Reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3 a carico del legale rappresentante che riversa la maggior parte dei ricavi realizzati dalla società italiana sulle società inglesi costitute ad hoc, in modo da abbattere gli elementi attivi della sua attività con conseguente riduzione di imposta
Sentenza 27 luglio 2017, n. 37422
Data udienza 16 marzo 2017
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMORESANO Silvio – Presidente
Dott. GALTERIO Donatella – rel. Consigliere
Dott. RAMACCI Luca – Consigliere
Dott. ROSI Elisabetta – Consigliere
Dott. CERRONI Claudio – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nata a (OMISSIS);
(OMISSIS), nata ad (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 15.1.2016 della Corte d’Appello di Trento;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Donatella Galterio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Filippi Paola che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione dell’annualita’ 2008 e il rigetto del ricorso nel resto;
udito il difensore, avv. (OMISSIS) che concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 15.1.2016 la Corte d’Appello di Trento, in parziale riforma della pronuncia resa dal Tribunale di Rovereto, ha condannato, per quanto qui interessa, (OMISSIS) alla pena di 2 anni, 2 mesi e 2 giorni di reclusione e (OMISSIS) e (OMISSIS) alla pena di 11 mesi e 10 giorni di reclusione per il reato di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articolo 3 perche’, al fine di evadere le imposte sui redditi dovute sugli utili dei soci della (OMISSIS) s.n.c. di cui il (OMISSIS) era anche legale rappresentante, avevano costituito fraudolentemente delle societa’ schermo con sede in Inghilterra che esercitavano l’attivita’ imprenditoriale utilizzando l’organizzazione aziendale della societa’ italiana ed omettendo di registrare nella contabilita’ e nei bilanci della (OMISSIS) tutti i corrispettivi, surrettiziamente attribuiti alle societa’ estere, avevano indicato nelle dichiarazioni dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto negli anni 2008 e 2009 elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo.
Avverso la suddetta sentenza i tre coimputati hanno congiuntamente proposto ricorso per cassazione articolando sei motivi come di seguito riprodotti nei limiti dell’articolo 173 disp. att. c.p.p.. Con il primo motivo lamentano, in relazione al vizio di violazione di legge, che l’istanza di rinvio svolta da uno dei due codifensori, peraltro redattore esclusivo dei motivi di appello, per legittimo impedimento legato a motivi di salute sia stata rigettata dalla Corte d’Appello in forza della sola presenza dell’altro difensore. In sintesi la censura investe l’impugnata sentenza sulla base del contrasto tra l’articolo 96 c.p.p. che riconosce all’imputato, in linea con il dettato costituzionale, il diritto di nominare due difensori e l’articolo 420 ter, comma 5, che, nel sancire l’inapplicabilita’ della disposizione di cui al comma 1 che consente al giudice di disporre rinvio per legittimo impedimento del difensore allorquando la difesa tecnica sia stata assunta da due difensori, viene a limitare irragionevolmente lo stesso diritto di difesa se uno dei due difensori si trovi nell’impossibilita’ assoluta di comparire, all’uopo prospettando questione di incostituzionalita’ della norma suddetta in relazione all’articolo 24 Cost..
2. Con il secondo motivo deducono il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera c) ed e), per violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, articolo 40 e Decreto Legge n. 331 del 1993, articolo 47 e articoli 521 e 522 c.p.p. ed omessa motivazione in ordine alla insussistenza del reato contestato con riferimento all’imposta IVA trattandosi di imposta non dovuta per i trasporti intracomunitari, senza che la sentenza impugnata abbia, pur essendo la frode contestata anche per l’imposta sul valore aggiunto, preso in esame la suddetta censura svolta con i motivi di appello.
3. Con il terzo motivo contestano, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli articoli 438, 198 e 192 c.p.p. e di mancanza ed illogicita’ della motivazione, che trattandosi di giudizio abbreviato con richiesta condizionata dall’audizione in qualita’ di teste di (OMISSIS), amministratore delle societa’ inglesi, la sentenza abbia illegittimamente omesso di prendere in considerazione le dichiarazioni da costui rese in dibattimento, relative all’assolvimento degli oneri assistenziali, previdenziali e fiscali da parte delle societa’ inglesi, volte percio’ a dimostrare l’esistenza effettiva delle suddette societa’, ritenendole inattendibili in quanto contrastanti con quanto gia’ dichiarato dal (OMISSIS) quando era stato sentito a s.i.t. nel corso delle indagini dalla Guardia di Finanza. La conclusione raggiunta dalla Corte sul punto risulta censurabile secondo i ricorrenti sia perche’ la deposizione dal medesimo resa in dibattimento e dunque nella pienezza del contraddittorio, assume valore inequivocabilmente preminente rispetto alle sommarie informazioni rese nel corso delle indagini in assenza di contraddittorio che non possono pertanto fungere, trattandosi di un minus sul piano della valenza probatoria, da parametro in ordine all’attendibilita’ del teste, sia perche’ il giudizio di attendibilita’ non puo’ essere generalizzato ma deve essere circoscritto alle parti delle deposizioni discordanti fra loro secondo il principio della valutazione frazionata della prova dichiarativa, sia perche’ si era omesso di tener conto di una prova che la stessa Corte aveva ritenuto necessaria al fine della decisione. Inoltre la Corte, liquidando come inattendibili le dichiarazioni rese in dibattimento dal teste, non ha in tal modo motivato sulle diverse circostanze dal medesimo riferite che consentivano di ritenere la reale operativita’ delle societa’ inglesi e che non risultavano se non parzialmente dalle s.i.t..
4. Con il quarto motivo censurano la sentenza impugnata per aver escluso che le societa’ inglesi avessero autonomia operativa perche’ non fatturavano direttamente ai clienti, non corrispondevano all’ (OMISSIS) i corrispettivi per il noleggio dei trasporti e non pagavano le tasse dovute, travisando in tal modo integralmente la prova acquisita in via integrativa, ovverosia la deposizione dell’amministratore (OMISSIS), dalla quale era emerso che le suddette societa’ assolvevano regolarmente agli oneri previdenziali, assistenziali e fiscali previsti dalla legislazione britannica, che i mezzi dell’ (OMISSIS) impegnavano solo il 50% dell’attivita’ operativa delle societa’ inglesi e che l’amministratore delle suddette societa’ firmava i contratti di trasporto, stabiliva i prezzi, teneva i rapporti con le banche ed assumeva il personale.
Sostengono in sintesi i ricorrenti che l’autonomia operativa andasse ricostruita con riferimento alla sede di direzione effettiva dell’attivita’ di impresa, coincidente con il luogo di stabile organizzazione, ovverosia quello in cui si svolge l’attivita’ ordinaria, sono localizzati gli uffici ed operano gli amministratori, parametri ai quali le societa’ inglesi rispondevano pienamente.
5. Con il quinto motivo lamentano in relazione al vizio di violazione di legge riferito al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 3 e articoli 192, 442 e 533 c.p.p. e di insufficiente ed illogica motivazione che la sentenza impugnata abbia desunto la mancanza di autonomia delle societa’ inglesi dal mancato pagamento delle tasse senza tener conto della prova dichiarativa secondo cui gli oneri tributari erano stati ritualmente assolti nei confronti del fisco inglese, affermando del tutto contraddittoriamente che sarebbe stato onere degli imputati dimostrare le somme in concreto pagate nel Regno Unito al fine di evitare la doppia tassazione e di verificare il mancato superamento della soglia di punibilita’. Sostengono invece i ricorrenti, in cio’ sostanziandosi la censura svolta, che costituendo la soglia di punibilita’ elemento costituivo del reato contestatogli, era ad integrale carico dell’accusa la dimostrazione della sua sussistenza, dovendo la soglia di punibilita’ essere accertata nella differenza tra quanto dovuto al fisco italiano e quanto versato al fisco inglese.
6. Con il sesto motivo lamentano che la motivazione resa in ordine alla sussistenza del reato ascrittogli, secondo cui le societa’ estere sarebbero state create esclusivamente la fine di ottenere un’agevolazione od un risparmio di imposta, era riconducibile alla diversa ipotesi della dichiarazione infedele e non gia’ al reato previsto e punito dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 3 posto che, nulla essendo stato dedotto sull’idoneita’ del mezzo ad ostacolare l’accertamento dell’evasione, la costituzione delle societa’ estere e l’imputazione di attivita’ ad esse non e’ sufficiente ad integrare la fattispecie incriminata che non puo’ essere, trattandosi di fatture per operazioni reali ed esistenti, in re ipsa.
Con successiva memoria depositata in data 28.2.2017 i ricorrenti hanno ulteriormente illustrato i motivi gia’ articolati in ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo non puo’ ritenersi fondato.
Il diniego da parte della Corte di Appello del rinvio richiesto da uno dei due codifensori dell’imputato per impedimento legato a motivi di salute risulta pienamente conforme alla previsione contenuta nell’articolo 420-ter c.p.p., comma 5 secondo la quale non va disposto alcun rinvio allorquando, essendo l’imputato assistito da due difensori, sia presente in udienza, come avvenuto nel caso di specie, l’altro difensore.
Di cio’ sono ben consapevoli i ricorrenti che articolano il motivo in esame prospettando un’eccezione di incostituzionalita’ dell’articolo 420-ter, comma 5 perche’ in contrasto sia con l’articolo 24 Cost. in quanto viene a limitare il diritto di difesa che la norma generale, costituita dell’articolo 96 c.p.p., struttura con il riconoscimento all’imputato della facolta’ di farsi assistere da due difensori, sia con il principio di ragionevolezza risultando le due norme all’evidenza conflittuali posto che l’una riconosce un collegio di difesa quale corpo unico e l’altra limita invece in concreto la suddetta difesa tecnica consentendo ad un unico difensore di assolvere al mandato difensivo.
Nessun seguito puo’ essere dato alla suddetta questione di costituzionalita’ che risulta irrilevante e manifestamente infondata.
In relazione al primo profilo va rilevato che l’eccezione di nullita’, articolata solo con il presente ricorso senza che alcuna contestazione risulti essere stata svolta nell’udienza innanzi alla Corte di Appello da parte del codifensore che pure era ivi presente, non puo’ ritenersi tempestivamente proposta: trattandosi invero di un’attivita’ difensiva eventualmente viziata, ma non assente stante la presenza dell’altro difensore di fiducia nominato dall’imputato trova applicazione il termine fissato dall’articolo 180 c.p.p. per le nullita’ a regime intermedio che ne preclude il rilievo dopo la deliberazione della sentenza che definisce il grado. Rientrano invero nelle nullita’ a regime intermedio quelle relative all’intervento, assistenza o rappresentanza dell’imputato, essendo nel concetto di intervento ricompresa la difesa personale, cosi’ come gia’ affermato da questa Corte nel suo piu’ ampio consesso proprio in relazione all’ipotesi di mandato difensivo demandato a due difensori nell’ambito di un procedimento camerale, sia pure in riferimento al diverso caso dell’omessa notifica dell’avviso di udienza del giudizio di appello ad uno dei due codifensori (Sez. U, n. 39060 del 16/07/2009 – dep. 08/10/2009, Aprea, Rv. 244188). Conseguentemente ogni eventuale nullita’ e’ stata sanata ai sensi dell’articolo 183 c.p.p. dalla mancata proposizione della relativa eccezione ad opera dell’altro difensore presente in udienza e chiamato al termine della medesima a precisare le conclusioni prima della pronuncia finale, cosi’ come sarebbe stato nelle sue facolta’, atteso che il valore giuridico tutelato dalla norma e’ il venire in essere della concreta possibilita’ di esercitare un diritto o una facolta’ procedimentale e non il fatto che tale diritto si sia o meno concretizzato a seguito di libere scelte rientranti nella strategia difensiva della parte processuale.
Del pari, la questione di costituzionalita’ e’ manifestamente infondata non ravvisandosi nessun contrasto tra l’articolo 420 ter c.p.p., comma 5 e l’articolo 24 Cost. contemperando la disposizione processuale in esame il diritto alla difesa dell’imputato consacrato dall’articolo 24 della Carta fondamentale con il principio, anch’esso di rango costituzionale, della ragionevole durata del processo (articolo 111 Cost.) cosi’ da evitare ogniqualvolta sia assicurata all’imputato la difesa tecnica un allungamento dei tempi del processo. Del resto, come condivisibilmente sottolineato dalle Sezioni unite (cfr. la sentenza n. 39060 del 2009 cit. ed anche Sez. Un., 27 gennaio 2011, dep. 1 giugno 2011, Scibe’, n. 22242, rv. 249651), la nozione tecnica di “parte processuale” individua un soggetto unitario, anche laddove alla suddetta “parte” sia riconducibile una pluralita’ di persone fisiche. Lo stesso discorso vale altresi’ per la “difesa tecnica”, ancorche’ essa sia rappresentata da due distinti legali, in quanto essi non svolgono la propria attivita’, all’interno del processo, separatamente, bensi’ formano un unico “collegio difensivo”, nell’ambito del quale deve esservi un’adeguata trasmissione delle informazioni rilevanti ai fini processuali ed un’elaborazione condivisa delle scelte e delle strategie processuali. Cio’ significa che la presenza di un solo difensore all’udienza camerale consente di ritenere pienamente garantita la difesa dell’imputato secondo la previsione costituzionale che non si addentra nei profili tecnici relativi alla composizione del collegio difensivo, demandata alle norme processuali. Ne’ puo’ ritenersi censurabile, sotto il profilo della ragionevolezza o della possibile lesione del diritto di difesa, la scelta legislativa di consentire la prosecuzione del processo in presenza di un solo difensore, in considerazione della natura unitaria del mandato difensivo, al fine di scongiurare lungaggini volte a travolgere i tempi di ragionevole durata del processo che andrebbero a detrimento anche dello stesso imputato.
2. Anche il terzo motivo, anch’esso afferente a violazione di norme processuali, deve ritenersi infondato. Nessuna preclusione sussiste per il giudice nell’ambito di un procedimento abbreviato condizionato di fondare il proprio convincimento, in un sistema imperniato sulla libera valutazione da parte del giudice di ogni elemento processuale, sulle dichiarazioni testimoniali rese alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari e non su quelle rese dallo stesso teste innanzi al GUP allorquando sussista divergenza del contenuto delle dichiarazioni rese nelle due diverse fasi del processo. Invero il compendio probatorio utilizzabile dal giudice di merito nel procedimento in esame era costituito, relativamente alle prove orali, dalle dichiarazioni rese dall’amministratore delle societa’ inglesi in due momenti – la prima volta innanzi alla Guardia di Finanza incaricata delle indagini le quali sono trasmigrate, in quanto atti acquisiti al fascicolo del pubblico ministero, nel fascicolo del giudice essendo il procedimento ex articolo 438 c.p.p. per sua stessa natura definito allo stato degli atti, e la seconda, a seguito di accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato condizionato all’esame dello stesso amministratore, innanzi al GUP all’udienza camerale svoltasi nel contraddittorio fra le parti – poste indipendentemente dalla fase e dalle modalita’ di acquisizione sullo stesso piano, come se si trattasse di un’unica deposizione.
In applicazione dell’univoco orientamento seguito da questa Corte, secondo il quale “in tema di giudizio abbreviato condizionato, le dichiarazioni rese in udienza da una persona gia’ sentita in fase di indagini non sono di per se stesse dotate di valore probatorio privilegiato e preminente rispetto a quelle fornite alle Autorita’ inquirenti, stante il carattere integrativo e non sostitutivo che l’articolo 438 c.p.p., comma 5, attribuisce all’attivita’ istruttoria nel contraddittorio delle parti” (Sez. 3, n. 11658 del 24/02/2015 – dep. 20/03/2015, P., Rv. 262984; Sez. 2, n. 18365 del 17/01/2014 – dep. 05/05/2014, P.G. in proc. Sirchia, Rv. 259703), i giudici di merito hanno ritenuto che le dichiarazioni rese dall’amministratore prima della deposizione innanzi al GUP fossero in assenza di contraddizioni interne rispetto a quelle successive, maggiormente credibili in forza del principio della valutazione frazionata della prova che ben puo’ trovare applicazione ove riferita al profilo temporale. Con coerente e logica motivazione hanno infatti reputato che le dichiarazioni rese dal (OMISSIS) nel corso delle indagini preliminari secondo le quali la gestione unitaria delle societa’ inglesi veniva effettuata di fatto dalla societa’ di (OMISSIS), che egli eseguiva sempre gli ordini del (OMISSIS) che gli venivano impartiti tramite le figlie, le quali a differenza del padre parlavano correntemente la lingua inglese, che le societa’ di cui egli formalmente era amministratore avevano una licenza di trasporto solo domestico e non internazionale e che i mezzi utilizzati erano sempre della societa’ italiana attraverso contratti di noleggio ed utilizzo di autisti polacchi formalmente assunti da una societa’ polacca di fatto gestita anch’essa dal (OMISSIS), collimassero con il quadro probatorio emerso dalle altre risultanze probatorie, costituite dai documenti rinvenuti presso la sede dell’ (OMISSIS) e posti in sequestro, fra cui tutti i bilanci, i prospetti riepilogativi di costi e ricavi e i rapporti bancari delle societa’ inglesi, e dalle altre dichiarazioni rese alla PG da altri soggetti, quali l’intestatario delle quote delle societa’ inglesi (OMISSIS) che ha affermato di aver acquistato dette quote dal (OMISSIS) senza averle mai pagate, di non conoscere la lingua inglese e di essere stato accompagnato a Londra al momento di firmare le proprie dimissioni in azienda, ovvero da taluni clienti che si erano rivolti all’ (OMISSIS) per avere dei preventivi per trasporti di merci in Inghilterra avendo sempre avuto rapporti con il (OMISSIS), o ancora dai dipendenti della (OMISSIS) secondo i quali l’unico ad avere autonomia decisionale anche solo per singoli viaggi compresi quelli formalmente effettuati dalle societa’ inglesi era il (OMISSIS).
3. Da tali rilievi discende anche l’infondatezza del quarto motivo con cui viene ricondotta sul piano del travisamento della prova e del vizio di violazione di legge il ragionamento seguito dalla Corte al fine di negare l’autonomia operativa delle societa’ inglesi rispetto alla societa’ (OMISSIS). A dispetto del nomen juris della rubrica i ricorrenti mirano attraverso l’assunto vizio di violazione di legge, che in concreto non viene ricondotto ad alcuna norma specifica, ad introdurre una diversa lettura, in senso a loro piu’ favorevole, degli elementi di fatto su cui si fonda la decisione impugnata non consentita in sede di legittimita’. Va infatti al riguardo premesso che il controllo del giudice di legittimita’ sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa Sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006). La giurisprudenza ha reiteratamente affermato che l’illogicita’ della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioe’ di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimita’ al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purche’ siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, RV. 214794). Piu’ di recente e’ stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), il controllo di legittimita’ sulla motivazione non attiene ne’ alla ricostruzione dei fatti ne’ all’apprezzamento del giudice di merito, ma ha un orizzonte ben piu’ circoscritto dovendosi arrestare alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorieta’ della motivazione o di illogicita’ evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542). Quanto al preteso travisamento della prova menzionato nelle premesse del ricorso occorre evidenziare che il vizio suddetto, in forza del quale il giudice di legittimita’, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove) il cui apprezzamento spetta solo al giudice di merito, prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto e’ stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all’interno della decisione, ricorre qualora il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, o invece abbia inopinatamente omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia.
I ricorrenti insistono nell’evidenziare come dalla deposizione resa dal teste (OMISSIS) in dibattimento fosse emersa la prova dell’autonomia operativa delle societa’ inglesi che invece la Corte territoriale ha, con coerente e diffuso percorso motivazionale, escluso ritenendo attendibili le sole dichiarazioni da costui rese in sede di s.i.t. secondo cui nessuna licenza di trasporto internazionale era stata mai conseguita dalle societa’ inglesi, che egli era stato a suo tempo assunto come dipendente dal (OMISSIS) e che i mezzi di trasporto utilizzati appartenevano per il 90-95% dei viaggi ad (OMISSIS) e per il restante 10-15% da corrieri direttamente individuati dal (OMISSIS) ed evidenziando, in uno con la pronuncia di primo grado con la quale inequivocabilmente si salda, che i conti correnti bancari su cui si appoggiavano erano intestati al solo (OMISSIS), che nessun trasferimento di quote delle societa’ era stato di fatto effettuato in favore dello (OMISSIS) che non avendo pagato alcun corrispettivo per tale operazione, ne’ essendosi mai occupato della gestione delle societa’ doveva considerarsi una mera testa di legno, che tutti i costi di gestione, manutenzione, leasing e carburante venivano sostenuti dalla (OMISSIS), mentre i proventi dell’attivita’ venivano attribuiti alle societa’ inglesi, che queste solo formalmente noleggiavano i mezzi di trasporto dalla societa’ di (OMISSIS) senza aver mai versato alcun corrispettivo, che tutta la documentazione contabile, comprese le fatture inviate dalle societa’ inglesi ai vari clienti, e bancaria era stata rinvenuta ad (OMISSIS), che l’indirizzo delle sedi delle societa’ inglesi succedutesi nel tempo corrispondeva ad un terreno in Inghilterra acquisito in locazione dal (OMISSIS). A fronte di tale ponderoso compendio probatorio la Corte trentina ha, con motivazione altrettanto ineccepibile, ritenuto inattendibili – trattandosi di valutazione e non gia’ di travisamento della prova – le dichiarazioni rese in udienza da (OMISSIS) in relazione alle operazioni che il medesimo avrebbe effettuato nel ruolo di amministratore delle societa’, reputando che egli agisse quale mero esecutore degli ordini impartitigli dal (OMISSIS), trattandosi di un semplice dipendente dell’impresa di trasporti italiana, preposto alla sede inglese al solo fine di seguire l’attivita’ spicciola dell’attivita’ di trasporto internazionale, senza alcun reale potere decisionale, al di la’ delle cariche formalmente ricoperte.
Ne’ maggior pregio riveste la deduzione secondo cui la direzione effettiva di una compagine societaria vada riferita al luogo in cui hanno sede i suoi uffici, dove opera l’amministratore e dove si svolge la sua attivita’ imprenditoriale: il fatto che si trattasse di societa’ prive di autonomia operativa non consente di ritenere effettiva la sede inglese che e’ stata ricondotta percio’ dalla Corte trentina ad un uso distorto, ancorche’ non contrastante con alcuna disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un beneficio fiscale in assenza di ragioni concrete ed economicamente apprezzabili che giustificassero l’operazione complessivamente realizzata.
In definitiva nessuna delle doglianze svolte e’ idonea a scalfire il percorso argomentativo seguito dalla Corte di Appello, ne’ ad evidenziare illogicita’ manifeste della sentenza impugnata, con conseguente rigetto del motivo in esame.
4. Anche il quinto motivo, relativo al mancato superamento della soglia di punibilita’ per effetto della doppia tassazione, ovverosia degli importi corrisposti a titolo di tributi al fisco inglese, da scomputarsi sulle imposte inevase in Italia, e’ infondato. E’ ben vero che incombe sull’accusa l’onere di dimostrare la sussistenza della fattispecie criminosa che in relazione al profilo oggettivo in tanto e’ tale in quanto superi il tasso-soglia previsto ex lege; tale onere deve tuttavia ritenersi ampiamente assolto nella fattispecie in esame, incombendo sulla difesa che invochi la minore entita’ delle tasse inevase per effetto delle somme a sua volta versate nel paese in cui le societa’ schermo hanno sede, fornire la dimostrazione degli importi al riguardo versati in relazione all’assunta doppia tassazione. Prova questa che non puo’ certo essere fornita a mezzo di testimonianza, peraltro del tutto generica essendosi il teste (OMISSIS) limitato a dichiarare di aver pagato le tasse senza nulla precisare in punto di quantum, in assenza di dimostrazione documentale che avrebbe dovuto essere fornita con la dichiarazione dei redditi presentata al fisco inglese.
5. Ed e’ dalla mancata dimostrazione non solo del pagamento delle tasse al fisco britannico, ma ancor prima che le societa’ in questione fossero soggetti di imposta che discende l’infondatezza del secondo motivo con il quale i ricorrenti sostengono, lamentando la mancanza di ogni motivazione sul punto, che l’imposta sul valore aggiunto non fosse dovuta in applicazione delle disposizioni in materia di IVA intracomunitaria, trattandosi di trasporti all’interno dell’Unione Europea. Cio’ nondimeno presupponendo l’esenzione di imposta di cui alla L. n. 331 del 1993, articolo 40, comma 7 che la prestazione venga resa in favore di soggetti di imposta intracomunitari, i giudici di merito hanno implicitamente argomentato sull’assenza, a monte, dello stesso presupposto applicativo della non imponibilita’ della prestazione avendo ritenuto con motivazione diffusa, costituente lo scheletro intorno al quale ruota l’intero percorso motivazionale di entrambe le sentenze di primo e secondo grado, la natura di mero schermo delle societa’ inglesi, la cui assenza di autonomia consentiva all’ (OMISSIS) di imputare loro i ricavi realizzati dalla stessa societa’ italiana: trattavasi infatti secondo la coerente ricostruzione ivi effettuata di soggetti che, ancorche’ esistenti, non erano operativi in quanto gestiti direttamente dalla societa’ di (OMISSIS), addirittura figurando la (OMISSIS), come evidenziato dalla sentenza del Tribunale destinata, stante la conforme pronuncia di colpevolezza, ad integrarsi con quella impugnata, come sede secondaria della casa madre italiana e percio’ teoricamente obbligata a pagare le tasse in Italia, dove pero’ era del tutto sconosciuta al fisco.
Conseguentemente l’applicabilita’ dell’esenzione IVA, peraltro dedotta con censure del tutto generiche ed oltretutto lamentando la violazione di norme che non si attagliano all’esenzione invocata, e’ da ritenersi manifestamente infondata.
6. Sostengono i ricorrenti con il sesto motivo che l’ipotesi di reato per cui e’ intervenuta la condanna non configura la fattispecie incriminata dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 3, non vertendosi in ipotesi di fatture inesistenti ma di fatture per operazioni reali e percio’ non funzionali ad ostacolare l’accertamento delle imposte evase, costituente elemento costitutivo del reato contestato.
Il motivo e’ manifestamente infondato.
Non vi e’ dubbio che la nozione di mezzo fraudolento, come gia’ sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte, non possa certo identificarsi in mere condotte di mendaci indicazioni di componenti attivi, gia’ considerate dalla norma all’interno della “falsa rappresentazione” ne’ per converso nella condotta di sottofatturazione dei ricavi, ricorrente allorquando venga emessa una fattura avente un corrispettivo inferiore a quello reale: la semplice violazione degli obblighi di fatturazione e registrazione, pur se finalizzata ad evadere le imposte, non e’ sufficiente, di per se’, ad integrare il delitto in esame, dovendosi invece verificare, nel caso concreto, se essa, per le modalita’ di realizzazione, presenti un grado di insidiosita’ tale da ostacolare l’attivita’ di accertamento dell’amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 13641 del 12/2/2002, Pedron, in motivazione). E’ allora necessaria, per la realizzazione del “mezzo fraudolento”, la sussistenza di un quid pluris che, affiancandosi alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili e nella dichiarazione, consenta di attribuire all’elemento oggettivo una valenza di insidiosita’, derivante dall’impiego di artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile ed a costituire ostacolo al suo accertamento (Sez. 3, n. 2292 del 22/11/2012 – dep. 16/01/2013, Stecca, Rv. 254136).
Orbene, come diffusamente argomentato dalla sentenza impugnata l’operazione fraudolenta posta in essere dagli imputati e’ consistita nel riversare la maggior parte dei ricavi realizzati dalla societa’ italiana sulle societa’ inglesi all’uopo costituite, cosi’ da abbattere gli elementi attivi della propria attivita’, con corrispondente riduzione di imposta. Siffatta operazione, volta sostanzialmente a limitare se non ad escludere del tutto i ricavi, si traduce inequivocabilmente in un falso impianto contabile realizzato attraverso la creazione di un’apparenza negoziale, ovverosia le societa’ schermo alle quali la societa’ amministrata dal (OMISSIS) fatturava senza mai richiedere loro il pagamento, in cio’ sostanziandosi l’attivita’ commissiva che caratterizza la fattispecie criminosa contestata, costituente il “quid pluris” rispetto alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili obbligatorie, necessario a distinguerla dal reato previsto dal Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 2. E’ proprio la simulazione, nella specie realizzata attraverso l’interposizione fittizia delle societa’ inglesi, appositamente costituite, nella fatturazione alla clientela delle prestazioni aventi ad oggetto le attivita’ di trasporto espletate invece dalla (OMISSIS), la quale sottraeva in tal modo i ricavi, a costituire in campo penal-tributario, a differenza della simulazione intesa in senso civilistico che prescinde da finalita’ fraudolente, l’artificio idoneo ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria ostacolando l’accertamento della falsita’ contabile. Anche il motivo in esame non puo’ pertanto essere ritenuto meritevole di accoglimento.
7. Il ricorso deve, in conclusione, essere rigettato. Tuttavia la sua non manifesta infondatezza impone di rilevare l’intervenuta prescrizione dei reati contestati con riferimento all’annualita’ 2008 stante il decorso del termine di legge, spirato alla data del 29.3.2016. Non potendo questa Corte procedere direttamente alla rideterminazione della pena essendo il reato piu’ grave quello prescritto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di Appello di Trento, Sezione di Bolzano ai fini della rideterminazione del trattamento sanzionatorio per le violazioni commesse nell’anno 2009.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle violazioni commesse nell’anno 2008 perche’ il reato e’ estinto per prescrizione. Rigetta nel resto il ricorso e rinvia alla Corte di Appello di Trento, Sezione di Bolzano per la rideterminazione della pena in relazione alle violazioni residue commesse nell’anno 2009.
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