale (Cass. Sez. U, n. 15208/2010, Rv. 246582, Mills) e l’atto del direttore sanitario presso una casa circondariale, anche se non legato dall’Amministrazione Penitenziaria da un rapporto di pubblico impiego (Cass. n. 10443/2012, Rv. 252000, Mottola).

A maggiore ragione rientra nella fattispecie in esame l’atto del funzionario di cancelleria, collocato nella struttura dell’ufficio giudiziario, che esercita un potere (l’assegnazione del processi tramite manipolazione dei criteri automatici di assegnazione) idoneo ad incidere sul suo concreto funzionamento e sull’esito del procedimento giudiziario, come tutti gli elementi probatori acquisiti comprovano nel presente caso.

1.5 In ordine alla individuazione della parte favorita o danneggiata e alla necessità che il favore o il danno si riflettano sulla posizione giuridica sostanziale di una delle parti processuali almeno come potenziale idoneità a determinare effetti incidenti sulla posizione di una parte nel processo, il caso in esame presenta peculiarità specifiche, messe ben in evidenza dai giudici d’appello.

La parte processuale consapevolmente e volontariamente danneggiata dai corrotti e corruttori è stata il Ministero delle Finanze, su cui incombeva l’onere di pagare i rilevanti importi per ogni procedura, dovuti agli onorari liquidati per ciascun intervento, nella misura di 800.00 Euro inizialmente, e successivamente di 400.00 Euro, moltiplicati per centinaia di interventi.

La parte che doveva trarre (e che ha tratto) vantaggio traeva dal patto corruttivo era non colui che appariva formalmente creditore esecutante, bensì il suo legale. Ma correttamente nella sentenza si evidenzia che in ogni singola procedura il legale era la parte ‘sostanziale’ ed il suo figurare quale legale del creditore era una mera fictio iuris ben nota a corrotti e corruttori, atteso che il meccanismo realizzato comportava che essi avevano acquistato i titoli azionati, o ne erano comunque venuti in possesso per varie strade, sicché il rapporto con la parte era un rapporto meramente fittizio, in quanto si erano incaricati parenti ed amici di firmare le procure alla lite, dopo avere tolto di mezzo gli originari possessori, acquistando i loro biglietti, come è emerso dalle dichiarazioni degli stessi imputati e dalla documentazione acquisita presso gli studi legali, tra cui, in particolare, quella acquisita presso l’avv. D.G. (fogli con allegati i biglietti del lotto e una locandina con l’annotazione manoscritta ‘rimborso del prezzo d’acquisto a chi consegnerà i biglietti del lotto giocati nel periodo 1990/1998 su tutte le ruote o sulla ruota di Milano’).

Nelle sentenze di merito risulta ampiamente dimostrato il sistema utilizzato dagli avvocati: si compravano i biglietti del lotto dai vincitori (tutti relativi a somme irrisorie), rimborsando il loro importo nominale e, simulando di aver ricevuto mandato dai vincitori o da altre persone; si azionavano altrettante procedure di merito ed esecutive per ogni biglietto, con la conseguenza che il Ministero, a fronte di un biglietto del lotto non tempestivamente rimborsato, di poche migliaia di lire, si trovava a dover sborsare centinaia di migliaia di Euro, per le spese legali della procedura, mentre i difensori che azionavano i titoli guadagnavano somme esorbitanti limitandosi a compiere quelle minime attività necessarie per attivare le procedure di tipo seriale.

I giudici hanno, perciò, correttamente ritenuto sussistente sia il fine di danneggiare la parte debitrice sia quello di agevolare il singolo avvocato interessato, come reale ‘parte’ in ciascuna procedura, proprio perché, attraverso l’accordo corruttivo in atti giudiziari, il soggetto che si andava ad agevolare non era il formale ed apparente creditore-detentore del titolo, ma sempre il legale, che era di fatto ‘legale di se stesso’, che si vedeva assegnate le somme in base al piano di riparto, mentre nel caso, frequentissimo, di incapienza delle somme messe a disposizione, lo stesso avvocato sarebbe diventato creditore del Ministero in quanto rimasto insoddisfatto nel pagamento degli onorari liquidati dal giudice.

Secondo la motivata ricostruzione dei giudici di merito, si facevano confluire il maggior numero possibile di procedure nell’unitario piano di intervento, in modo da lasciare ogni interventore parzialmente insoddisfatto, per potergli garantire in futuro, non appena ci fosse stata la disponibilità di altri soldi, la possibilità di ricominciare daccapo, tanto – si evidenzia in sentenza – che, quando il giudice onorario N. , preoccupato per la sua appartenenza all’amministrazione finanziaria, dimezzò gli onorari, gli avvocati dovettero attivarsi al fine di far confluire un numero ‘doppio’ di interventi nella procedura, si da garantirsi l’incapienza.

La condotta posta in essere integra dunque il comportamento antidoveroso tipico del delitto di corruzione in atti giudiziari, essendovi rapporto sinallagmatico tra la proposta-dazione corruttiva proveniente dal gruppo di avvocati capeggiati da Si. e D.G. , e la successiva approvazione per le vie brevi dei piani di riparto e conseguente percezione di somme ammontanti a diverse migliaia di Euro da parte dei cancellieri quale corrispettivo dei servigi ricevuti.

D’altra parte la ricezione del danaro da parte del corrotto evidenzia di per sé l’introduzione nel procedimento giudiziario di interessi non istituzionali, ovviamente non conformi, anzi opposti, a quelli che il pubblico ufficiale dovrebbe curare per dovere d’ufficio e in ossequio al dovere di fedeltà, imparzialità e perseguimento esclusivo degli interessi pubblici, essenza stessa della pubblica funzione.

1.6 Per quanto concerne l’ulteriore censura del ricorrente F.G. (secondo cui la configurabilità giuridica del delitto di corruzione in atti giudiziari non potrebbe essere ipotizzata con riferimento alla violazione dei criteri automatici di assegnazione delle procedure, mancando un formale atto giudiziario di assegnazione, e trattandosi di attività amministrativa in sé inidonea a danneggiare o favorire una parte), nella sentenza impugnata risulta la prova del compimento di atti e di attività contrari ai doveri d’ufficio, consistiti nell’alterazione del criterio di assegnazione dei processi ai magistrati ad opera dei cancellieri, i quali artatamente ritardavano l’iscrizione al ruolo dei processi, sì da giungere a rendere disponibile il numero cui era abbinato il giudice onorario prescelto. Il meccanismo automatico di assegnazione degli affari vigente nell’ufficio giudiziario rendeva contraria ai doveri d’ufficio l’assegnazione effettuata ‘aggirando’ i suddetti criteri.

1.7 Del tutto infondata è la reiterata tesi, affacciata dal ricorrente, circa la natura concussoria delle condotte dei pubblici ufficiali ai danni degli avvocati, essendo stata convincentemente esclusa la sussistenza di alcun comportamento ostruzionistico da parte dei cancellieri in precedenti procedure esecutive, mentre, al contrario, la sentenza evidenzia la prova dell’accordo degli avvocati con i cancellieri (che avevano di fatto il potere di pilotare le assegnazioni e di far confluire numerosissimi procedimenti in procedimenti unitari, anche attraverso riunioni illegali, in quanto non precedute da provvedimenti formali) per ottenere in tempi rapidi la liquidazione di onorari esorbitanti o comunque ‘gonfiati’ per le procedure portate avanti in sede di cognizione e di esecuzione per numerosissimi procedimenti assolutamente seriali contro il Ministero delle finanze, procedure che richiedevano un impegno professionale minimo.

1.8 Inammissibili sono le censure relative alla denunciata erronea ricostruzione dei fatti (compreso l’apprezzamento dell’assegno di Euro 775,00 emesso dal F. e incassato dal M. ) alla ritenuta attendibilità di M. e Sa. ed alla credibilità delle loro dichiarazioni, convergenti e reciprocamente riscontrantesi.

Il ricorrente reitera censure già motivatamente rigettate dalla Corte d’appello, richiedendo in sostanza a questa Corte un inammissibile apprezzamento di fatto, giacché nel discorso giustificativo della sentenza non si rinvengono mancanze, contraddittorietà o illogicità manifeste.

1.9. Va infine ribadito, in linea con precedenti decisioni di questa Corte di legittimità, che la corruzione in atti giudiziari, prevista dall’art. 319-ter cod. pen., integra una fattispecie autonoma di reato e non una circostanza aggravante ad effetto speciale dei delitti di corruzione previsti dagli artt.318 e 319 cod. pen.,in quanto, oltre l’autonomo nomen juris e la presenza di circostanze aggravanti previste dal secondo comma, per la configurazione del reato è altresì richiesto il dolo specifico di favorire o danneggiare una parte in un processo. (Cass. n. 45275/2001, Rv. 221304, Acampora; n. 3442/1995, Rv. 202732, Perrone).

1.10 Il ricorso di G..F. va, pertanto, rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

2. Per le ragioni sopra indicate sono infondati i motivi dedotti dagli altri imputati che prospettano le stesse questioni già esaminate.

Vanno tuttavia accolti i ricorsi di M..F. , A.C. , G..S. e M..C. , nei limiti appresso specificati.

3. Per quanto concerne le impugnazioni di S. e C. , va subito sottolineato che gli imputati sono stati condannati dalla Corte d’appello, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado.

In proposito, va ricordato che la sentenza di appello che ribalta il giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, a pena di vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibitità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Cass. Sez. 6, n, 6221/2006, Rv. 233083, Aglieri; Sez. U, n. 45276/2003, Andreotti).

A tale consolidato orientamento di legittimità, occorre aggiungere la considerazione che il principio secondo cui il giudizio di condanna è legittimo “se l’imputato risulta colpevole […] ai di là di ogni ragionevole dubbio’, (art. 533, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 5 della l. 20 febbraio 2006, n. 46), implica che, in mancanza di elementi sopravvenuti, la valutazione peggiorativa compiuta nel processo d’appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado, debba essere sorretta da argomenti dirimenti, tali da rendere evidente Terrore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella d’appello, non più razionalmente sostenibile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione di colpevolezza.

Come è stato efficacemente affermato, non basta più “per la riforma caducatrice di un’assoluzione, una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza” (Cass. sez. 6, n. 40159//2011, rv. 251066, Galante; sez. 6, n. 40513/2011, Coruzzi, n.m.; Sez. 6, n. 4996/2012, rv. 251782, Abbate).

Orbene la Corte napoletana non ha fornito una plausibile spiegazione per superare la valutazione del primo, venendo meno all’obbligo di motivazione rafforzata che grava sul giudice d’appello, tanto più in mancanza di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, nell’ipotesi di riforma di una sentenza assolutoria.

Gli imputati erano stati assolto in quanto la chiamata in correità, operata dal solo Sa. , non risultava confortata da oggettivi riscontri esterni.

I giudici di appello hanno ritenuto di individuare riscontri logici. Per il S. il riscontro è stato individuato in una ritenuta menzogna dell’avv. Si. , in relazione alla quale la sentenza afferma che ‘se tale menzogna non appare da sola probante della presenza dell’avv. S. alla riunione, tuttavia la stessa non appare idonea a scalfire la chiamata in correità del Sa. ‘.

Tale annotazione non appare pertinente ai fini dell’art. 192.3 c.p.p., giacché non ha alcuna importanza se tale eventuale menzogna infirmi o meno la chiamata del Sa. . Ciò che conta è che un elemento negativo (il silenzio reticente o meno del Si. ) non può fungere da riscontro alla chiamata del Sa. .

Identica conclusione va assunta per quanto riguarda la ricorrente M..C. , per la quale la chiamata in correità del Sa. è stata ritenuta riscontrata dalle reticenze del D.G. e dalla ‘non verosimiglianza’ che quest’ultimo abbia sottaciuto alla amica e collega il meccanismo messo a punto dai cancellieri.

Rileva il Collegio la debolezza di tali riscontri logici, fondati non già su elementi positivi, ma sull’apprezzamento di elementi negativi (reticenze e ritenute menzogne), pericolosamente contiguo a mere deduzioni, se non a illazioni, sul verosimile.

4. La sentenza va annullata anche nei confronti di F.M. , a carico del quale è stata utilizzata la chiamata in correità del M. , che acquistava una particolare valenza nella sentenza di primo grado, la quale aveva condannato il F. anche per il concorso nei reati di falso e truffa.

La Corte di appello ha assolto l’imputato da questi ultimi reati, confermando la condanna per il delitto di corruzione ritenendo che la chiamata in correità del M. possa ritenersi riscontrata unicamente dalla circostanza che l’avv. F. abbia attivato o partecipato a varie procedure del genere sopra analizzato.

Rileva il Collegio che la conclusiva affermazione della Corte territoriale secondo cui ‘non era possibile che un grande interventore come F. fosse estraneo all’accordo corruttivo’ costituisca una deduzione non fondata su elementi di fatto, ma piuttosto colorata dallo stretto legame di parentela tra F.M. e G. .

5. La sentenza va annullata anche nei confronti di A.C. anch’egli, come M..F. , assolto dai reati di cui ai capi F) ed F1) (falso e truffa).

La Corte territoriale ha confermato la condanna per il reato di corruzione sulla base della chiamata in correità del M. e delle dichiarazioni di A..M. assunte come riscontro delle accuse del cancelliere. In realtà emerge dalla sentenza che il Ma. riferì di danaro da lui ricevuto dall’avv. D.G. , mentre si trovavano all’interno dell’auto dell’A. . Risulta escluso che quest’ultimo abbia dato alcunché in quella occasione, tuttavia, rileva la sentenza, ‘ascoltava la loro discussione ed era al corrente del fatto che i soldi erano dei cancellieri’.

Rileva il Collegio che tale circostanza, in cui il ruolo dell’A. appare del tutto passivo, e le eventuali reticenze dell’avv. D.G. , non possano rappresentare idonei riscontri logici alla chiamata in correità formulata dal M. .

In conclusione la sentenza impugnata va annullata nei confronti di M..F. , C..A. , S.G. e C.M. con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio.

 

P.Q.M.

 

La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di S.G. , C.M. , F.M. e A.C. e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli. Rigetta il ricorso di F.G. , che condanna al pagamento delle spese processuali.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *