Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza n. 19577 del 23 maggio 2012

Svolgimento del processo

G.S.R. era chiamata rispondere, innanzi al Giudice di pace di Firenze, del reato di ingiuria in danno della collega dr.ssa G.U.M.L.G. che aveva formulato una diagnosi diversa rispetto alla sua ed a proposito di una piccola paziente ricoverata presso il (omissis), rivolgendole alla sua presenza le frasi “lei ha l’abitudine di non rispettare i colleghi,…se ne deve andare, non rispetta nessuno, è una vergogna, andrò a raccontare a tutti quello che lei fa qui con le sue prepotenze, lei non sa lavorare, si permette di andare contro un mio parere” e quindi strappandole la richiesta di analisi formulata dalla dr.ssa G.U. e buttandola in un cestino in segno di ulteriore disprezzo.
Con sentenza del 16 luglio 2008, il Giudice di pace assolveva l’imputata dal reato ascrittole con formula perchè il fatto non costituisce reato.
Pronunciando sul gravame proposto della persona offesa, la Corte di Appello di Firenze, con la sentenza indicata in epigrafe, riformava la sentenza impugnata condannando la G. al risarcimento dei danni morali, quantificati in Euro 500 oltre consequenziali statuizioni.
Avverso la sentenza anzidetta l’imputata ha proposto ricorso per cassazione, e, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.

Motivi della decisione

1 – Il primo motivo del ricorso denuncia inosservanza od erronea applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità di motivazione. Si duole della valutazione delle risultanze di causa e segnatamente del fatto che siano state ritenute credibili le dichiarazioni della persona offesa e dei testi escussi. Non era stato, poi, considerato che l’ U., ormai in pensione, era rimasta in attività solo per la ricerca ed inoltre, a cagione del suo comportamento sul posto di lavoro, era stata pure sospesa da quel servizio.
2. – La vicenda sostanziale in esame, la cui puntualizzazione si rende necessaria per apprezzare le doglianze di parte ricorrente, si colloca nell’ambito di un rapporto conflittuale tra due dottoresse, la G. – odierna ricorrente – assegnata al reparto pediatria dell’Azienda Ospedaliera Universitaria (omissis) e la U.M.L.G., collega anziana, collocata nel settore della didattica e della ricerca. La G., mal sopportando quello che aveva avvertito come indebita interferenza nel suo lavoro, il fatto cioè che la U., richiesta dal direttore dell’azienda solo di una consulenza genetica su una bambina affetta da malformazione ed affidata alle cure della stessa G., avesse visitato la piccola, formulando una diversa diagnosi, con richiesta di particolari esami clinici.

In questo contesto, sono state proferite le espressioni ingiuriose, accompagnate dal gesto di stizza del lancio della richiesta di analisi nel cestino. Così contestualizzato l’episodio, balza evidente che, pacifica l’oggettività offensiva delle espressioni usate, in uno al gesto di disprezzo, la stessa debba ritenersi scriminata dall’esimente del diritto di critica, come esattamente ritenuto dal primo giudice. Ed invero, il fatto si poneva come chiara manifestazione di dissenso per il diverso parere espresso dalla collega più anziana, peraltro in un contesto tale da far ragionevolmente ritenere che fosse stato reso con travalicamento dei compiti istituzionali da parte della stessa persona offesa ed indebita ingerenza nel proprio ambito lavorativo.
3. – Per quanto precede, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, l’impugnata sentenza deve essere annullata con la formula espressa in dispositivo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perchè il fatto non costituisce reato.

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