In tema di giudicato cautelare al fine di garantire la stabilità dei provvedimenti cautelare, si ritiene che, una volta esperiti tutti i mezzi di impugnazione previsti dal codice di rito avverso le misure cautelari, o trascorsi inutilmente i termini per presentarli, si formi una sorta di giudicato (cd. giudicato cautelare). L’operazione risponde a chiare necessità di economia processuale: si vuole evitare la riproposizione di istanze aventi ad oggetto una stessa misura cautelare, fondate sugli stessi presupposti già vagliati dal giudice dell’impugnazione e respinte. La preclusione derivante da una precedente pronuncia in sede di riesame può essere superata dalla prospettazione di nuovi elementi di valutazione ed inquadramento dei fatti, acquisiti da ulteriori sviluppi delle indagini, pur se riguardanti circostanze precedenti alla decisione preclusiva, in quanto essa involge solo le questioni, esplicitamente o implicitamente, trattate e non anche quelle deducibili (e non dedotte)

Suprema Corte di Cassazione

sezione I penale

sentenza 25 agosto 2016, n. 35470

Rilevato in fatto

1. Con ordinanza del 7 dicembre 2015, depositata il 13 gennaio 2016, il Tribunale di Napoli, investito ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., confermava, per quanto qui rileva, il provvedimento emesso dal G.i.p. dei Tribunale di Napoli con cui veniva applicata la misura della custodia in carcere nei confronti di S. C. e P.M., in ordine al reato di cui al capo B): associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, aggravata dall’art. 7 Legge 203 del 1991, con il ruolo di partecipi, in Napoli e altrove dal 2006 e condotta perdurante. Il tribunale annullava invece l’ordinanza cautelare in relazione al capo concernente la contestazione di appartenenza alla associazione camorrista ex art. 416-bis cod. pen.
2. Richiamata per sommi capi l’ordinanza dei G.i.p., che aveva dato conto dell’esistenza e dell’operatività dell’associazione per delinquere indicata al capo B), composta dalla coalizione V.G.-M.-L., dedita principalmente al narcotraffico, in contrapposizione armata al gruppo A.­A.-N., il riesame evidenziava gli apporti conoscitivi forniti dai collaboratori di giustizia sulle vicende oggetto dell’indagine giudiziaria, rimarcando in particolare quelle rese dai L., soggetti con ruoli di vertice. Evidenziava che dette dichiarazioni, erano state riscontrate da quelle di altri collaboratori, dalle attività di polizia giudiziaria e da intercettazioni.
3. In via preliminare, il riesame negava l’efficacia preclusiva al precedente provvedimento di rigetto di misura cautelare emesso dal G.i.p., che aveva rilevato la mancanza di gravità indiziaria a carico di C. e M. per assenza di dichiarazioni accusatorie convergenti. Rilevava, sul punto, che non era stato dimostrato che il Pm avesse sottoposto all’attenzione del G.i.p. i verbali integrali delle dichiarazioni rese da A. e F. L. e A. D.R., e non soltanto singoli stralci di esse; inoltre, il Pm al momento della richiesta cautelare nemmeno disponeva delle dichiarazioni di A.A.. Detti collaboranti avevano ricostruito dettagliatamente il ruolo svolto da C. e M. all’interno del sodalizio dedito al narcotraffico e convergevano con le precedenti dichiarazioni, già acquisite, di L. A. e G. sull’organico inserimento di costoro nel settore dello spaccio.
Come detto, il riesame escludeva che dai fatti emergessero gravi indizi in ordine alla partecipazione all’associazione camorrista, non avendo nessuno dei collaboratori saputo indicare il ruolo specifico assunto da C. e M. all’interno dei clan L..
3.1. In ordine alla gravità indiziaria, quanto a C., il riesame richiamava le convergenti dichiarazioni rese da A. L., F. L. e A. D.R. circa il controllo che costui, soprannominato S. o Totore Berman”, con la collaborazione di M. N. esercitava sulla Vela Celeste. Dette dichiarazioni erano attendibili e attribuivano efficacia dimostrativa a quelle di A. e G. L. che avevano indicato e individuato C. come il gestore della Vela. Richiamava ancora le dichiarazioni de relato di A.A. e le intercettazioni ambientali eseguite all’interno dell’autovettura di R. M., che ne avevano confermato il ruolo.
3.2. Quanto alla M., veniva richiamato l’identico apparato dichiarativo da cui risultava che la donna custodiva e distribuiva alle famiglie dei detenuti le somme destinate al pagamento degli affiliati al sodalizio, percependo per questa attività lo stipendio di € 500 alla settimana.
4. Avverso quest’ordinanza, C. e M. hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo del comune difensore di fiducia, chiedendone l’annullamento, per la violazione di legge, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione. In particolare, la difesa sostiene che la nuova ordinanza di custodia cautelare sia stata emessa in violazione della preclusione costituita dal giudicato cautelare. Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia erano già contenute nel fascicolo trasmesso al G.i.p. in funzione della prima ordinanza cautelare. L’ordinanza pertanto era illegittima laddove aveva ritenuto che il divieto dei bis in idem si formasse soltanto in relazione alle questioni ed agli elementi di prova esplicitamente dedotti, e non anche in relazione a quelli implicitamente oggetto di valutazione perché contenuti nel fascicolo del giudice.
Le dichiarazioni di A. non avevano aggiunto nulla di nuovo, né il collaboratore aveva riferito alcunché sulla posizione di M.; quelle a carico di C. erano generiche e apprese de relato, senza specificazione della fonte.
La difesa contrasta l’affermazione del riesame sulla mancata conoscenza da parte del giudice dei verbali delle dichiarazioni dei collaboratori e ritiene sufficiente che le dichiarazioni fossero contenute nel fascicolo trasmesso dal Pm; rimarca di aver indicato nei motivi di riesame come tali propalazioni fossero citate nella richiesta del Pm e nel provvedimento dei G.i.p. all’atto dell’emissione della prima ordinanza. Ai fini dell’autosufficienza allega le pagine di atti dei procedimento (pp. 1, 44, 59, 1241).

Considerato in diritto

1. II ricorso è infondato.
1.1. La decisione impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di giudicato cautelare. Secondo tali principi, al fine di garantire la stabilità dei provvedimenti cautelare, si ritiene che, una volta esperiti tutti i mezzi di impugnazione previsti dal codice di rito avverso le misure cautelari, o trascorsi inutilmente i termini per presentarli, si formi una sorta di giudicato (cd. giudicato cautelare). L’operazione risponde a chiare necessità di economia processuale: si vuole evitare la riproposizione di istanze aventi ad oggetto una stessa misura cautelare, fondate sugli stessi presupposti già vagliati dal giudice dell’impugnazione e respinte. La preclusione derivante da una precedente pronuncia in sede di riesame può essere superata dalla prospettazione di nuovi elementi di valutazione ed inquadramento dei fatti, acquisiti da ulteriori sviluppi delle indagini, pur se riguardanti circostanze precedenti alla decisione preclusiva (Sez. 6, n. 4112 del 30.11.2006, imp. Di Silvestro, Rv. 235610), in quanto essa involge solo le questioni, esplicitamente o implicitamente, trattate e non anche quelle deducibili (e non dedotte).
1.2. In questa prospettiva, va ricordato che, come emerge dall’ordinanza impugnata, la prima richiesta cautelare dei Pm si fondava su un più scarno compendio indiziario e non comprendeva le dichiarazioni dei collaboratori A. e F. L. e A. D.R., che dettagliavano la posizione dei ricorrenti; non erano state ancora nemmeno acquisite le dichiarazioni di A..
1.3. Ai sensi dell’art. 291, comma 1, cod. proc. pen., le misure sono disposte su richiesta del pubblico ministero che presenta al giudice gli elementi su cui si fonda. Il Giudice per le indagini preliminari ha in materia di libertà personale una funzione di garanzia, attivabile ad istanza di parte e secondo le attribuzioni previste dalla legge con il solo compito di vagliare la `domanda cautelare”, esaurito il quale restituisce gli atti del processo al pubblico ministero, dominus dell’azione penale e, quindi della fase di provvista degli elementi necessari per l’esercizio del potere-dovere di investigazione. A nulla quindi rileva che nel fascicolo delle indagini fossero contenuti materialmente ì verbali delle dichiarazioni di A. e F. L., se di esse il Pm non tenne nessun conto nella presentazione della prima richiesta, non valutandole in relazione alle specifiche posizioni dei ricorrenti, respinta dal G.i.p. Come correttamente rilevato dal tribunale, ed emerge dagli stralci di atti allegati al ricorso, non è significativo che nel corpo della richiesta del Pm i collaboratori avessero fatto sporadici accenni anche ai ricorrenti, se queste dichiarazioni non sono state valorizzate quali indizi a loro carico. Nessuna preclusione pertanto sussisteva a che le dette dichiarazioni, unitamente a quelle di A. e D.R., fossero positivamente scrutinate ai fini dell’emissione dell’ordinanza in esame.
1.4. Venuto meno questo presupposto, nel caso in esame, i giudici di merito hanno dato conto dei gravi indizi di colpevolezza richiamando le precise e attendibili deposizioni dei collaboratori di giustizia, sul ruolo dei ricorrenti nell’organizzazione dedita allo spaccio dì droga nei termini riportati sub 3.1. e 3.2. del “fatto”, siccome indicativo di una condotta di partecipazione, che richiede la messa a disposizione del soggetto rispetto al gruppo criminale, e un rapporto di collaborazione stabile e continuativo ai fini del perseguimento degli scopi illeciti della consorteria, con la coscienza e volontà di far parte dell’organizzazione, di contribuire al suo mantenimento e di favorire la realizzazione del fine comune di trarre profitto del commercio di droga.
2. II ricorso va dunque respinto con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’articolo 94, co. 1-ter, disp. att. C.P.P.

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