L’accertamento circa la confondibilità tra marchi in conflitto deve compiersi in via globale e sintetica, avendo riguardo all’insieme dei loro elementi salienti grafici, visivi e fonetici, nonché di quelli concettuali o semantici, ove esistenti
Suprema Corte di Cassazione
sezione I civile
sentenza 27 maggio 2016, n. 11031
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 4 marzo 2009, accogliendo l’impugnazione, ha respinto le domande proposte dalla F.lli B. Distillerie s.r.l. avverso la P. F. & C. di G.V. s.a.s., volte all’accertamento della nullità del marchio “(omissis) ” per carenza di novità e della condotta di concorrenza sleale confusoria posta in essere dalla medesima, con ordine di inibitoria, ritiro dal commercio e distruzione delle bottiglie, oltre alla condanna al pagamento di una somma per ogni violazione successiva ed alla pubblicazione della sentenza.
La sentenza ha accolto, invece, la domanda riconvenzionale della P. F. & C. s.a.s., dichiarando la convalida del marchio della medesima.
La corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che: a) i marchi e le etichette utilizzati rispettivamente dalle parti sui loro prodotti (liquori) non sono confondibili, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, il quale ha valorizzato l’aspetto figurativo del segno, mentre le due denominazioni che si
accompagnano ai differenti prodotti “(omissis) ” e “(omissis) ” – impediscono qualsiasi confusione; b) di conseguenza, è fondata la domanda riconvenzionale di convalida del marchio ai sensi dell’art. 48 l.m., dovendosi ritenere integrata la buona fede della registrante, sia in forza della transazione conclusa il 26 giugno 1896 “tra i danti causa delle odierne parti” (B. , da un lato, e D.V.P. , quale dante causa della società F. s.a.s., dall’altro lato), come affermato dal tribunale con statuizione su cui si è formato il giudicato interno, sia per essere invece tardiva ex art. 345 c.p.c. – senza prova della non imputabilità del ritardo – la produzione documentale operata dalla F.lli B. Distillerie s.r.l. nel corso del giudizio di appello, da cui risulterebbe la cessione dei diritti in data 23 ottobre 1945 da parte di D.V.A. ed Al. , eredi di P. , a tale B.C. ; c) nessun cambiamento grafico è stato operato sul marchio “( omissis) ” dalla sua registrazione del 1915 a quella in rinnovazione n. (…), oggetto di causa, mentre il primo marchio non si differenzia significativamente da quello consentito con la transazione del 1896, con la quale il D.V. e suoi successori vennero facultati dalla controparte B. all’uso di tutte le etichette, purché non contenessero i nomi “(omissis) ” e “Fratelli B. “; d) non sussiste concorrenza sleale confusoria ex art. 2598, n. 1, c.c., con specifico riferimento all’elemento decorativo del tondo posto alla sommità dell’etichetta del “(omissis) “, trattandosi di un ornamento geometrico assai comune e frequente, laddove la raffigurazione dell’aquila che stringe tra gli artigli una bottiglia di fernet posta su di un mappamondo, contenuta nel marchio avverso, è idonea da sola a colpire l’attenzione del consumatore; e) la ricorrenza di un’ipotesi di concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, c.c., non formando tale accertamento oggetto del giudizio.
Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione dalla soccombente F.lli B. Distillerie s.r.l. sulla base di tredici motivi, illustrati dalla memoria di cui all’art. 378 c.p.c.. Resiste con controricorso l’intimata, che deposita parimenti memoria.
Motivi della decisione
1. – Il ricorso propone dodici motivi, che possono essere come di seguito riassunti:
1) motivazione contraddittoria per avere la sentenza impugnata dichiarato convalidato il marchio del (omissis) grazie alla buona fede dell’intimata, vizio che inficia l’intera sentenza, avendo la corte territoriale dapprima dichiarato non confondibili i due marchi, e poi ritenuto il secondo convalidato ex art. 48 l.m., ora 28 c.p.i., pronuncia che tuttavia ha come necessario presupposto il diniego dell’originaria validità del marchio medesimo;
2) motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, nonché violazione e falsa applicazione degli art. 12, 17, 47 l.m., ora art. 20, 12, 25 c.p.i., avendo la corte del merito ritenuto i due marchi complessi non confondibili grazie alla denominazione che si accompagna ai prodotti, tuttavia omettendo di considerare la valutazione dei medesimi per il consumatore nel loro insieme e limitandosi ad un mero esame analitico delle singoli componenti;
3) motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, nonché violazione e falsa applicazione degli art. 12, 17, 47 l.m., ora art. 20, 12, 25 c.p.i., avendo la corte del merito omesso di considerare il normale grado di percezione delle persone cui il prodotto fernet è destinato, trattandosi di cd. acquisti di impulso, dato il prezzo contenuto e la normale esposizione del prodotto nei supermercati ed ipermercati, onde l’acquirente non svolge un esame particolarmente scrupoloso di quanto riportato sull’etichetta, in particolare leggendo le diciture ivi presenti, laddove sono gli aspetti grafici e figurativi ad assumere prevalenza, in una parola i dati visivi di stimolazione elementare, rispetto a quelli destinati all’intelletto;
4) violazione e falsa applicazione degli art. 12, 17, 47 l.m., ora art. 20, 12, 25 c.p.i., avendo la corte del merito omesso di considerare la tutela rafforzata fornita dall’ordinamento al marchio forte e celebre, del quale la legge protegge l’identità sostanziale del nucleo ideologico, estendendo la tutela a tutti gli elementi che lo compongono;
5) motivazione insufficiente e contraddittoria, avendo la corte del merito applicato al terzo F. l’accordo transattivo di coesistenza concluso nel 1896 tra altri soggetti, la sig.ra S.M. ved. B. e D.V.P. – posto che F. non ha dimostrato di essere l’avente causa di D.V.P. , ed anzi la ricorrente ha provato in appello che l’azienda fu ceduta il 23 ottobre 1945 dagli eredi di questo al sig. B.C. – pervenendo a fondare su di esso la buona fede della intimata, ai fini della convalida del marchio; laddove invece il F. , che dichiarava nella propria etichetta di aver lavorato “alle dipendenze” di D.V.P. , non avrebbe potuto ignorare l’accordo ed il contenuto del marchio “(OMISSIS) “;
6) motivazione contraddittoria e violazione e falsa applicazione degli art. 329, 346 c.p.c. e 2909 c.c., laddove la sentenza impugnata ha dichiarato formato il giudicato interno sull’affermazione del tribunale concernente il rapporto di successione D.V. -F. nella titolarità dei diritti derivati dal rapporto di cd. coesistenza del 1896, laddove invece, al riguardo, il giudice di primo grado ciò aveva affermato solo incidentalmente e cadendo in un equivoco, peraltro relativo a circostanza marginale per la prima volta enunciata dalla controparte nel corso del giudizio di appello (proprio fondandosi su quell’equivoco) e priva del valore di giudicato, non trattandosi di capo autonomo della sentenza, ma di obiter dictum irrilevante, ove il capo autonomo concerneva la domanda di convalida del d’appello dell’intera questione, senza alcuna necessità di appello incidentale;
7) motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, nonché violazione e falsa applicazione degli art. 115 e 345, 3 comma, c.p.c., per avere la corte del merito ritenuto inammissibili i documenti sub 53 e 54 prodotti dalla ricorrente in appello, come reso necessario dalle nuove eccezione avverse, pur considerandoli indispensabili, e con motivazione viziata circa la mancata prova dell’impossibilità di produrli tempestivamente: ciò, sebbene l’Archivio di Stato sia stato per anni inaccessibile e la circostanza, oltre che notoria, fosse stata attestata da agente brevettuale di reputazione internazionale;
8) motivazione contraddittoria nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., per avere la corte del merito omesso di rilevare l’inammissibilità delle nuove domande ed eccezioni proposte da controparte in appello con riguardo all’applicazione a sé dell’accordo di coesistenzainter alios del 1896;
9) motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, nonché violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., quanto alla successione della F. nei diritti del D.V. , essendo del tutto mancata una simile prova;
10) motivazione omessa nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., per avere la corte del merito applicato il contratto di coesistenza a soggetto che non era parte, nonostante che tali accordi abbiano efficacia meramente obbligatoria inter partes e non carattere traslativo o costitutivo di diritti sul segno, e quello in discorso avesse il mero scopo di delimitare le possibili interferenze tra le etichette;
11) in subordine, motivazione insufficiente e contraddittoria, nonché violazione e falsa applicazione degli art. 1362 e 1363 c.c., per avere la corte del merito erroneamente interpretato la volontà manifestata dalle parti dell’accordo, il cui art. 3 – da interpretare in armonia all’art. 21 c.p.i. – vietava, come clausola di chiusura, al D.V. di usare un marchio illegalmente imitato ed ancorché privo del nome “B. “;
12) motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, nonché violazione o falsa applicazione degli art. 1362, 1363 c.c. e 12, 17, 47 l.m., ora art. 20, 12, 25 c.p.i., laddove la corte del merito ha ritenuto sostanzialmente identici il marchio D.V. di cui all’allegato E della transazione e quello depositato da P. F. nel 1915;
13) motivazione insufficiente e contraddittoria, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2598, n. 1, c.c., quanto alla negazione della confondibilità dei due marchi in ragione della portata semantica prevalente del disegno dell’aquila che stringe tra gli artigli una bottiglia, presente solo nel marchio della ricorrente, senza considerare l’insieme dei marchi avverso nel loro complesso.
2. – Il primo motivo è infondato, avendo semplicemente la corte territoriale esposto una dupliceratio decidendi, ciascuna delle quali autonoma e sufficiente a sorreggere la decisione, senza che sussista dunque la denunziata contraddittorietà della motivazione.
3. – I motivi secondo, terzo, quarto e tredicesimo possono essere trattati congiuntamente, in quanto intimamente connessi, afferendo essi ai criteri di svolgimento del giudizio di confondibilità, e sono fondati.
3.1. – Questa Corte ha già chiarito che l’accertamento circa la confondibilità tra marchi in conflitto deve compiersi in via globale e sintetica, avendo riguardo all’insieme dei loro elementi salienti grafici, visivi e fonetici, nonché di quelli concettuali o semantici, ove esistenti (Cass. 28 luglio 2015, n. 15840; 28 gennaio 2010, n. 1906; 28 ottobre 2005, n. 21086; in ambito comunitario, Corte giustizia Unione europea, 8 maggio 2014, n. 591/12 P., Bimbo; 30 gennaio 2014, n. 422/12 P., Industrias Alen).
Ciò che rileva, nell’ambito di tale valutazione globale, è l’interdipendenza tra la somiglianza dei segni e quella dei prodotti contrassegnati: la confondibilità consiste nella possibilità che il pubblico possa credere che i prodotti provengano dalla stessa impresa o da imprese economicamente legate tra loro, onde è sufficiente che il grado di somiglianza tra questi marchi abbia l’effetto di indurre il pubblico di riferimento a stabilire un nesso tra di essi, non necessariamente a credere si tratti dello stesso produttore (cfr. Cass. 13 febbraio 2009, n. 3639, nonché frequenti pronunce del Tribunale dell’Unione, ad es. Trib. Unione europea 21 ottobre 2015, n. T-664-13, Petco Animai Supplies Stores; 10 settembre 2008, Boston Scientific, T325/06; 9 luglio 2003, Laboratorios RTB, T-162/01).
La valutazione del rischio di confusione deve fondarsi perciò sull’impressione complessiva prodotta dai marchi in confronto, in considerazione, in particolare, dei loro elementi distintivi e dominanti, rilevando la percezione dei segni da parte del consumatore medio, il quale “vede” normalmente il marchio come un tutt’uno e non effettua un esame spezzettato dei singoli elementi.
Inoltre, il giudice del merito deve tenere conto, nel giudizio di confondibilità, che, al momento della scelta, il consumatore usualmente non ha di fronte entrambi i segni ma solo uno di essi, onde non confronta due marchi entrambi posti innanzi a sé per svolgerne un compiuto esame visivo, ma paragona solo mentalmente quelle che vede con il ricordo imperfetto e l’immagine mnemonica dell’altro (cfr. Corte di giustizia 10 settembre 2008, Capio; 11 novembre 1997, C251/95, Sabel).
Infine, nell’esame di confondibilità dei marchi complessi contenenti elementi denominativi ed elementi figurativi, da un lato anche la parte figurativa del segno, ove si tratti di marchio complesso, va adeguatamente considerata nell’esame, non potendo escludersi la confondibilità sol perché sussistano diverse componenti denominative (Cass. 18 gennaio 2013, n. 1249). Non senza ricordare come questa Corte ha pure osservato da tempo che la contraffazione del marchio registrato può sussistere anche se la riproduzione è inserita in un marchio complesso e che non vale ad escludere la contraffazione stessa la semplice aggiunta del nome del produttore ad un marchio tutelato (cfr. Cass. 4 luglio 1987, n. 6128). Posto che, come sopra ricordato, anche l’erronea riconduzione dei prodotti, a causa della somiglianza dei segni e pur in presenza di denominazioni differenti, alla medesima fonte produttiva come avviene nei cd. marchi di serie – integra la fattispecie della confondibilità.
Dall’altro lato, specialmente in tale categoria di marchi occorre valorizzare le peculiarità del prodotto, le quali permettono di individuare il consumatore di riferimento, pur sempre medio, al fine di un approccio realistico nel giudizio di confondibilità.
Questa Corte ha da tempo chiarito, invero, che la possibilità di confusione fra i prodotti delle imprese concorrenti va apprezzata dal punto di vista dei consumatori dei prodotti di media diligenza e capacità, ma sempre tenendo conto dello specifico tipo di clientela cui il prodotto è destinato e considerando le normali modalità del suo approccio al tipo di prodotto cui si riferisce (cfr. Cass. 21 settembre 2004, n. 18920; 9 marzo 1998, n. 2578; 9 novembre 1983, n. 6625; ed ancora, Cass. 10 ottobre 2008, n. 24909; 28 febbraio 2006, n. 4405; nonché Corte di giustizia 22 giugno 1999, causa C-342/97, Lloyd Schuhfabrik Meyer & Co.; 12 gennaio 2006, causa C-361-04P, Picasso; Tribunale dell’Unione europea 14 maggio 2013, n. 249-11; 30 giugno 2004, BMI Bertollo, T-186/02; 23 ottobre 2002, Oberhauser, T-104/01).
Corrisponde, infatti, alla comune esperienza che il cd. livello di attenzione del consumatore medio varia in funzione della categoria di prodotti o servizi di cui trattasi: il parametro generale è sì costituito dal consumatore normalmente informato e ragionevolmente avveduto, ma la nozione va, poi, concretizzata in adesione alle specifiche circostanze.
Se, per taluni prodotti, il consumatore di riferimento si dimostra particolarmente attento ed avveduto – così, ad esempio, per quelli “di lusso” e costosi, desiderati proprio in quanto si presta notevole attenzione alla qualità del bene al momento dell’acquisto – è l’opposto per i prodotti definibili “a buon mercato”. Così, è noto che il consumatore impiega maggior attenzione quando sceglie un bene di consumo durevole – come un capo di abbigliamento destinato a lungo uso, un elettrodomestico, una vettura – rispetto ad un acquisto cd. d’impulso di un prodotto di singolo e definitivo consumo, come un bene “usa e getta” o una bevanda: solo nel primo caso, alla stregua della comune esperienza, il consumatore sceglie dopo un attento e ponderato controllo di tutti i dettagli del prodotto, con un più elevato grado di attenzione, in ragione dei costi o del carattere tecnologico del prodotto d’interesse.
In tal modo, la somiglianza visiva dell’elemento figurativo finisce per avere un’importanza assai maggiore, laddove le modalità di commercializzazione dei prodotti interessati e la loro natura comportino che il pubblico di riferimento abbia specularmente un livello di attenzione inferiore.
Il medesimo grado di somiglianza oggettiva fra segni può condurre, dunque, a conclusioni diverse circa l’effetto confusorio di essi, con conseguente abbassamento della soglia del giudizio di confondibilità laddove si tratti di un pubblico di riferimento di tipo generico, come accade per i prodotti di larga diffusione non destinati a “specialisti” ed a basso costo, ora menzionati.
A ciò si aggiunga, da ultimo, che il rischio di confusione è tanto più elevato, quanto più rilevante è il carattere distintivo del marchio anteriore a motivo della sua notorietà sul mercato: in relazione ai marchi cosiddetti “celebri” – ai quali il pubblico ricollega non solo un prodotto, ma un prodotto di qualità “soddisfacente” e che quindi garantiscono il successo del prodotto stesso anche oltre le sue qualità intrinseche – occorre tener conto adeguatamente apprezzare il pericolo di confusione in cui il consumatore medio può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti, cosicché il prodotto meno noto si avvantaggi di quello notorio e del suo segno (cfr. Cass. 27 maggio 2013, n. 13090).
3.2. – La sentenza impugnata ha affermato che, nonostante la indubbia somiglianza dei marchi – per il colore giallo dell’etichetta, la forma e la posizione analoga dello scritto e degli elementi grafici ed estetici: insomma, il loro aspetto figurativo globale occorra tenere particolarmente conto della capacità distintiva collegata alla denominazione indicata sull’etichetta, la quale invece, di per sé sola, impedirebbe la confusione.
Ha ritenuto, infatti, che l’elemento figurativo dell’etichetta del “(OMISSIS) “, pur analogo a quello del “(OMISSIS) ” e con composizione grafica del tutto similare, debba essere valutato attribuendo particolare rilievo al segno denominativo, il quale, nell’individuazione del prodotto, assumerebbe carattere predominante, dovendo in sostanza gli elementi figurativi essere considerati come elementi secondari.
Ha concluso, perciò, che nei due marchi costituiti dalle etichette di bottiglie di liquori – sebbene del tutto simili nella complessiva veste grafica, nei colori, nella forma e nella posizione di tutti gli elementi visivi che li compongono – al nome B. o F. resta affidata l’identificazione commerciale dei distinti prodotti.
In tal modo, la corte del merito, pur dichiarando teoricamente di avere svolto una valutazione complessiva e sintetica delle due etichette, non ha poi dimostrato di aver realmente compiuto in concreto tale valutazione, adeguatamente motivando in ordine all’impressione complessiva che il marchio successivo, alla stregua del ricordo mnemonico e globale del rinomato marchio anteriore, possa imprimere sul consumatore non particolarmente avveduto, il quale acquista prodotti di banco a basso costo, e non ha dato adeguato conto di come la singola componente denominativa – in presenza dell’accertata rilevante somiglianza delle componenti figurative – possa di per sé tranquillizzare in ordine alla sua autonoma capacità distintiva.
La Corte d’appello avrebbe dovuto, invece, nel considerare l’etichetta successiva che, sulla base di quanto da essa stessa accertato, è costituita da elementi grafici considerevolmente simili, oltre che da una denominazione in parte uguale (Fernet) – valutare l’impatto visivo dell’etichetta sul consumatore stesso, al di là del solo ipotetico e successivo controllo del nome ivi apposto (peraltro, con identico stile, posizione e caratteri grafici, come nel merito accertato).
Non appare a tale proposito condivisibile, sotto il profilo logico, l’affermazione a carattere assoluto della prevalenza della parte del marchio contenente la denominazione rispetto ad altre parti figurative dello stesso: si è già chiarito che non esiste, infatti, una astratta gerarchia tra gli elementi distintivi che compaiono in un marchio, potendo in diversi casi avere gli elementi figurativi un carattere distintivo addirittura superiore rispetto a quelli denominativi, per cui devono comunque essere protetti (Cass. 18 gennaio 2013, n. 1249).
La motivazione risulta dunque insufficiente rispetto agli stessi presupposti di principio su cui è basata. Se, infatti, la valutazione, avesse dovuto essere complessiva, e non già basata su singoli elementi, la sentenza avrebbe dovuto esaminare in dettaglio tutti gli elementi grafici delle due etichette, dando conto dell’effetto globale della loro forma, colore, dimensione, assimilabilità del progetto grafico complessivo, nonché della dimensione delle due denominazioni, della posizione dei segni grafici all’interno dell’etichetta e di ogni altro elemento presente nei due marchi, al fine di potere affermare se – all’occhio del consumatore medio di un prodotto a basso costo ed alla stregua di un acquisto non particolarmente avveduto – la percezione complessiva ed immediata del marchio della resistente avrebbe potuto, o no, indurlo a ritenere che si trattasse di quello della F.lli B. Distillerie s.r.l., confondendo così anche i prodotti.
4. – Il sesto motivo è fondato.
Il giudicato interno si forma su di un capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, il quale risolve una questione controversa avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente: e la suddetta autonomia manca nelle mere argomentazioni (come pure ad esempio quando si verta in tema di valutazione di un presupposto di fatto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo unico della decisione: Cass. 23 marzo 2012, n. 4732; 16 gennaio 2006, n. 726; 7 marzo 1995, n. 2621; v. 8 gennaio 2015, n. 85).
Pertanto, qualora, a fronte di una domanda di convalida del marchio ex art. 48 l.m., la sentenza di primo grado, nel negare l’integrazione della fattispecie della convalida in ragione della carenza del requisito della buona fede al momento della registrazione del marchio, abbia menzionato una transazione come “intervenuta… tra i danti causa delle odierne parti“, la sottoposizione al giudice d’appello da parte di chi aveva proposto quella domanda di convalida è sufficiente ad evitare il giudicato sull’intero capo, senza che possa discorrersi di giudicato interno in ragione della mancata proposizione di appello incidentale sull’affermazione collaterale riportata. Non si forma, cioè, giudicato sulla mera argomentazione in discorso, che non è capo autonomo, ma concerne e sostiene la medesima decisione sulla domanda sottoposta al giudice d’appello, sicché, una volta devoluta al giudice dell’impugnazione la statuizione relativa all’insussistenza della buona fede, viene coinvolta l’intera statuizione.
5. – Il settimo motivo è fondato.
Questa Corte ha precisato che l’art. 345, 3 comma, c.p.c., come modificato dalla l. n. 353 del 1990, nell’escludere l’ammissibilità di nuovi documenti, salvo che, nel quadro delle risultanze istruttorie già acquisite, siano ritenuti indispensabili perché dotati di un’influenza causale più incisiva rispetto a quella delle prove già rilevanti sulla decisione finale della controversia, impone al giudice del gravame – tenuto conto delle allegazioni delle parti sulle ragioni che le rendano indispensabili e verificatene la fondatezza – di motivare espressamente sulla ritenuta attitudine, positiva o negativa, della nuova produzione a dissipare lo stato di incertezza sui fatti controversi (Cass. 31 agosto 2015, n. 17341; 23 luglio 2014, n. 16745; 27 agosto 2013, n. 19608; 5 dicembre 2011, n. 26020).
A ciò si aggiunga che, nella specie, la corte d’appello nemmeno ha motivato adeguatamente circa la ritenuta mancata prova della non imputabilità della tardiva produzione, avendo la parte addotto l’indisponibilità dei documenti da parte dell’Archivio di Stato, senza essere stata nel contempo ammessa a provare detta circostanza secondaria.
6. – Restano, di conseguenza, assorbiti i motivi quinto e dall’ottavo al dodicesimo, che vertono sulla valenza della transazione del 1896 e sulla relativa prova, da riconsiderare in sede di merito all’esito del riesame dei due punti che precedono.
7. – In conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà a nuovo esame sulla base dei principi esposti, ed anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i motivi secondo, terzo, quarto, sesto, settimo e tredicesimo del ricorso, respinto il primo ed assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia) per un nuovo giudizio, innanzi alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità.
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