Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza 10 marzo 2017, n. 6262

1. Nel caso di allegazione della simulazione relativa per interposizione fittizia di persona di un contratto necessitante la forma scritta “ad substantiam”, la dimostrazione della volontà delle parti di concludere un contratto diverso da quello apparente incontra non solo le normali limitazioni legali all’ammissibilità della prova testimoniale e per presunzioni, ma anche quella, più rigorosa, derivante dal disposto degli artt. 1414, 2 co., e 2725 cod. civ., di provare la sussistenza dei requisiti di sostanza e forma del contratto diverso da quello apparentemente voluto e l’esistenza, quindi, di una controdichiarazione, dalla quale risulti l’intento comune dei contraenti di dare vita ad un contratto soggettivamente diverso da quello apparente; di conseguenza, e con riferimento alla compravendita immobiliare, la controversia tra il preteso acquirente effettivo e l’apparente compratore non può essere risolta, fatta salva l’ipotesi di smarrimento incolpevole del relativo documento (art. 2724, n. 3, cod. civ.), con la prova per testimoni o per presunzioni di un accordo simulatorio cui abbia aderito il venditore e neppure, in assenza della controdichiarazione, tale prova può essere data con il deferimento o il riferimento del giuramento (art. 2739, 1 co., cod. civ.), né tanto meno mediante l’interrogatorio formale, non potendo supplire la confessione, in cui si risolve la risposta positiva ai quesiti posti, alla mancanza dell’atto scritto.

2. In tema di prova della simulazione di contratti di compravendita di immobili che esigono la forma scritta “ad substantiam”, l’interrogatorio formale, in quanto diretto a provocare la confessione del soggetto cui è deferito, è ammissibile anche tra le parti solo se sia rivolto a dimostrare la simulazione assoluta del contratto, perché in tal caso oggetto del mezzo di prova è l’inesistenza della compravendita immobiliare, ma non la simulazione relativa.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

SENTENZA 10 marzo 2017, n. 6262

Ragioni della decisione

Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 4, cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione degli artt. 70, 1 co., n. 2, e 102 cod. proc. civ..

Deduce che al giudizio di rinvio riassunto con l’atto del 20.9.2008 non ha preso parte il P.M. né il P.M. è stato citato ai fini della sua partecipazione, il che comporta la nullità dell’intero giudizio e la necessità di procedere all’integrazione del contraddittorio.

Il motivo è destituito di fondamento.

Al riguardo è sufficiente il riferimento all’insegnamento di questa Corte secondo cui l’art. 70, 1 co., n. 2, cod. proc. civ., sull’obbligatorietà dell’intervento del pubblico ministero nella causa di separazione personale dei coniugi, trova applicazione fino a quando sia in discussione il vincolo matrimoniale, e non anche, pertanto, nel giudizio d’appello, ove inerente ai soli rapporti patrimoniali (cfr. Cass. 24.2.1997, n. 1664).

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 3, cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione degli artt. 1414 e 1417 c.c.; ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 5, cod. proc. civ. l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Deduce che ha errato la corte di merito allorché ha reputato inammissibile l’interrogatorio formale di K.S. .

Il motivo del pari è privo di fondamento.

Al riguardo è sufficiente il riferimento all’insegnamento di questa Corte (in verità menzionato pur dalla corte trentina) a tenor del quale, nel caso di allegazione della simulazione relativa per interposizione fittizia di persona di un contratto necessitante la forma scritta ‘ad substantiam’, la dimostrazione della volontà delle parti di concludere un contratto diverso da quello apparente incontra non solo le normali limitazioni legali all’ammissibilità della prova testimoniale e per presunzioni, ma anche quella, più rigorosa, derivante dal disposto degli artt. 1414, 2 co., e 2725 cod. civ., di provare la sussistenza dei requisiti di sostanza e forma del contratto diverso da quello apparentemente voluto e l’esistenza, quindi, di una controdichiarazione, dalla quale risulti l’intento comune dei contraenti di dare vita ad un contratto soggettivamente diverso da quello apparente; di conseguenza, e con riferimento alla compravendita immobiliare, la controversia tra il preteso acquirente effettivo e l’apparente compratore non può essere risolta, fatta salva l’ipotesi di smarrimento incolpevole del relativo documento (art. 2724, n. 3, cod. civ.), con la prova per testimoni o per presunzioni di un accordo simulatorio cui abbia aderito il venditore e neppure, in assenza della controdichiarazione, tale prova può essere data con il deferimento o il riferimento del giuramento (art. 2739, 1 co., cod. civ.), né tanto meno mediante l’interrogatorio formale, non potendo supplire la confessione, in cui si risolve la risposta positiva ai quesiti posti, alla mancanza dell’atto scritto (cfr. Cass. 19.2.2008, n. 4071).

Più esattamente, in tema di prova della simulazione di contratti di compravendita di immobili che esigono la forma scritta ‘ad substantiam’, l’interrogatorio formale, in quanto diretto a provocare la confessione del soggetto cui è deferito, è ammissibile anche tra le parti solo se sia rivolto a dimostrare la simulazione assoluta del contratto, perché in tal caso oggetto del mezzo di prova è l’inesistenza della compravendita immobiliare (cfr. Cass. 30.1.1992, n. 1011).

Viceversa nel caso di specie l’originario attore ha prefigurato un’ipotesi di simulazione soggettiva relativa.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 3, cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione degli artt. 769 e ss. cod. civ.; ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 5, cod. proc. civ. l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Deduce che le dichiarazioni contenute negli atti difensivi sottoscritti esclusivamente dal difensore non hanno efficacia di confessione, ma possono al più rivestir valenza indiziaria.

Deduce inoltre che la corte distrettuale ha erroneamente qualificato la fattispecie de qua in guisa di donazione indiretta; che nel caso di specie ‘l’intento liberale non sussisteva al momento della intestazione dei beni, ma solo al momento della donazione diretta del denaro al coniuge’ (così ricorso, pag. 14); che ‘persino le argomentazioni avversarie non lasciavano dubbi in merito ai conferimenti di denaro (…) in favore della moglie, conferimenti che, privi di una causa onerosa, non potevano e non possono che essere configurati come donazioni dirette, nulle per mancanza di forma’ (così ricorso, pag. 15).

Il motivo non merita seguito.

Si rappresenta innanzitutto che ai fini della qualificazione della fattispecie de qua in guisa di donazione indiretta la corte territoriale, siccome premesso, ha fatto leva essenzialmente sulla documentazione prodotta dal medesimo originario attore. In questo quadro la corte trentina ha avallato il riferimento dal primo giudice operato alla ‘memoria attorea 1.3.2000’ ed alla ‘comparsa conclusionale 25.3.2001’, onde corroborare in chiave indiziaria gli affermati esiti probatori. Tanto in pieno ossequio all’insegnamento di questo Giudice del diritto a tenor del quale le ammissioni contenute negli scritti difensivi, sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, non hanno valore confessorio, ma costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento (cfr. Cass. 2.10.2007, n. 20701).

D’altra parte, la qualificazione della fattispecie de qua in termini di donazione indiretta, alla stregua delle circostanze di fatto debitamente riscontrate sul piano probatorio (acquisto immobiliare con denaro di uno dei coniugi, diretto pagamento del venditore, contestuale intestazione del cespite all’altro coniuge), risulta ineccepibile.

Invero questa Corte spiega che in ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, si configura la donazione indiretta dell’immobile e non del denaro impiegato per l’acquisto (cfr. Cass. 4.9.2015, n. 17604). E spiega ancora che la configurazione della fattispecie della donazione indiretta del bene non richiede la necessaria articolazione in attività tipiche da parte del donante (pagamento diretto del prezzo all’alienante, presenza alla stipulazione, sottoscrizione d’un contratto preliminare in nome proprio), necessario e sufficiente al riguardo essendo la prova del collegamento tra elargizione del denaro ed acquisto, e cioè la finalizzazione della dazione del denaro all’acquisto (cfr. Cass. 24.2.2004, n. 3642).

Va debitamente soggiunto che la corte d’appello per nulla ha confuso ‘la domanda di accertamento della simulazione con quella di accertamento della donazione’ (così ricorso, pag. 14).

La corte di merito più semplicemente ha disconosciuto in difetto di adeguato riscontro probatorio la dedotta fattispecie di simulazione soggettiva (‘correttamente, quindi il primo giudice ha respinto la domanda di simulazione, poiché B.P. non ha fornito la prova dell’assunto dedotto in giudizio’: così sentenza d’appello, pagg. 12 – 13) e, conformemente a quanto affermato dal tribunale, ha concluso nel senso che ‘nella fattispecie è configurabile un’ipotesi di donazione indiretta’ (così sentenza d’appello, pag. 16).

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 3, cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione degli artt. 1400 e ss. del codice civile greco; ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 5, cod. proc. civ. l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Deduce che l’ultimo comma dell’art. 1400 del codice civile greco deve essere interpretato nel senso che il riferimento alla donazione che vi figura, è rigorosamente circoscritto alle donazioni dirette; che l’interpretazione estensiva, atta a ricomprendervi pur le donazioni indirette, limiterebbe significativamente il campo di applicazione del 1 co. dello stesso art. 1400; che l’operatività nel sistema greco del regime della separazione dei beni depone a favore dell’interpretazione estensiva della contribuzione cui è riferimento al 1 co.; che pertanto la corte distrettuale avrebbe dovuto dar atto del suo contributo all’incremento del patrimonio della moglie o, quanto meno, ammettere le prove volte a determinare l’esatto ammontare di tale incremento.

Il motivo del pari è immeritevole di seguito.

Più che plausibile è l’interpretazione estensiva dell’ultimo comma dell’art. 1400 del codice civile greco (‘nell’aumento del patrimonio dei coniugi non viene calcolato tutto ciò che sia stato acquisito da donazione, eredità o lascito ereditario oppure dalla disposizione dei frutti derivanti da queste causali’), codice civile greco di cui parte ricorrente ha invocato l’applicazione ‘in quanto all’epoca i coniugi avevano entrambi la cittadinanza greca e, dunque, si applicava la legge nazionale comune’ (così ricorso, pag. 18) ai fini della disciplina dei relativi rapporti patrimoniali.

Difatti la donazione indiretta è comunque connotata da un intento di liberalità, ancorché il risultato dell’arricchimento del donatario e del depauperamento del donante venga conseguito mercé il ricorso ad uno strumento giuridico diverso dalla donazione tipica e diretta.

La corretta esegesi dell’ultimo comma dell’art. 1400 del codice civile greco, siccome comprensivo di ogni specie di donazione, concorre in pari tempo a determinare l’esatto ambito di applicabilità del 1 co. dello stesso articolo (‘qualora il matrimonio venga sciolto od annullato ed il patrimonio di uno dei coniugi sia, dopo la celebrazione del matrimonio, aumentato, l’altro coniuge, nel caso in cui abbia contribuito in qualsiasi modo al suddetto aumento, ha diritto a pretendere la consegna della parte di aumento proveniente dal proprio contributo’): il contributo all’incremento del patrimonio del coniuge di cui l’altro coniuge può pretendere la restituzione, non si identifica evidentemente con quello scaturito da una donazione benché eventualmente indiretta.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 3, cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ.; ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 5, cod. proc. civ. l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Deduce che ‘nulla di nuovo è stato dedotto in appello e, ancor meno, la normativa ellenica (rectius art. 1400 del codice greco) con riguardo alla questione della donazione’ (così ricorso, pag. 19); che l’applicazione della disciplina di cui al codice civile greco era stata invocata sin dal primo grado, sicché la relativa richiesta in appello non costituiva ‘domanda nuova’.

I rilievi sulla cui scorta si è reputata corretta l’esegesi dell’art. 1400 del codice civile greco e quindi destituito di fondamento il quarto motivo, assorbono e rendono vana la disamina del quinto motivo di ricorso.

Con il sesto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 3, cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione dell’art. 1953 c.c.; ai sensi dell’art. 360, 1 co., n. 5, cod. proc. civ. l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Deduce che, contrariamente all’assunto della corte di Trento, la somma ‘di liberazione’, pari a lire 370.000.000, non corrisponde all’ammontare, pari a lire 379.425.316, delle somme per le quali era stato intimato il pagamento alla moglie in veste di fideiussore.

Deduce che ha errato la corte allorché ha ritenuto provata la pendenza di procedimenti di esecuzione sulla scorta dell’avviso ai creditori datato 11.9.2001.

Deduce che la corte ‘ha, senza alcuna giustificazione, escluso la natura familiare del credito garantito dalla convenuta’ (così ricorso, pag. 21).

Il motivo è infondato.

Si premette che il motivo in esame si qualifica esclusivamente in relazione alla previsione del n. 5) del 1 co. dell’art. 360 cod. proc. civ..

Occorre tener conto, da un lato, che col motivo de quo B.P. censura sostanzialmente il giudizio ‘di fatto’ alla cui stregua la corte d’appello ha reputato sussistenti le condizioni legittimanti il rilievo esercitato in via riconvenzionale da K.S. e dunque ha confermato il dictum di prime cure.

Occorre tener conto, dall’altro, che è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360, 1 co., n. 5), cod. proc. civ. che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499).

Su tali premesse si rappresenta che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Si rappresenta in particolare che, ai fini di una corretta decisione, il giudice del merito non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Cass. 10.5.2000, n. 6023).

Nei termini testé enunciati l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte di merito risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico – formale.

Più esattamente la corte di merito ha vagliato nel complesso – non ha quindi obliterato la disamina di punti decisivi – e dipoi ha in maniera inappuntabile selezionato il materiale probatorio cui ha inteso ancorare il suo dictum, altresì palesando in forma nitida e coerente il percorso decisorio seguito (‘da tali circostanze emerge l’insolvenza del B. a soddisfare le proprie obbligazioni’: così sentenza d’appello, pag. 18; ‘l’asserita natura familiare del credito garantito non solo non risulta provata, ma neppure dedotta in primo grado’: così sentenza d’appello, pag. 18).

In ogni caso ed a rigore con il motivo de quo agitur il ricorrente null’altro prospetta se non un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti (‘senonché detto avviso è di 5 mesi successivi la sentenza di primo grado’: così ricorso, pag. 21; ‘che il debito avesse natura familiare è assolutamente incontestato ed incontestabile, essendo stato contratto per l’acquisto della casa adibita ad abitazione della famiglia: così ricorso, pag. 21)’.

Il motivo dunque involge gli aspetti del giudizio – interni al discrezionale ambito di valutazione degli elementi di prova e di apprezzamento dei fatti – afferenti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di siffatto convincimento rilevanti nel segno dell’art. 360, 1 co., n. 5), cod. proc. civ..

Il motivo del ricorso pertanto si risolve in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Il rigetto del ricorso giustifica la condanna del ricorrente, B.P. , al rimborso in favore della controricorrente, K.S. , delle spese del giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.

Bo.Lu. e F.V. non hanno svolto difese. Nonostante il rigetto del ricorso principale pertanto nessuna statuizione nei loro confronti va assunta in ordine alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, B.P. , a rimborsare alla controricorrente, K.S. , le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali, i.v.a. e cassa come per legge

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