Dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione

 

Sentenza 206/2017 (ECLI:IT:COST:2017:206)
Giudizio 
Presidente: GROSSI – Redattore LATTANZI
Camera di Consiglio del 05/07/2017    Decisione  del 05/07/2017
Deposito del 17/07/2017   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 516 del codice di procedura penale.
Massime:
Atti decisi: ord. 119/2016

SENTENZA N. 206

ANNO 2017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Torino, nel procedimento penale a carico di G. D. e M.C. P., con ordinanza del 24 febbraio 2016, iscritta al n. 119 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 5 luglio 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 24 febbraio 2016 (r.o. n. 119 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto di nuova contestazione».

Il Tribunale rimettente, premesso di essere investito del procedimento penale per il reato «di bancarotta fraudolenta per distrazione», contestato a due imputati, in concorso tra loro, e per il reato di «bancarotta fraudolenta documentale», contestato ad uno solo di essi, in relazione al fallimento di una società a responsabilità limitata, riferisce che nel corso dell’istruzione dibattimentale il pubblico ministero aveva modificato le imputazioni, ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., descrivendo diversamente i fatti loro ascritti. Secondo il collegio rimettente non sarebbe «controverso, né controvertibile», che si tratti di «fatti che presentano connotati materiali difformi da quelli dell’originaria accusa», sì da richiedere la procedura di modifica dei capi di imputazione «a tutela del diritto di difesa».

Aggiunge il Tribunale, che, dopo la sospensione del processo e la notificazione del verbale agli imputati assenti, le parti avevano presentato richieste congiunte di applicazione della pena per le fattispecie risultanti dalla nuova contestazione.

Le richieste sarebbero inammissibili perché presentate dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 446, comma 1, cod. proc. pen.

Ad avviso del Tribunale rimettente quella intervenuta sarebbe una «nuova contestazione fisiologica», perché fondata su fatti emersi per la prima volta nel corso dell’istruzione dibattimentale, rispetto alla quale perciò, diversamente da quanto avviene per le nuove contestazioni “patologiche” (cioè per le contestazioni di fatti che già risultavano dagli atti di indagine), non sarebbe consentita una rimessione in termini per una richiesta di patteggiamento.

Ciò premesso il giudice rimettente ripercorre l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, richiamando le pronunce che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso, al reato concorrente (sentenza n. 265 del 1994) o a una circostanza aggravante (sentenza n. 184 del 2014), o di richiedere il giudizio abbreviato, sempre con riferimento al fatto diverso, al reato concorrente (sentenza n. 333 del 2009) o a una circostanza aggravante (sentenza n. 139 del 2015), quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

Il Tribunale evoca, quindi, la sentenza n. 237 del 2012, con cui, modificando un precedente orientamento, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale.

Aggiunge il Tribunale che la Corte successivamente, con la sentenza 273 del 2014, ha adottato un’analoga pronuncia additiva relativa all’art. 516 cod. proc. pen., nel caso di contestazione “fisiologica” del fatto diverso, non ritenendo sufficiente a differenziare il trattamento normativo «il rilievo che in questo caso (e a differenza dell’ipotesi della contestazione di reato concorrente) esisteva sin dall’inizio l’imputazione che avrebbe consentito la tempestiva richiesta del giudizio speciale».

In applicazione del principio che «quando muta in itinere il tema d’accusa, l’imputato deve poter rivedere le proprie opzioni riguardo al rito da seguire», la questione di legittimità costituzionale proposta dovrebbe considerarsi non manifestamente infondata, perché sarebbe violato l’art. 24, secondo comma, Cost.

Precludere il patteggiamento per il fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale si tradurrebbe in una compressione dei diritti di difesa dell’imputato. A questo infatti non potrebbe essere addebitata alcuna colpevole inerzia, né potrebbero essere attribuite le conseguenze negative di un prevedibile sviluppo dibattimentale il cui rischio sia stato liberamente assunto, considerato che «condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa nei suoi confronti», e che la facoltà di chiedere il patteggiamento costituisce uno degli aspetti più rilevanti di tale diritto.

Si determinerebbe anche una disparità di trattamento tra l’imputato, al quale «sin dal primigenio esercizio dell’azione penale» sia correttamente contestato l’addebito con piena possibilità di optare per il rito alternativo, e l’imputato che, a causa dell’incompletezza delle indagini o per altra «casuale ragione», si veda contestata un’imputazione «incompleta e/o errata», poi modificata in seguito all’acquisizione dei relativi elementi di prova «in corso di dibattimento», senza poter più fruire dei benefici del rito premiale.

Anche in relazione alla modificazione “fisiologica” dell’imputazione l’imputato che subisce una nuova contestazione verrebbe a trovarsi in una posizione diversa e deteriore, quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena, rispetto a chi della stessa imputazione fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio. Sarebbe inoltre irragionevole una disciplina processuale, che, nel caso di contestazione “fisiologica” del fatto diverso, ex art. 516 cod. proc. pen., consentisse «all’imputato di recuperare i vantaggi connessi ad alcuni riti speciali (il giudizio abbreviato e l’oblazione, sulla base della normativa quale risultante dalle citate sentenze “additive” Corte cost. nn. 273/2014 e 530/1995, normativa da utilizzarsi quale tertium comparationis), impedendo invece l’accesso al rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, con ulteriore, sospetta, violazione dell’art. 3 Cost.».

Il Tribunale rimettente aggiunge che, come si desume dalle pronunce già intervenute, non sarebbe possibile procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina vigente.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata.

L’Avvocatura generale rileva che nella ricostruzione del fatto il Tribunale di Torino si è limitato ad affermare che il pubblico ministero aveva modificato le imputazioni, senza indicare, né i nuovi fatti emersi, né le imputazioni iniziali, e che così ha omesso di motivare sulla rilevanza della questione nel giudizio a quo. Il Tribunale rimettente quindi non avrebbe fornito elementi utili per ricostruire la vicenda processuale, con conseguente impossibilità di valutare l’incidenza della questione sul merito del giudizio a quo. Tale carente descrizione assumerebbe rilevanza proprio in considerazione dell’accezione restrittiva di “fatto diverso”, a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., accolta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, in armonia con la giurisprudenza di legittimità. In particolare l’ordinanza di rinvio impedirebbe di verificare se la mutazione del fatto sia dipesa anche dalla linea difensiva adottata dagli imputati, circostanza che escluderebbe la violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza. Inoltre in tale eventualità risulterebbe del tutto prevedibile lo sviluppo processuale che ha portato alla modificazione dell’imputazione e sarebbe pienamente giustificata la disciplina processuale attualmente in vigore.

3.– Con memoria depositata in prossimità dell’udienza il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito le argomentazioni già svolte per sostenere l’inammissibilità della questione.

 

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 24 febbraio 2016, il Tribunale ordinario di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 c.p.p., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto di nuova contestazione».

Secondo il collegio rimettente, anche nel caso di modificazione “fisiologica” dell’imputazione, impedire la richiesta di patteggiamento sarebbe in contrasto con l’art. 24, secondo comma, Cost., perché determinerebbe una compressione dei diritti di difesa dell’imputato, al quale non potrebbe «essere addebitata alcuna colpevole inerzia», né potrebbero «esser[e] attribuite le conseguenze negative di un “prevedibile” sviluppo dibattimentale il cui rischio sia stato liberamente assunto».

La disposizione censurata, inoltre, violerebbe l’art. 3 Cost., sotto due profili. In primo luogo, perché, anche in relazione alla modificazione “fisiologica” della imputazione, l’imputato che subisce una nuova contestazione verrebbe a trovarsi in una posizione diversa e deteriore, quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena, rispetto a chi della stessa imputazione fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio. In secondo luogo, perché sarebbe irragionevole una disciplina processuale, che, nel caso di contestazione “fisiologica” del fatto diverso, ex art. 516 cod. proc. pen., consentisse «all’imputato di recuperare i vantaggi connessi ad alcuni riti speciali (il giudizio abbreviato e l’oblazione, sulla base della normativa quale risultante dalle citate sentenze “additive” Corte cost. nn. 273/2014 e 530/1995, normativa da utilizzarsi quale tertium comparationis), impedendo invece l’accesso al rito dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, con ulteriore, sospetta, violazione dell’art. 3 Cost.».

2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per difetto di motivazione sulla rilevanza.

La difesa dello Stato osserva che il Tribunale di Torino si è limitato ad affermare che il pubblico ministero aveva modificato le imputazioni nei confronti degli imputati senza indicare, né i nuovi fatti emersi, né le imputazioni iniziali, e sostiene che così ha omesso di motivare in merito alla rilevanza della questione nel giudizio a quo. Il Tribunale rimettente non avrebbe fornito elementi utili per ricostruire la vicenda processuale, con la conseguente impossibilità di valutare l’incidenza della questione sul merito del giudizio a quo. Tale carente descrizione assumerebbe rilevanza proprio in considerazione dell’accezione restrittiva di “fatto diverso”, a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., accolta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, in armonia con la giurisprudenza di legittimità. In particolare, l’ordinanza di rinvio impedirebbe di verificare se la mutazione del fatto sia dipesa anche dalla linea difensiva adottata dagli imputati, circostanza che escluderebbe la violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza. Inoltre in tale eventualità risulterebbe del tutto prevedibile lo sviluppo processuale che ha portato alla modificazione dell’imputazione e sarebbe pienamente giustificata la disciplina processuale attualmente in vigore.

L’eccezione d’inammissibilità è priva di fondamento.

Il Tribunale di Torino, dopo avere indicato specificamente i fatti oggetto dell’imputazione, così come modificata dal pubblico ministero, ha rilevato che non era «controverso né controvertibile» che si trattasse di «fatti che presentano connotati materiali difformi da quelli dell’originaria accusa», sì da richiedere la procedura, attivata dal pubblico ministero, di modificazione dei capi di imputazione «a tutela del diritto di difesa». In tal modo il Tribunale, per quanto è necessario ai fini dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, ha descritto sufficientemente la vicenda processuale, posto che la sua qualificazione in termini di modificazione dell’imputazione non può essere censurata, perché è logicamente rimessa alle determinazioni del giudice a quo.

3.– La questione è fondata.

3.1.– Il dubbio di legittimità costituzionale concerne la cosiddetta contestazione fisiologica del fatto diverso ex art. 516 cod. proc. pen.

La disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali – tanto del fatto diverso (art. 516 cod. proc. pen.), quanto del reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. o delle circostanze aggravanti (art. 517 cod. proc. pen.) – si presenta coerente, in linea di principio, con l’impostazione accusatoria del codice di rito. In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento la disciplina delle nuove contestazioni mira infatti a conferire un ragionevole grado di flessibilità all’imputazione, consentendone l’adattamento agli esiti dell’istruzione dibattimentale, quando alcuni elementi di fatto risultino diversi o nuovi rispetto a quelli emersi nel corso delle indagini e valutati dal pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale.

Secondo la formulazione degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. la diversità del fatto, il reato concorrente e le circostanze aggravanti devono emergere «nel corso dell’istruzione dibattimentale», in connessione con la ricordata finalità dell’istituto. Risultano così evocati i soli mutamenti dell’imputazione imposti dall’evoluzione istruttoria, sì che l’istituto si caratterizza come speciale e derogatorio rispetto alle ordinarie cadenze processuali relative all’esercizio dell’azione penale e al suo controllo giudiziale (sentenza n. 184 del 2014).

In seguito alla lettura estensiva fornita dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. possono essere basate anche sui soli elementi già acquisiti nel corso delle indagini preliminari, questa Corte ha rilevato come l’istituto delle nuove contestazioni si connota «“non più soltanto come uno strumento – come detto, speciale e derogatorio – di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica”: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione (sentenza n. 333 del 2009)”» (sentenza n. 184 del 2014).

A fronte di tale interpretazione occorre però tenere conto delle contrapposte esigenze di salvaguardia del diritto di difesa.

Questa Corte è inizialmente intervenuta per salvaguardare il diritto dell’imputato alla prova, in caso di nuova contestazione dibattimentale, escludendo che esso potesse incontrare «limiti diversi e più penetranti di quelli vigenti in via generale per i “nova”» (sentenza n. 241 del 1992).

Nella prospettiva del codice di procedura penale «rimanevano, però, preclusi i riti alternativi a contenuto premiale (giudizio abbreviato e patteggiamento), riti che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, costituiscono anch’essi «“modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)” (sentenza n. 237 del 2012), tali da incidere in senso limitativo, sull’entità della pena inflitta» (sentenza n. 184 del 2014).

Perciò, in seguito alle nuove contestazioni effettuate dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, l’imputato poteva trovarsi a fronteggiare un’accusa rispetto alla quale sarebbe stato suo interesse chiedere i riti alternativi ma tale facoltà gli era preclusa, perché erano ormai decorsi i termini per le relative richieste.

3.2.– Rispetto alle nuove contestazioni “fisiologiche”, a quelle cioè effettivamente determinate dalle acquisizioni dibattimentali, la Corte, con una serie di pronunce emesse negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice, aveva escluso che la preclusione dei riti speciali violasse gli artt. 3 e 24 Cost. A questa conclusione la Corte era pervenuta richiamando il principio di indissolubilità del binomio premialità-deflazione. In particolare, per quanto concerne il patteggiamento, aveva ritenuto che l’interesse dell’imputato a beneficiare dei relativi vantaggi in tanto poteva rilevare, in quanto egli avesse rinunciato al dibattimento.

La Corte aveva osservato che «la preclusione all’ammissione di tali giudizi in caso di contestazione dibattimentale suppletiva non è affatto irragionevole. Si tratta, infatti, di un’evenienza che non è infrequente in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento ed è – soprattutto – ben prevedibile». Di conseguenza «il relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiederli o meno, onde egli non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta (cfr., tra le tante, le sentenze nn. 277 e 593 del 1990 e 316 del 1992, nonché l’ordinanza n. 213 del 1992)» (sentenza n. 129 del 1993).

Analoghe considerazioni erano state svolte rispetto alla preclusione relativa al giudizio abbreviato (sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992 e n. 593 del 1990; ordinanza n. 107 del 1993).

4.– Con la successiva sentenza n. 265 del 1994, la Corte, però, nel caso di contestazioni dibattimentali “tardive”, è pervenuta, proprio rispetto al patteggiamento, a una diversa conclusione, perché ha ritenuto che in questa ipotesi non possa parlarsi di una libera assunzione da parte dell’imputato del rischio di una nuova contestazione nel dibattimento, dato che le sue determinazioni in ordine ai riti speciali erano state sviate da una condotta processuale anomala del pubblico ministero. Come è stato osservato, le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo dipendono, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero, cosicché, «quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo di reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali» (sentenze n. 265 del 1994 e n. 184 del 2014). Si è aggiunto che anche il principio di eguaglianza risulta violato perché l’imputato è irragionevolmente discriminato rispetto alla possibilità di accesso ai riti alternativi, «in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero e delle correlative contestazioni» (sentenza n. 184 del 2014).

Sulla base di tali considerazioni, la Corte, con la sentenza n. 265 del 1994, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentivano all’imputato di richiedere il patteggiamento, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerneva un fatto che già risultava dagli atti di indagine, al momento dell’esercizio dell’azione penale.

La sentenza n. 265 del 1994 ha dichiarato invece inammissibile l’analoga questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato, reputando che, rispetto a tale rito, la scelta tra le varie alternative ipotizzabili per porre rimedio al vulnus costituzionale, pure riscontrabile, spettasse in via esclusiva al legislatore.

Il successivo radicale cambiamento della struttura del giudizio abbreviato, per effetto della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), ha indotto questa Corte, con la sentenza n. 333 del 2009, a ritenere superati i precedenti ostacoli e a dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. anche nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso o per il reato concorrente contestato nel dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

Questa pronuncia additiva era risultata necessaria, oltre che per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. già rilevati dalla sentenza n. 265 del 1994, anche per eliminare la differenza di regime, sulla facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva tardiva, a seconda che si trattasse di patteggiamento o di giudizio abbreviato, differenza che, nel mutato panorama normativo, «si rivela[va] essa stessa fonte d’una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost.» (sentenze n. 184 del 2014 e n. 237 del 2012).

Successivamente la Corte è ulteriormente intervenuta dichiarando l’illegittimità dell’art. 517 cod. proc. pen., prima, nella parte in cui non consentiva il patteggiamento (sentenza n. 184 del 2014) e, poi, nella parte in cui non consentiva il giudizio abbreviato (sentenza n. 139 del 2015), nel caso in cui il pubblico ministero aveva proceduto alla contestazione suppletiva “patologica” di una circostanza aggravante.

In queste pronunce è stato affermato che anche la trasformazione dell’originaria imputazione in un’ipotesi circostanziata (o pluricircostanziata) determina un mutamento del quadro processuale rilevante, sì che l’esclusione della possibilità di chiedere un rito alternativo è tale da determinare la violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.

Come si è visto, con le decisioni ricordate, che si sono succedute in un arco temporale abbastanza ampio, la Corte ha accomunato le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. in «analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette “tardive” o “patologiche”, relative, cioè, a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale» (sentenza n. 273 del 2014).

5.– Con riferimento specifico alle ipotesi, come quella in esame, di nuove contestazioni “fisiologiche”, volte, cioè, ad adeguare l’imputazione alle risultanze dell’istruzione dibattimentale, la Corte è intervenuta con due recenti sentenze. Con la prima (sentenza n. 237 del 2012) – superando il diverso indirizzo espresso in precedenti pronunce, già ricordate, risalenti agli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del nuovo codice di rito – ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione.

Con la seconda (sentenza n. 273 del 2014), sulla base di argomenti analoghi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, oggetto della nuova contestazione.

L’odierna questione è simile a quella affrontata con quest’ultima sentenza, e molti dei passaggi argomentativi che sorreggono questa decisione possono estendersi alla vicenda in esame, che si differenzia solo perché allora, dopo la modificazione dell’imputazione, era stato chiesto il giudizio abbreviato mentre oggi è stato chiesto il patteggiamento.

In seguito alla contestazione, ancorché “fisiologica”, del fatto diverso «l’imputato che subisce la nuova contestazione “viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio”. Infatti, “condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti” […] (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenza n. 273 del 2014), e ciò vale non solo per il giudizio abbreviato, ma anche per il “patteggiamento”. In questo procedimento infatti la valutazione dell’imputato è indissolubilmente legata, «ancor più che nel giudizio abbreviato, alla natura dell’addebito, trattandosi non solo di avviare una procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della decisione, il che non può avvenire se non in riferimento a una ben individuata fattispecie penale» (sentenza n. 265 del 1994).

Perciò, anche rispetto al patteggiamento, quando l’accusa è modificata nei suoi aspetti essenziali, «“non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni” (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenza n. 273 del 2014).

Al riguardo deve rilevarsi che il dovere del pubblico ministero di modificare l’imputazione per diversità del fatto risulta strettamente collegato al principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 cod. proc. pen.), partecipando, quindi, della medesima ratio di garanzia. Dunque, come ritiene la giurisprudenza di legittimità, non qualsiasi variazione o puntualizzazione, anche meramente marginale, dell’accusa originaria comporta tale obbligo, «ma solo quella che, implicando una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito, incida sul diritto di difesa dell’imputato: in altre parole, la nozione strutturale di “fatto”, contenuta nell’art. 516 cod. proc. pen., va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni delle facoltà difensive. Correlativamente, è di fronte a simili situazioni – e solo ad esse – che emerge anche l’esigenza di riconoscere all’imputato la possibilità di rivalutare le proprie opzioni sul rito» (sentenza n. 273 del 2014).

È da considerare inoltre che la modificazione dell’imputazione, oltre ad alterare in modo significativo la fisionomia fattuale del tema d’accusa, può avere riflessi di rilievo sull’entità della pena irrogabile all’imputato e, di conseguenza, sulla incidenza quantitativa dell’effetto premiale connesso al rito speciale.

Non possono essere decisivi in senso contrario gli argomenti, fatti valere in passato, relativi, da un lato, alla necessaria correlazione, nei procedimenti speciali, tra premialità e deflazione processuale e, dall’altro, all’assunzione, da parte dell’imputato (che non abbia tempestivamente chiesto il patteggiamento), del rischio della modificazione dell’imputazione per effetto di sopravvenienze.

Sotto il primo profilo, infatti, va osservato che l’accesso al rito alternativo dopo l’inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un’economia processuale, anche se attenuata, sia consentendo al giudice di verificare l’esistenza delle condizioni per l’applicazione della pena, senza alcuna ulteriore attività istruttoria, sia escludendo l’appello e, almeno tendenzialmente, anche il ricorso per cassazione. In ogni caso, le ragioni della deflazione processuale debbono recedere di fronte ai princìpi posti dagli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., perché «“l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa» (sentenza n. 237 del 2012). Va inoltre aggiunto che il patteggiamento «è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza, che non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase del procedimento, compreso il dibattimento» (sentenze n. 184 del 2014 e n. 265 del 1994; ordinanza n. 486 del 2002).

Né può ritenersi che in seguito a una modificazione “fisiologica” dell’imputazione possa rimanere preclusa la facoltà di chiedere il patteggiamento perché l’imputato, non avendolo chiesto prima, si sarebbe assunto il rischio di tale evenienza. Infatti «non si può pretendere che l’imputato valuti la convenienza di un rito speciale tenendo conto anche dell’eventualità che, a seguito dei futuri sviluppi dell’istruzione dibattimentale, l’accusa a lui mossa subisca una trasformazione, la cui portata resta ancora del tutto imprecisata al momento della scadenza del termine utile per la formulazione della richiesta» (sentenza n. 273 del 2014).

Inoltre, anche in rapporto alla contestazione dibattimentale “fisiologica” del fatto diverso è ravvisabile la ingiustificata disparità di trattamento – rilevata sia dalla sentenza n. 237 del 2012 che dalla sentenza n. 273 del 2014, con riguardo al giudizio abbreviato – rispetto al caso del recupero, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al patteggiamento per circostanze puramente “occasionali” che determinino la regressione del procedimento.

Ciò si verifica, in particolare, allorché, in seguito alle nuove contestazioni, il reato rientra tra quelli per cui si procede con udienza preliminare, e questa non sia stata tenuta. In tale ipotesi infatti il giudice – ove la relativa eccezione sia sollevata nei prescritti termini di decadenza – deve disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero (artt. 516, comma 1-ter, e 521-bis cod. proc. pen.), con l’effetto di rimettere in termini l’imputato per la richiesta del rito alternativo.

Viene infine in rilievo un ulteriore profilo di disparità di trattamento, messo in luce dallo stesso rimettente, posto che per effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., contenuta nella sentenza n. 273 del 2014, dopo una modificazione “fisiologica” dell’imputazione è riconosciuta all’imputato la facoltà di chiedere il giudizio abbreviato ma non anche quella di chiedere il patteggiamento.

6.– In conclusione, per il contrasto con gli artt. 24, secondo comma, e 3 Cost., l’art. 516 cod. proc. pen. va dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Giorgio LATTANZI, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2017.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *