Nel regime della L. n. 675 del 1996, l’ultimo inciso dell’art. 23 di essa, in situazione in cui il sanitario e la struttura sanitaria, nell’ambito del rapporto curativo, avesse acquisito dati personali sullo stato di salute dell’interessato il cui trattamento risultava indispensabile per la tutela dell’incolumità e della salute dei terzi o della collettività, in presenza di un’originaria autorizzazione dell’interessato ad informare circa la vicenda curativa i suoi familiari e, quindi, al trattamento, si doveva non solo ritenere autorizzato a rivelare i dati ad essi, senza necessità di intervento del Garante, ma obbligato a farlo, con la conseguenza che un comportamento omissivo, dal quale fosse conseguita, in ragione della mancata conoscenza dei dati stessi, una lesione dell’integrità o della salute dei terzi o della collettività, risultava idoneo a cagionare danno ingiusto agli effetti dell’art. 2043 cod. civ..
Quando il pericolo per il terzo o per la collettività fosse stato sì stringente da configurare la posizione del titolare del trattamento, in relazione alla particolarità della figura dell’operatore e della struttura sanitaria, addirittura come rilevante sotto il profilo della figura civilistica e penalistica dello stato di necessità, si sarebbe potuto dubitare che – mancando il consenso dell’interessato – la stessa autorizzazione del Garante non fosse necessaria, per la prevalenza dei presupposti di quella figura
Suprema Corte di Cassazione
sezione III civile
sentenza 16 maggio 2017, n. 11994
Svolgimento del processo
1. L’Azienda Sanitaria Provinciale di (…) ha proposto ricorso per cassazione contro S.M.G. e S.P. , nella qualità di eredi di S.G. , nonché nei confronti della Compagnia di Assicurazioni Unipol s.p.a. avverso la sentenza del 20 maggio 2014, con cui la Corte d’Appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Crotone nel febbraio del 2008, ha condannato essa ricorrente al risarcimento del danno nella misura di Euro 13.053,71 oltre accessori, in accoglimento della domanda proposta nell’ottobre del 2002 dal padre delle ricorrenti, S.G. , cui le stesse erano succedute riassumendo il processo di appello a seguito del suo decesso.
2. La domanda introdotta dal de cuius aveva ad oggetto il risarcimento dei danni che il medesimo asseriva di avere subito a seguito di contagio di HCV, che asseriva di aver contratto dalla moglie L.G. , la quale, prima di decedere il 14 gennaio del 2002, era stata sottoposta negli ultimi anni di vita ad intense cure ed interventi di dialisi presso la struttura ospedaliera dell’ASL n. (omissis) con trasfusioni infette che ne avevano provocato la morte. A fondamento della pretesa risarcitoria il S. lamentava che la struttura ospedaliera, pur risultando da un referto di analisi del 6 marzo 2000 che la Longo era affetta dalla patologia, non gli aveva mai comunicato la circostanza, così impedendogli di adottare le necessarie cautele per sottrarsi al contagio.
3. Al ricorso, che si fonda su due motivi, hanno resistito le S. , mentre non ha svolto attività difensiva la società assicuratrice intimata, che era stata chiamata in causa dall’Azienda Sanitaria e nei cui confronti quest’ultima ha rinunciato alla manleva.
4. La ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. “violazione ovvero falsa applicazione degli artt. 1, 11, 20, 22 e 23 della Legge 31 dicembre 1996 n. 675 (abrogata dal d.lgs. n. 196/2006, ma comunque vigente all’epoca dei fatti) e violazione ovvero falsa applicazione dell’art. 31, dell’art. 9 e dell’art. 30 del Codice di Deontologia Medica approvato nel 1998”.
L’illustrazione del motivo si articola nei termini seguenti:
a) inizia con la dichiarazione di voler impugnare la decisione “nella parte in cui, alle pagine 8/9 ha ritenuto di inquadrare nell’ambito della responsabilità extracontrattuale la responsabilità dei sanitari dell’ASP di (…) per via della (…) mancata informazione al Salzone della patologia contagiosa della consorte, atteso che, per un verso, la L. aveva autorizzato una tale comunicazione, e per altro verso, che ella non era in grado di comprendere la natura della patologia da cui era affetta”;
b) prosegue osservando che nelle pagine 9, 10 e 11 la sentenza impugnata avrebbe individuato la violazione degli artt. 1, 11, 20, 22 e 23 della I. n. 675 del 1996 e degli artt. 31, 9 e 30 del Codice di Deontologia Medica del 1998;
c) assume che: c1) “in virtù del quadro normativo così inquadrato”, la corte catanzarese – di cui si riproduce un passo riportato a pagina 12 della sentenza – ha argomentato che “il complesso delle norme delineate comporta, a parere del collegio, la indicazione di un comportamento doveroso imposto al sanitario, al quale è consentito di accantonare i doveri derivanti dal segreto professionale quando sia in grave pericolo di (rectius: la) salute o la vita di altri, e quelli derivanti dal divieto di comunicazione dei dati ultrasensibili quando vi sia necessità di tutela dell’incolumità fisica e della salute del’interessato e di terzi”; c2) che “conseguentemente” la sentenza – come emergerebbe da un passo motivazione a pagina 14, che si riproduce – ha ritenuto che “l’aver i sanitari dell’ASP di (…) omesso di comunicare al S. la patologia, grave e contagiosa, da cui era affetta la L. , costituisce violazione di un obbligo generico di evitare il danno, come desumibile dal contesto normativo, ed è pertanto fonte di responsabilità in confronto del S. , soggetto colpito dall’evento che la disciplina è intesa ad evitare”;
d) sostiene, di seguito, che “dal ragionamento sviluppato dal Giudice di secondo grado i generali obblighi di riservatezza sul trattamento dei dati personali della paziente, normalmente imposti ai sanitari, nel caso de quo, sarebbero dovuti essere accantonati alla luce dei gravi danni che i terzi avrebbero potuto patire per una presunta e mai provata incapacità di intendere e di volere della sig.ra L. che le avrebbe impedito di poter informare prontamente i propri familiari”.
Le considerazioni che, sulla base di tali premesse asseritamente evocative della sentenza impugnata, vengono sviluppate di seguito, nelle pagine 12-17 del ricorso, si muovono, quindi, sull’assunto che in atti non risultava provata la mancanza di capacità di intendere e di volere della L. e che, nel sistema delle norme della L. n. 675 del 1996 e del Codice Deontologico del 1998 emergerebbe un bilanciamento fra il diritto alla riservatezza del paziente e la tutela della salute dei terzi o della collettività, nel senso che solo in situazione in cui il paziente sia incapace di intendere e di volere e, quindi, di disporre del suo diritto, quest’ultimo arretrerebbe di fronte a quella tutela e gli operatori sanitari potrebbero disporre dei dati riservati di loro conoscenza, mentre, qualora “il paziente sia capace di intendere e di volere e conseguentemente di proteggere, egli per primo, la salute dei suoi congiunti, sussiste(rebbe) ancora l’obbligo di riservatezza in capo agli operatori sanitari che lo hanno in cura, anche laddove questi ultimi abbiano preventivamente ricevuto l’indicazione dei nominativi da poter contattare nell’ipotesi in cui sia concretamente messo in grave pericolo la loro salute”.
Poiché nel caso di specie né in primo né in secondo grado era stato accertato che il disturbo bipolare misto con manifestazioni incongrue dell’umore sofferto dalla L. , avrebbe potuto determinare un suo stato di incapacità di intendere e di volere, tale da impedirle di informare i propri familiari sul proprio stato di salute, l’obbligo di riservatezza dei sanitari non risultava venuto meno. L’esistenza della capacità di intendere e di volere della L. e la circostanza che i sanitari avevano adempiuto correttamene all’obbligo di informazione nei suoi riguardi circa la contrazione dell’HCV cronica, da un lato, dall’altro la circostanza che la dichiarazione, sottoscritta dalla L. il 17 gennaio 2000, di autorizzazione a fornire informazioni sul proprio stato di salute solo ai signori S.M.G. , S.P. e S.G. , sarebbe stata da ritenere limitata all’impossibilità della L. di fornire quella informazione, avrebbero impedito ai sanitari di procedere all’informazione.
Mette conto di rilevare che tutte le riferite argomentazioni vengono svolte nel presupposto, ribadito a pagina 16, e basato sulla frase della Corte territoriale riprodotta sopra sub a), che Essa sarebbe pervenuta ad addebitare la responsabilità ai sanitari, per l’omessa informazione al defunto S.G. , assumendo come presupposto di essa che la defunta moglie, cioè la L. , versasse in una situazione di incapacità di intendere e di volere.
1.1. Il motivo è inammissibile, perché, assumendo erroneamente l’esistenza del detto presupposto motivazionale, non si correla all’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata e, comunque, prospetta una ricostruzione delle norme che regolavano l’operato dei sanitari priva di fondamento.
Del tutto infondatamente, infatti, il motivo attribuisce alla sentenza impugnata di avere assunto come presupposto per l’affermazione della responsabilità dei sanitari uno stato di incapacità di intendere e di volere della L. .
Si rileva, in primo luogo e sarebbe dirimente, che il passo della sentenza impugnata, che viene evocato all’inizio dell’illustrazione del motivo e che si è riportato sub a) è enunciato dalla sentenza in forma di interrogativo in limine della motivazione, dopo il rilievo che nella prospettazione dell’attore si rivendicava come dovuta l’informazione in suo favore e non come obbligo verso la paziente L. (si veda l’intera pagina 8 della sentenza, prima del passo riportato), come, del resto, fa manifesto l’inciso di esordio, non riprodotto dalla ricorrente, che è il seguente: “In altre parole quel che qui rileva è se possa considerarsi….”. È palese che la sede e la modalità di enunciazione del passo di cui si ragiona lo fanno del tutto privo di valenza affermativa, anche solo per condivisione, dell’esistenza della incapacità della L. .
Ma, inoltre, e comunque, ancorché non ve ne sia bisogno, la conferma della sua mancanza di forza motivazionale emerge per il fatto che nell’ampia motivazione che la Corte calabra ha, poi, enunciato, per pervenire all’affermazione dell’obbligo dei sanitari di informare il S. , e che si sviluppa, dopo la frase programmatica riportata alla pagina 8, fino alla pagina 14, non v’è mai alcuna affermazione a sostegno dell’iter logico seguito, che la L. versasse in situazione di incapacità di intendere e di volere, ma viene, al contrario, valorizzata, dopo l’analisi del tessuto normativo evocato dal motivo in esame, l’esistenza dell’autorizzazione all’informazione data dalla L. , che viene indicata come alternativa a quella del Garante.
Ne segue, poi, la conclusione – che chiude il percorso motivazionale, innestandosi sull’affermazione che la patologia della L. era idonea ad arrecare danno grave alla salute ed all’incolumità dei terzi – che “mentre di norma il sanitario che sia in possesso dell’autorizzazione può comunicare i dati di salute del concedente ai soggetti indicati, egli deve farlo quando tale comunicazione sia diretta ad evitare il danno alla salute ed all’incolumità proprio di quei soggetti a cui la informazione può essere data”, e, quindi, l’ulteriore notazione che “in tal senso l’omissione è ingiusta perché contraria all’obbligo generico – di impedire quell’evento, ossia quel danno alla salute che, nel caso, si è puntualmente verificato con il contagio”.
La Corte territoriale ha, dunque, ritenuto non già che i sanitari avessero il dovere di informare il de cuius, perché la L. si trovava in situazione di incapacità di intendere e di volere, bensì perché l’autorizzazione all’informazione da essa data rendeva i sanitari obbligati all’informativa verso il terzo, cioè il de cuius. La Corte ha ritenuto tale autorizzazione come alternativa a quella che avrebbe potuto dare in sua mancanza il Garante, evidentemente a norma dell’ultimo inciso dell’art. 23 della L. n. 675 del 1996, che non a caso è richiamato a pagina 11 della sentenza.
L’illustrazione del motivo si è del tutto disinteressata dell’effettiva motivazione della sentenza e l’assenza di critica della ratio decidendi, derivante dall’assunzione di un presupposto motivazionale inesistente, rende il motivo inidoneo allo scopo e, dunque, nullo e, perciò inammissibile.
1.2. Mette conto, comunque, di rilevare che l’esegesi scelta dalla Corte territoriale con riferimento al regime normativo regolante la vicenda appare pienamente corretta, atteso che, quando l’ultimo inciso dell’art. 23 della L. n. 675 del 1996 disponeva che, se le finalità di tutela dell’incolumità fisica e della salute, supposte dall’inciso precedente a proposito dell’interessato alla tutela dei dati riservati, riguardavano un terzo o la collettività, in mancanza del consenso dell’interessato, il trattamento “potesse” avvenire previa autorizzazione del garante, intendeva certamente riferirsi sia all’ipotesi di impossibilità di prestare il consenso da parte dell’interessato (ad esempio, proprio per incapacità di intendere e volere), sia all’ipotesi di un suo rifiuto di prestarlo, ma nel contempo, nonostante l’uso del verbo “potere”, non poteva essere letto nel senso di limitarsi soltanto a legittimare il sanitario al trattamento informativo a garanzia del terzo o della collettività, senza autorizzazione del Garante, certamente nel caso di prestazione del consenso dell’interessato nell’immediato, ma anche nel caso di prestazione del consenso all’inizio dello svolgimento della prestazione e, quindi, del trattamento (come accaduto nel caso di specie) e, naturalmente, purché il consenso non fosse stato revocato.
In effetti, per l’evidenza derivante dalla natura prioritaria dell’interesse tutelato con il trattamento, sia quando fosse stato del singolo terzo sia quando fosse stato della collettività, in realtà, come ha osservato la Corte territoriale, configurava un vero e proprio dovere di attivarsi. E ciò o con la richiesta di autorizzazione al Garante, quando necessaria o con l’iniziativa diretta, quando non fosse stata necessaria.
Quello che apparentemente la norma costruiva come un potere di trattamento era, in realtà, un dovere di trattamento e, dunque, di attivarsi per informare il terzo o la collettività, esistendo il consenso preventivo o manifestato nell’immediato, e di attivarsi rivolgendo richiesta al Garante, in mancanza di consenso nei sensi indicati. Tale conclusione è imposta dalla natura stessa dell’interesse tutelato: tanto quello del terzo quanto quello della collettività, inerendo alla salute e all’integrità (psico-fisica), sono, all’evidenza, interessi non disponibili, il che esclude che l’uso del verbo “potere” voglia suggerire una scelta in capo al sanitario di tutelarli oppure no.
Il motivo sarebbe, dunque, anche infondato sulla base del seguente principio di diritto: “Nel regime della L. n. 675 del 1996, l’ultimo inciso dell’art. 23 di essa, in situazione in cui il sanitario e la struttura sanitaria, nell’ambito del rapporto curativo, avesse acquisito dati personali sullo stato di salute dell’interessato il cui trattamento risultava indispensabile per la tutela dell’incolumità e della salute dei terzi o della collettività, in presenza di un’originaria autorizzazione dell’interessato ad informare circa la vicenda curativa i suoi familiari e, quindi, al trattamento, si doveva non solo ritenere autorizzato a rivelare i dati ad essi, senza necessità di intervento del Garante, ma obbligato a farlo, con la conseguenza che un comportamento omissivo, dal quale fosse conseguita, in ragione della mancata conoscenza dei dati stessi, una lesione dell’integrità o della salute dei terzi o della collettività, risultava idoneo a cagionare danno ingiusto agli effetti dell’art. 2043 cod. civ.”.
Tanto si osserva non senza doversi rilevare che, quando il pericolo per il terzo o per la collettività fosse stato sì stringente da configurare la posizione del titolare del trattamento, in relazione alla particolarità della figura dell’operatore e della struttura sanitaria, addirittura come rilevante sotto il profilo della figura civilistica e penalistica dello stato di necessità, si sarebbe potuto dubitare che – mancando il consenso dell’interessato – la stessa autorizzazione del Garante non fosse necessaria, per la prevalenza dei presupposti di quella figura. Ma è questa una questione che non è necessario qui approfondire.
2. Con il secondo motivo ci si duole, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., per “omesso esame da parte della Corte di Appello di Catanzaro sul fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussine tra le parti consistente nella tardività dell’eccezione sollevata dal sig. S.G. sull’incapacità della sig.ra L.G. “.
L’illustrazione del motivo muove dal presupposto che nella stessa sentenza impugnata lo svolgimento processuale di primo grado viene riferito dando atto che in sede di memoria ex art. 183 cod. proc. civ., il S. aveva replicato – alla comparsa della struttura sanitaria, che aveva dedotto che la L. era stata informata della contrazione del virus – eccependo che la L. sin dal 1992 era in cura presso il servizio psichiatrico dell’ospedale crotonese per un disturbo bipolare misto con manifestazioni incongrue dell’umore e che nella cartella clinica del 17 gennaio 2000 era contenuta una dichiarazione a firma della paziente in cui la stessa autorizzava i medici a fornire notizie sul proprio stato di salute al marito, S.G. , e ai figli, Maria Giuseppina e S.P. .
Si sostiene che le due “eccezioni” erano state tardive, perché non introdotte all’udienza di trattazione ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ., ma con la memoria.
Quindi, si assume: aa) che la tardività era stata oggetto di discussione fra le parti e che il Tribunale l’aveva rilevata, affermando a pagina 5 che “sul punto si deve evidenziare che l’eccezione è tardiva essendo stata sollevata dalla parte attrice soltanto con memoria ex art. 183 c.p.c. e non anche all’udienza di trattazione così come prescritto dall’art. 183 c.p.c.”; bb) che il S. nel proprio atto di appello non aveva “ribadito le eccezioni tardivamente formulate con la sua memoria (…) né ritenuto di dover impugnare le parti della pronuncia in cui è stata dichiarata detta tardività”; cc) che, ciò nonostante, la Corte territoriale aveva posto a fondamento della sua decisione “il presunto, ad ogni modo non provato e comunque tardivamente dedotto stato di incapacità di intendere e di volere della sig.ra L. (desunto, forse, dalle cure alle quali era sottoposta presso il servizio psichiatrico crotonese nel 1992), e quindi escluso la responsabilità della stessa per non aver informato il marito di aver contratto l’HCV cronica”, nonché “esteso ai sanitari crotonesi la responsabilità del contagio del sig. S. , in virtù dell’autorizzazione della sig.ra L. a comunicare i dati relativi al proprio stato di salute ai propri congiunti, fatto anche questo, però, tardivamente dedotto”.
2.1. Il motivo in primo luogo deduce una doglianza ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. in modo del tutto irrituale, atteso che non si denuncia l’omesso esame di un fatto rilevante ai fini della ricostruzione della quaestio facti, bensì un error in procedendo che avrebbe commesso la sentenza impugnata, dando rilievo a due fatti integratori di contro eccezioni, che sarebbero stati introdotti tardivamente in primo grado, sarebbero state tali ritenute dal primo giudice, e le cui statuizioni nemmeno sarebbero state censurate con l’appello dal S. .
Il motivo, dunque, avrebbe dovuti dedursi ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ., denunciando violazione di norme del procedimento, in ultima analisi individuabili nell’art. 329 cod. proc. civ. quanto al giudizio di appello.
Peraltro, se lo si apprezza come tale, alla stregua di quanto ammette Cass. sez. un. n. 17931 del 2013, il motivo risulta manifestamente inammissibile per violazione dell’art. 366 n. 6 cod. proc. civ..
Non solo, non si identifica se e dove la sentenza di primo grado, di cui si riproduce il breve passo che avrebbe ritenuto la tardività, sia stata prodotta e sarebbe esaminabile in questo giudizio di legittimità, siccome imponeva la suddetta norma, ma, inoltre, tale riproduzione, attesa la sua genericità nemmeno individua l’eccezione cui il primo giudice ebbe a riferirsi: si parla, tra l’altro di “eccezione” e non di “eccezioni”. Si aggiunga che la sentenza impugnata, nel riferire dello svolgimento processuale di primo grado e del contenuto della sentenza di primo grado dice che il Tribunale osservò che l’autorizzazione del 17 gennaio 2000, data dalla L. , non comportava alcun obbligo dei sanitari di informare il marito e, quindi, secondo la sentenza impugnata, il Tribunale avrebbe considerato il relativo documento e non avrebbe reputato tardiva l’allegazione in esso contenuta.
Si rileva, poi, che ancora una volta la ricorrente ragiona della sentenza impugnata attribuendole di avere deciso considerando lo stato di incapacità della L. , ma s’è visto che così non è.
Inoltre, il motivo, come rivela la sua intestazione e come conferma la parte finale del’illustrazione i si riferisce solo all’introduzione della questione relativa al detto stato e non alle emergenze della citata dichiarazione e, quindi, alla su introduzione nel giudizio, sicché quanto a quest’ultima manca di attività assertiva.
Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile.
3. Il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza nel rapporto fra ricorrente e resistente e si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 55 del 2014. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione alla resistente della spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro quattromilaottocento di cui 20 per esborsi oltre spese generali e accessorie. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qulateralel d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.
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