Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 9 maggio 2016, n. 19112.

Quando viene accolto l’appello dell’imputato la pena non deve essere aumentata neanche per i reati satellite.

cassazione 5

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 9 maggio 2016, n. 19112

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSI Elisabetta – Presidente

Dott. SOCCI Angelo Matteo – Consigliere

Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

– (OMISSIS), n. (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’appello di NAPOLI in data 11/02/2015;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Alessio Scarcella;

udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. P. Fimiani, che ha chiesto annullarsi con rinvio la sentenza, limitatamente al trattamento sanzionatorio e dichiararsi, nel resto, inammissibile il ricorso;

udite, per il ricorrente, le conclusioni dell’Avv. (OMISSIS), che ha insistito nell’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 11/02/2014, depositata in data 12/06/2015, la Corte d’appello di NAPOLI, in parziale riforma delle sentenze emesse dal GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in data 19/11/2013 e dal GIP del Tribunale di Napoli in data 8/05/2014, riconosceva le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate e, considerato piu’ grave il delitto di cui all’articolo 600- ter c.p., rideterminava la pena in 8 anni di reclusione ed Euro 60.000,00 di multa, oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili, confermando nel resto le sentenze impugnate che lo avevano riconosciuto colpevole di numerosi episodi di violenza sessuale tentata ai danni di alcune ragazze minorenni all’epoca dei fatti ( (OMISSIS) D., fatto avvenuto in data (OMISSIS); (OMISSIS) P., in data (OMISSIS); (OMISSIS) C. e (OMISSIS) C., in data (OMISSIS)), nonche’ del delitto di violenza sessuale consumata ai danni di una minorenne ( (OMISSIS) M. una prima volta nel periodo (OMISSIS), una seconda volta nel marzo dello stesso anno) ed, infine, per essersi procurato consapevolmente e detenuto materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni 18 (fatto accertato in data (OMISSIS)) e per aver prodotto consapevolmente materiale pornografico utilizzando minori degli anni 18 (fatto contestato come commesso in data (OMISSIS)).

2. Ha proposto ricorso (OMISSIS) a mezzo di difensore fiduciario cassazionista, impugnando la sentenza predetta con cui deduce sette motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex articolo 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), c) ed e), per violazione dell’articolo 600 – ter c.p. sotto il profilo dell’errata qualificazione giuridica del reato di cui al capo b) della rubrica (proc. pen. 8653/14) e correlato vizio di illogicita’ manifesta della motivazione.

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, la difesa aveva chiesto che l’imputazione in questione fosse riqualificata nel delitto di cui all’articolo 600 – quater c.p., seguendo l’arresto delle Sezioni Unite di questa Corte di cui alla sentenza n. 13/00; scopo del ricorrente era quello di invadere la privacy delle ragazze adescate e diffamarle ovvero costringerle a compiere atti sessuali contro la loro volonta’ e non quello di realizzare materiale pornografico destinato alla diffusione, ne’ di cio’ vi sarebbe traccia alle indagini; la detenzione delle immagini non sarebbe stata dunque finalizzata ne’ al commercio ne’ alla distribuzione; la Corte d’appello, riferendosi al “pericolo” di diffusione avrebbe errato giuridicamente, e non avrebbe esaminato l’elemento psicologico del ricorrente; la stessa sentenza citata dalla Corte d’appello nella motivazione, sosterrebbe esattamente il contrario e sarebbe comunque rimasto non superato il contrasto esistente tra le due sentenze quanto alla mera detenzione delle stesse immagini pornografiche riguardanti lo stesso materiale contenuto nel medesimo personal computer del ricorrente.

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), c) ed e), per violazione dell’articolo 649 c.p.p. e correlato vizio di mancanza della motivazione.

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, con i motivi di appello aggiunti era stata chiesta l’applicazione del principio del ne bis in idem, in relazione all’imputazione di cui all’articolo 600 – ter c.p. oggetto della sentenza n. 1011/14, in quanto il fatto – reato sarebbe stato oggetto di valutazione da parte del GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con l’altra sentenza oggetto del presente giudizio; il ricorrente avrebbe quindi gia’ riportato condanna per la detenzione del materiale pedopornografico rinvenuto nel personal computer; ambedue i processi, riuniti in sede di giudizio di appello, trovavano origine secondo il ricorrente nel sequestro del personal computer, eseguito presso l’abitazione dell’imputato; sarebbe dunque il materiale contenuto nel personal computer a racchiudere e limitare la prova dei reati, divaricatosi nelle due diverse imputazioni; l’intero fatto della detenzione del materiale pornografico sarebbe unico, e solo per caso avrebbe dato origine a due processi diversi, sicche’, iniziata l’azione penale per lo stesso fatto, l’altra non poteva essere iniziata per il medesimo fatto, anche se diversamente circostanziato.

2.3. Deduce, con il terzo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), c) ed e), per violazione dell’articolo 597 c.p.p. e dell’articolo 81 c.p., correlato vizio di mancanza assoluta della motivazione.

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, la Corte d’appello ha calcolato interamente la pena, sia individuando il reato piu’ grave sia i diversi reati in continuazione; i reati in relazione ai quali si censura l’illegittimo aumento sono quelli di cui ai capi a), b), c) ed f) della sentenza del GIP del tribunale di Santa Maria Capua Vetere; quest’ultimo aveva irrogato per i primi reati, gia’ uniti sotto il vincolo della continuazione, una pena di 3 mesi di reclusione, laddove la Corte d’appello avrebbe applicato per i medesimi reati una pena di 10 mesi per ciascuno di essi; inoltre, il Gip del tribunale di SMCV aveva condannato l’imputato per il capo f) alla pena di 1 mese di reclusione, laddove la Corte d’appello ha aumentato la pena a 10 mesi di reclusione per il medesimo delitto; palese sarebbe quindi la violazione del divieto di reformatio in peius, nonche’ evidente il vizio motivazionale sul punto, non avendo infatti la Corte territoriale motivato ne’ le ragioni del diverso aumento, ne’ la quantita’ di pena diversamente calcolata.

2.4. Deduce, con il quarto motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), c) ed e), per violazione dell’articolo 62 bis c.p. e correlato vizio di mancanza assoluta della motivazione sulla parziale ed inapplicata concessione delle attenuanti generiche.

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, la Corte d’appello ha si’ riconosciuto le circostanze attenuanti generiche, ma le ha considerate equivalenti alla unica aggravante contestata, quella relativa al capo d) della rubrica, sicche’ il valore e l’incidenza sul calcolo generale della pena e sugli altri reati sarebbe divenuta inesistente, donde il giudizio positivo che ha giustificato il riconoscimento delle attenuanti generiche sarebbe divenuto senza alcun motivo insignificante, essendo l’effetto parziale e non investendo le altre imputazioni; sul punto, la motivazione della Corte d’appello sarebbe anche illogica, non avendo la Corte d’appello motivato sulla mancata incidenza ed estensione degli effetti in relazione agli altri reati.

2.5. Deduce, con il quinto motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), c) ed e), per violazione dell’articolo 56 c.p., sotto il profilo del riconoscimento del tentativo o desistenza volontaria, e correlato vizio di illogicita’ della motivazione.

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente – soffermandosi sui fatti sub a), b) ed e) della rubrica di cui alla sentenza del GIP del tribunale di SMCV -, che la condotta in nessuna delle tre vicende avrebbe mai superato la soglia del tentativo punibile, essendosi egli limitato a reiterare gli inviti nei contatti in via telematica, senza che cio’ ponesse concretamente in pericolo le pp.oo.; gli atti fino a quel momento compiuti non potevano considerarsi univocamente diretti alla realizzazione dei reati contestati, non essendoci del resto stato alcun contatto fisico e diretto ne’ mai avvenuti gli incontri, sicche’ la “tentata” violenza sessuale sarebbe stata desunta da “frasi” dal tenore letterale talmente equivoco da essere travisato e mal “interpretato” dalle stesse ragazze, le quali avrebbero detto di aver “intuito” che la richiesta fosse quella di avere un rapporto sessuale (casi (OMISSIS) e (OMISSIS)) o addirittura escluso che tale richiesta vi fosse stata (capo (OMISSIS)), sicche’ il tentativo “in concreto” non sarebbe configurabile; quanto, poi, al tema della desistenza volontaria, sostiene il ricorrente che non essendo mai avvenuti gli incontri, ne’ essendo mai stata pubblicata alcuna foto in rete, il reato non sarebbe stato portato a consumazione proprio per la volontaria decisione del ricorrente, che si sarebbe quindi determinato a “tornare sui suoi passi”; anzi, si aggiunge in ricorso, in alcuni casi (come nel caso (OMISSIS)) egli avrebbe contattato le pp.oo. per chiedere scusa e rassicurare sulla cancellazione delle fotografie, cio’ che denoterebbe la scarsa capacita’ criminale del ricorrente; censurabile sarebbe quindi la motivazione della Corte d’appello secondo cui, pur in mancanza di contatto fisico tra ricorrente e persone offese, il tentativo sarebbe comunque configurabile; nel caso in esame vi sarebbe una distanza fisica e temporale non qualificabile nemmeno come “atti preparatori”, cio’ che emergerebbe ad esempio nel caso Contestabile (capo a) della sentenza del GIP del tribunale di Napoli) in cui il ricorrente avrebbe detto alle ragazze di non volerle piu’ incontrare; l’assenza quindi di provate richieste o di minacce, escluderebbe la configurabilita’ dei reati contestati a titolo di tentativo.

2.6. Deduce, con il sesto motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), c) ed e), sotto il profilo dell’assenza della motivazione e della violazione di legge quanto all’eccepita mancanza della condizione di procedibilita’ del capo e) per l’episodio in cui e’ p.o. (OMISSIS).

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, la p.o. all’epoca del fatto aveva gia’ compiuto 18 anni e, sentita, non aveva sporto querela; nella sua “risposta” la ragazza avrebbe riferito di fatti accaduti nell’agosto 2011; la stessa venne sentita in data 15/05/2012, evidenziando come la ragazza avesse compiuto 18 anni in data (OMISSIS); l’incertezza in ordine al verificarsi dei fatti renderebbe incerto il tempus commissi delicti, difettando quindi la condizione di procedibilita’.

2.7. Deduce, con il settimo motivo, il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., lettera b), c) ed e), per violazione dell’articolo 609 – quater c.p., comma 4, e correlato vizio di manifesta illogicita’ della motivazione.

In sintesi, la censura investe l’impugnata sentenza in quanto, sostiene il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe eluso il motivi di appello con cui si invocava, in relazione ai fatti in cui la p.o. era la (OMISSIS), il riconoscimento dell’attenuante della minore gravita’; la Corte territoriale avrebbe escluso l’attenuante affermando che il reo, nel consumare molteplici rapporti con la minore, ebbe a porre in essere condotte gravemente lesive del suo sviluppo psicologico; la motivazione sarebbe sul punto assertiva, e contrasterebbe con quanto affermato dal primo giudice che aveva invece escluso qualsiasi costrizione nei confronti della p.o., consenziente al rapporto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso e’ fondato limitatamente al terzo motivo con cui si deduce la violazione del divieto di reformatio in peius.

4. Seguendo la struttura suggerita dall’impugnazione in sede di legittimita’, puo’ procedersi anzitutto ad esaminare il primo motivo, con cui si deduce l’errata qualificazione giuridica del delitto di cui all’articolo 600 – ter c.p., nei termini dianzi illustrati al 2.1.

Il motivo non ha pregio.

Ed invero, la Corte d’appello motiva sulla questione alle pagg. 14 e 15 dell’impugnata sentenza, precisando che e’ rimasta provata la sussistenza nel caso in esame del pericolo di diffusione del materiale pedopornografico prodotto dall’imputato, richiamando le dichiarazioni della p.o. (OMISSIS) C., elemento che per i giudici territoriali e’ funzionale a distinguere il delitto di cui all’articolo 600 – ter, c.p., da quello di mera detenzione invocato dall’imputato; a tal proposito, i giudici territoriali richiamano la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il reato di pornografia minorile di cui all’articolo 600 ter c.p., comma 1 richiede il concreto pericolo di una vasta ed indiscriminata diffusione del materiale pedopornografico prodotto (Sez. 3, n. 49604 del 01/12/2009 – dep. 28/12/2009, P.M. in proc. M.M. e altro, Rv. 245749; Sez. 3, n. 11997 del 02/02/2011 – dep. 25/03/2011, L. F., Rv. 249656); sul punto, si aggiunge, appare chiaro che l’articolo 600 – ter c.p., si ponga come disposizione volta a reprimere le piu’ gravi condotte di aggressione ad una serena evoluzione della identita’ sessuale del minore, realizzate attraverso un contesto di organizzazione almeno embrionale e di destinazione anche potenziale del materiale pornografico in questione alla successiva fruizione di un numero imprecisato di terzi, citando a tal proposito Sez. 3, n. 17178 del 11/03/2010 – dep. 06/05/2010, Flak, Rv. 246982.

Il Collegio condivide le argomentazioni esposte dalla Corte d’appello.

Ed invero, mentre il delitto di cui all’articolo 600 – quater c.p., presuppone una detenzione “fine a se stessa” del materiale pedopornografico, essendo richiesta la consapevolezza (dolo generico) con riferimento alla condotta di “procurarsi” o “detenere” il predetto materiale realizzato utilizzato minorenni, la fattispecie dell’articolo 600 – ter c.p., comma 1, n. 1, oggetto di contestazione, punisce la “produzione” di tale materiale a prescindere dalla finalita’ commerciale (v. articolo 600 – ter c.p., comma 2) e presuppone ovviamente una detenzione “qualificata” del materiale prodotto, in quanto non destinata “ex se” al mero soddisfacimento delle pulsioni sessuali dell’agente, ma preordinata al perseguimento di una finalita’ ulteriore che puo’ essere anche quella di un utilizzo del materiale per finalita’ illecite, qual e’ sicuramente quella di detenerlo per ricattare il minore che ne e’ involontario protagonista, prospettandogli l’alternativa tra soggiacere ai desideri sessuali del reo o vedersi pubblicate su internet le immagini pornografiche che lo ritraggono; la detenzione, quindi, nel caso in esame, non poteva qualificarsi come “fine a se stessa” ma finalizzata al perseguimento di ulteriori obiettivi e, dunque, in tale detenzione, era insito – e peraltro esternato anche ex professo dallo stesso ricorrente – il pericolo di diffusione che e’ richiesto dalla fattispecie incriminatrice per la configurabilita’ dell’illecito penale de quo.

5. Del resto, osserva il Collegio, una conferma dell’interpretazione qui seguita da questa Corte, e’ ravvisabile nella piu’ recente ed avveduta giurisprudenza di questa stessa Sezione (Sez. 3, n. 16340 del 12/03/2015 – dep. 20/04/2015, M, Rv. 263355).

In tale sentenza, ben si evidenziava – richiamando proprio l’arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite valorizzato dal ricorrente (Sez. U, n. 13 del 31/05/2000 – dep. 05/07/2000, PM, Rv. 216337) – come non potesse non rilevarsi, peraltro, che l’intervento dirimente delle Sezioni Unite da cui si origina la giurisprudenza di legittimita’ che allo stato governa l’interpretazione dell’articolo 600 ter c.p., comma 1, si colloca ormai in una data che puo’ definirsi risalente, essendosi negli ultimi quindici anni espanso ad un livello all’epoca non percepibile e non prevedibile da chi non fosse particolarmente inserito nel settore il fenomeno dei cosiddetti social networks, ovvero la intensa potenza comunicativa anche tra privati nella rete, pervenuta ad una sorta di ubiquita’ in re ipsa di quanto prende le mosse dall’utente di un tale apparato. Laddove, pertanto, le Sezioni Unite chiedevano al giudice di merito di accertare di volta in volta la potenzialita’ concreta di diffusione pure mediante uno strumento telematico, l’odierno notorio insegna che l’inserimento di materiale entro un social network come Facebook (e, non si dimentichi, come, nel caso di specie, l’attivita’ di adescamento telematico delle due sorelle Contestabile era avvenuto per mano del ricorrente proprio mediante Facebook sotto falso nome, inscenando un falso casting, poi ponendo in essere la minaccia di diffusione delle foto che le ritraevano nude proprio tramite internet), piu’ non necessita, in realta’, alcuno specifico accertamento sulla potenzialita’ diffusiva. E parimenti, anche il riferimento a organizzazioni “rudimentali” o “embrionali” risulta ormai superato, ovvero anacronistico, tenuto conto della disponibilita’ quanto mai agevole che le strutture di comunicazione telematica sociale offrono oggi a chiunque se ne voglia avvalere, senza alcuna necessita’ di adoperarsi per porre in essere propri personali apparati. La “piazza telematica” e’ aperta a tutti e la sua idoneita’ a diffondere quanto tutti vi versano, incluso il materiale pornografico, ha raggiunto un livello notoriamente cosi’ elevato da esonerare la necessita’ di valutazione del concreto pericolo, nel momento in cui il materiale, appunto, e’ inserito (o potrebbe esserlo, come e’ avvenuto nel caso di specie) entro un frequentatissimo social network, in cui l’imputato lo avrebbe veicolato. Il convogliamento di materiale, in questi casi, sulla bacheca di un account si traduce in una metastasi diffusiva con la massima facilita’.

La “cerchia sterminata di pedofili” – come si esprimeva con suggestiva efficacia e oggettivo ribrezzo l’arresto sopra citato delle Sezioni Unite -, quindi, ormai non e’ piu’ agevolmente e specificamente estrapolabile da una platea cosi’ estesa, miscelata e in ultima analisi onnicomprensiva come quella di un social network, per cui l’inserimento del materiale nel relativo meccanismo diffusorio e’ gia’ di per se’ potenzialmente idoneo, ovvero integra il pericolo concreto di diffusione anche tra i pedofili.

La Corte territoriale, peraltro, ha riconosciuto che la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte, non ritenendo ovviamente sufficiente la presenza del materiale sul computer personale dell’agente, esige il pericolo concreto di diffusione del materiale pedopornografico a una pluralita’ di soggetti, richiamando anche il tradizionale contesto organizzativo “almeno embrionale”; e, di conseguenza, giunge correttamente e logicamente a identificare il quid pluris necessario a integrare il reato proprio nell’essere destinato il materiale pedopornografico alla successiva fruizione di un numero imprecisato di terzi, il che equivale a dire – in altri termini – palesare il pericolo di una concreta, non controllabile, ulteriore diffusione. Non si vede, d’altronde, nemmeno quale vizio motivazionale abbia mai potuto inficiare la sentenza d’appello laddove, correttamente, afferma che la ratio della norma incriminatrice e’ certamente volta a reprimere le piu’ gravi condotte di aggressione ad una serena evoluzione della identita’ sessuale del minore, considerato che, per quanto si e’ sopra rilevato come notorio, il mercato della pedofilia puo’ attuarsi anche attraverso social networks come quello utilizzato dall’imputato. E che poi questo avesse intenzione non di condividere con il mondo dei pedofili quel materiale, bensi’ di soddisfare i propri impulsi sessuali (come sostenuto anche in ricorso) non ha evidentemente alcun rilievo, poiche’ in effetti l’imputato si e’ avvalso della tutt’altro che rudimentale organizzazione Facebook, la quale e’ intrinsecamente finalizzata ad ogni diffusione; e tale natura di Facebook – che allo stato effettivamente non riesce ad arginare la circolazione di questo tipo di materiale – e’ talmente notoria che la sua utilizzazione rappresentata dal versarvi materiale pornografico integra, quanto meno come dolo eventuale, proprio una consapevole volonta’ di divulgazione (cfr. Cass. sez. 3, 11 dicembre 2012-31 luglio 2013 n. 33157; Cass. sez. 3, 25 ottobre 2012 n. 44914; Cass. sez. 3, 10 novembre 2011 n. 44065; Cass. sez. 3, 12 gennaio 2010 n. 11082; e cfr. altresi’ Cass. sez. F, 7 agosto 2014 n. 46305).

Il primo motivo di ricorso, dev’essere, conclusivamente, respinto.

6. Non miglior sorte merita il secondo motivo.

Ed invero, la Corte d’appello menziona a pag. 8 dell’impugnata sentenza il relativo motivo di appello, senza peraltro affrontare la questione.

Dalla motivazione dell’impugnata sentenza e’ peraltro agevolmente desumibile come la Corte territoriale non ha ritenuto di dover applicare il disposto dell’articolo 649 c.p.p. avendo i giudici territoriali respinto la richiesta di riqualificazione giuridica del fatto sub b) ai sensi dell’articolo 600 – quater c.p.; l’aver, quindi, escluso la predetta riqualificazione giuridica rendeva, all’evidenza, superfluo motivare espressamente in ordine alla non applicabilita’ del “ne bis in idem”, dovendosi quindi ritenere che vi sia stato un rigetto implicito del relativo motivo. Trova, infatti, applicazione nel caso in esame il consolidato principio secondo cui non e’ censurabile in sede di legittimita’ la sentenza che, pur non prendendo espressamente in esame una deduzione prospettata con l’atto di impugnazione, evidenzi una ricostruzione dei fatti che implicitamente, ma in maniera adeguata e logica, ne comporti il rigetto (v., tra le tante: Sez. 2, n. 33577 del 26/05/2009 – dep. 01/09/2009, Bevilacqua e altro, Rv. 245238).

7. Fondato, diversamente, si appalesa il terzo motivo.

Ed invero, la Corte d’appello motiva sulla rideterminazione della pena a pag. 17. In particolare, avendo i giudici di appello riconosciuto le attenuanti generiche in misura equivalente alle contestate aggravanti, pervengono alla rideterminazione della pena nella misura finale di 8 anni di reclusione ed Euro 60000,00 di multa, muovendo dalla p.b. prevista per il piu’ grave reato di cui all’articolo 600 – ter c.p. (ossia l’originario capo b) della sentenza del GIP del tribunale di Napoli dell’8/05/2014) individuata in 6 anni e 2 mesi di reclusione ed Euro 34000,00 di multa, aumentandola per la continuazione in relazione ai reati satelliti nella misura finale di 12 anni di reclusione ed Euro 90000,00 di multa, in particolare – si legge in sentenza – “mesi dieci di reclusione ed Euro 8000,00 di multa per ciascun reato contestato”, riducendo poi la pena indicata per il rito nella misura finale c.s. specificata.

Trattasi di evidente errore giuridico e non di calcolo, in palese violazione del disposto dell’articolo 597 c.p.p., atteso che, ricostruendo il trattamento sanzionatorio che era stato separatamente inflitto nelle due sentenze riunite in appello, emerge che (a fonte dell’individuazione da parte del GIP del tribunale di Napoli, della p.b. per il delitto di cui all’articolo 600 – ter c.p., piu’ grave, in anni 6 e mesi 2 di reclusione ed Euro 34000,00 di multa, pena base che correttamente la Corte d’appello di Napoli individua come p.b. in sede di rideterminazi’one del trattamento sanzionatorio), il GIP del tribunale di SMCV (v. pag. 20 della relativa sentenza) aveva determinato la pena muovendo dall’articolo 609 – ter c.p., comma 1, individuando quale p.b. quella di anni 6 di reclusione, applicando per i reati sub a), b) ed e) – ossia per le tre contestazioni di tentata violenza sessuale – un aumento ex articolo 81 cpv. c.p. di mesi 3 di reclusione per ciascuna delle tre imputazioni, aumentando poi per la continuazione in relazione al reato sub f), la pena di 1 mese di reclusione e, per il capo c) – riqualificato ai sensi dell’articolo 609 – quater c.p., un aumento di mesi 5 di reclusione, cosi’ irrogando una pena finale di anni 8 di reclusione.

Appare, quindi, evidente che l’indiscriminato ed indifferenziato aumento da parte della Corte d’appello di mesi 10 di reclusione ed 8000,00 Euro di multa per ciascun reato satellite e’ avvenuto in violazione del divieto di reformatio in peius in assenza di impugnazione della Procura Generale della Corte d’appello, imponendosi pertanto l’annullamento dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra Sezione della Corte territoriale per procedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio tenendo conto dei principi, piu’ volte affermati da questa Corte, secondo cui il divieto della “reformatio in peius” in appello riguarda non soltanto il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena, sicche’, in caso di accoglimento dell’appello dell’imputato in ordine alle circostanze o al concorso di reati, discende non solo l’obbligatoria diminuzione della pena complessiva, ma anche l’impossibilita’ di elevare la pena comminata per singoli elementi (Sez. 5, n. 14991 del 12/01/2012 – dep. 18/04/2012, P.G. in proc. Strisciuglio e altri, Rv. 252326; Sez. 2, n. 45973 del 18/10/2013 – dep. 15/11/2013, A., Rv. 257522).

Del resto, puo’ anche convenirsi con il ricorrente sulla doglianza di vizio motivazionale, atteso che la Corte territoriale non ha assolutamente motivato ne’ le ragioni del diverso aumento ne’ sulla applicazione di una quantita’ di pena diversamente calcolata. Sul punto, e’ sufficiente richiamare quanto affermato da questa stessa Sezione nel senso che in tema di divieto di “reformatio in peius”, il giudice di appello che, accogliendo il motivo di gravame proposto dal solo imputato riguardante una regiudicanda integrata da piu’ reati unificati dal vincolo della continuazione, riconosca l’esistenza di una circostanza attenuante in precedenza negata ed influente sia sulla pena base che su altri elementi rilevanti per il calcolo, deve necessariamente ridurre la pena complessivamente inflitta con riferimento al reato base e ai reati satelliti, salvo che per questi ultimi venga confermato, con adeguata motivazione, l’aumento in precedenza disposto e fermo restando che il risultato finale dell’operazione si concluda con l’irrogazione di una pena complessiva corrispondentemente diminuita rispetto a quella in precedenza irrogata (Sez. 3, n. 3214 del 22/10/2014 – dep. 23/01/2015, A., Rv. 262021).

8. Proseguendo nella disamina dei diversi motivi, infondato e’ il quarto motivo.

La Corte d’appello si sofferma a pag. 17 della sentenza, affermando che in ragione della confessione resa in sede di giudizio di appello, potevano concedersi le attenuanti generiche in misura equivalente “rispetto alle contestate aggravanti”.

Il motivo e’ infondato in quanto – premesso che l’aggravante contestata non e’ solo quella di cui al richiamato capo d) della sentenza del GIP del tribunale di SMCV, ma anche quella indicata al capo b) della sentenza del GIP del tribunale di Napoli, in relazione al quale viene ad essere individuata la p.b., essendo il delitto di cui all’articolo 600 – ter c.p., comma 1, n. 1, aggravato ai sensi dell’articolo 61 c.p., n. 2 – osserva il Collegio come il giudizio di comparazione ex articolo 69 c.p. presuppone una valutazione globale ed unitaria del fatto inscindibile (argomentando, ex multis, da Sez. 6, n. 39456 del 09/10/2003 – dep. 20/10/2003, Cotugno, Rv. 227433), sicche’, come non e’ possibile operare un giudizio di bilanciamento in termini di prevalenza tra un’attenuante ed un’aggravante e ritenere equivalente l’attenuante rispetto ad eventuali diverse aggravanti, allo stesso modo e’ corretto esprimere “complessivamente” un giudizio di equivalenza (come avvenuto nel caso di specie) in relazione alle ipotesi di reato “aggravate”, senza necessita’ per il giudice di motivare analiticamente le ragioni della mancata incidenza delle attenuanti generiche sui reati “satelliti” non aggravati, atteso proprio il carattere unitario ed inscindibile del giudizio di comparazione ex articolo 69 c.p. che fa perdere qualsiasi autonomia alle fattispecie “non circostanziate”.

9. Suggestivo ma privo di pregio il quinto motivo.

La Corte d’appello motiva alle pagg. 11/13 della sentenza le ragioni della configurabilita’ del delitto in esame come delitto tentato e della correlativa esclusione dell’invocata desistenza volontaria; si legge nella motivazione della sentenza impugnata che l’aver minacciato le ragazze di diffondere il materiale pedopornografico fraudolentemente acquisito, laddove non si fossero sottoposte ai’ suoi piaceri, integri, stante la caratterizzazione di sessualita’ degli atti imposti alle vittime, il delitto di violenza sessuale tentata e non un’ipotesi di desistenza volontaria, richiamando sul punto la giurisprudenza di questa Corte secondo cui e’ configurabile il tentativo del delitto di cui all’articolo 609 bis c.p. in tutti i casi di mancato soddisfacimento delle richieste a sfondo sessuale del reo da parte della vittima conseguente al rifiuto opposto da quest’ultima, in quanto l’impossibilita’ di portare a consumazione il reato per l’opposizione della p.o. costituisce un fatto indipendente dalla volonta’ del reo (Sez. 3, n. 34128 del 23/05/2006 – dep. 12/10/2006, Viggiano, Rv. 234778 ed altre conformi richiamate a pag. 13 della sentenza impugnata).

Sul punto, la censura e’ generica, in quanto non si confronta criticamente con le argomentazioni della Corte d’appello che confuta con rigore argomentativo e motivi immuni da vizi logici le ragioni dell’allora appellante. Ed e’ pacifico che e’ inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni gia’ esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).

Analogamente, la minaccia reiterata e’ pacifica, con conseguente configurabilita’ del tentativo, posto che nell’adescamento on – line e nelle successive richieste di prestazioni sessuali con la minaccia di pubblicare i video e’ senza alcun dubbio configurabile il tentativo di violenza sessuale, essendosi gia’ affermato da questa Corte, da un lato, che integra il reato di tentata violenza sessuale la condotta di colui che, all’esplicito rifiuto di consumare un rapporto sessuale, reitera piu’ volte la richiesta ponendo in essere violenze o minacce che, sebbene non comportino una immediata e concreta intrusione nella sfera sessuale della vittima, siano comunque chiaramente finalizzate a vincerne la resistenza (Sez. 3, n. 41214 del 15/09/2015 – dep. 14/10/2015, Pmt in proc. R, Rv. 264970); dall’altro, che integra il reato di violenza sessuale tentata, e non un’ipotesi di desistenza volontaria, il mancato soddisfacimento delle richieste a sfondo sessuale del reo, conseguente al rifiuto opposto dalla vittima della violenza o della minaccia, in quanto l’impossibilita’ di portare a consumazione il reato per l’opposizione della parte offesa costituisce un fatto indipendente dalla volonta’ dell’agente (Sez. 3, n. 51420 del 18/09/2014 – dep. 11/12/2014, M, Rv. 261389).

In ogni caso, la censura si appalesa manifestamente infondata, in quanto le argomentazioni di doglianza sviluppate dal ricorrente (dalla “mala interpretatio” delle dichiarazioni delle pp.oo. alla mancata concretizzazione degli incontri e/o della pubblicazione del materiale pedopornografico per la volonta’ di tornare sui suoi passi, passando all’asserzione che dopo l’adescamento on – line delle ragazze, egli si sarebbe limitato a reiterare gli inviti in via telematica senza dare seguito alla richiesta) appaiono dunque, all’evidenza, dei tentativi di chiedere alla Suprema Corte una rivalutazione del merito, operazione del tutto inibita in questa sede.

A ben vedere, infatti, le censure difensive, lungi dal prospettare un vizio motivazionale, si risolvono invece in una manifestazione di dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto ed alla valutazione probatoria operata dai giudici di merito, operazione, com’e’ noto, non consentita in questa sede. Si ribadisce, e non potrebbe essere altrimenti, che l’indagine di legittimita’ sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volonta’ del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilita’ di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si e’ avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione e’, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimita’ la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente piu’ adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte., v.: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 – dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944). Inoltre, l’illogicita’ della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioe’ di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimita’ al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purche’ siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (v., per tutte: Sez. U, n. 24 del 24/11/1999 – dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003 – dep. 10/12/2003, Petrella, Rv. 226074).

A cio’ si aggiunge – con particolare riferimento alle doglianze riguardanti il preteso vizio motivazionale – che gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudizio valutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l’esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimita’ e non possono essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorieta’ della motivazione solo perche’ contrari agli assunti del ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., lettera e), non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l’indagine sull’attendibilita’ dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruita’ e logicita’ della motivazione (tra le tante: Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 – dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961).

Controllo, in questa sede, agevolmente superato dalla sentenza impugnata.

10. Ad analogo approdo si perviene in relazione al sesto motivo.

I giudici di appello motivano a pag. 13 della sentenza, ritenendo infondata l’eccezione di improcedibilita’ dell’azione penale relativamente all’episodio criminoso contestato al capo e) ai danni di M. (OMISSIS), per non avere le persona offesa formalizzato atto di querela, emergendo dagli atti la minore eta’ della p.o. all’epoca dei fatti.

La censura difensiva e’ all’evidenza generica e tipicamente “in fatto”, in quanto il ricorrente chiede a questa Corte di sostituire alla valutazione di merito operata dal giudice di appello circa il verificarsi di un accadimento fattuale in un determinato momento storico (estate 2011), una nuova valutazione da parte del Giudice di legittimita’, senza peraltro censurare alcun travisamento probatorio operato dai giudici di merito, ma semplicemente “contestando” il risultato della valutazione operata dai giudici di merito, cio’ che si risolve, ancora una volta, in una manifestazione di “dissenso” rispetto all’esito ricostruttivo – valutativo, operazione come gia’ detto nel precedente paragrafo, del tutto preclusa davanti alla Corte di Cassazione.

11. Deve, infine, essere esaminato il settimo ed ultimo motivo di ricorso. La Corte d’appello motiva, sul punto, a pag. 16, con particolare riferimento all’esclusione della configurabilita’ dell’attenuante della minore gravita’. Rammentano i giudici di appello che il discrimine tra i casi di maggiore e minore gravita’ e’ stato ancorato dalla giurisprudenza di questa Corte a volte, unicamente sul grado di compressione che la liberta’ di autodeterminazione in campo sessuale subisce, in altri casi, invece, su una valutazione globale e del fatto reato – nelle sue componenti soggettive ed oggettive – e degli elementi menzionati dall’articolo 133 c.p. (in particolare, precisa questo Collegio, di quelli indicati dal comma 1 dell’articolo 133 citato). Con particolare riferimento alla qualificabilita’ come fatto di minore gravita’ nelle ipotesi tentate, la Corte d’appello ricorsa correttamente come la giurisprudenza di questa Corte impone una valutazione riferita al delitto consumato che l’agente aveva intenzione di realizzare (il riferimento, in sentenza, e’ a Sez. 3, n. 44416 del 09/11/2011 – dep. 30/11/2011, C., Rv. 251216 ed a Sez. 3, n. 34128 del 23/05/2006 – dep. 12/10/2006, Viggiano, Rv. 234780).

Operate tali esatte premesse, la Corte d’appello osserva come dalle investigazioni e’ chiaramente emerso che le pp.oo., tutte di giovanissima eta’, a seguito di reiterate minacce, venivano costrette dall’imputato a subire plurimi rapporto orali o completi, donde non puo’ non ritenersi corretta la decisione di primo grado di negare l’applicabilita’ dell’invocata circostanza attenuante, ostandovi la circostanza che il ricorrente perpetro’ la violenza sessuale approfittando dell’eta’ delle vittime e del timore in esse ingenerato di venire coinvolte in un pubblico scandalo; quanto al riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 609 – quater c.p., comma 4, osta per i giudici di appello la circostanza che il ricorrente, nel consumare con la vittima (la p.o. (OMISSIS)) multipli rapporti, pose in essere condotte gravemente lesive dello sviluppo psicologico della giovane vittima.

Trattasi di motivazione del tutto corretta in diritto, essendo gia’ stato affermato da questa Corte che in tema di violenza sessuale, l’attenuante speciale della minore gravita’, di cui all’articolo 609 bis c.p., comma 3, non puo’ essere concessa quando gli abusi in danno della vittima sono stati reiterati nel tempo (da ultimo, v.: Sez. 3, n. 21458 del 29/01/2015 – dep. 22/05/2015, T., Rv. 263749); anche con riferimento all’analoga attenuante di cui all’articolo 609 quater c.p. e’ peraltro legittimo e possibile escludere che il fatto possa qualificarsi come di minore gravita’ in caso di reiterazione degli abusi sessuali posti in essere da un adulto su minori, cio’ soprattutto laddove si consideri che, pur potendo astrattamente rilevare il consenso all’atto da parte del minore ai soli fini del riconoscimento dell’attenuante de qua (v., sul punto: Sez. 3, n. 45179 del 15/10/2013 – dep. 08/11/2013, L., Rv. 257626), devesi tuttavia non solo valutare la capacita’ del soggetto in concreto in relazione alla natura del reato, ma soprattutto considerarsi, ai fini del riconoscimento della predetta attenuante, il fatto nella sua globalita’, donde e’ evidente che anche il riferimento ad un solo elemento incidente negativamente sul giudizio di particolare tenuita’ e’ idoneo a giustificare l’esclusione della sua configurabilita’ (v., in termini: Sez. 3, n. 21623 del 15/04/2015 – dep. 25/05/2015, K, Rv. 263821). Il che e’ quanto avvenuto nel caso di specie, avendo, infatti, la Corte d’appello valorizzato al fine di negare il riconoscimento dell’attenuante la circostanza, oggettiva, per la quale il ricorrente ebbe con la vittima “multipli rapporti”.

A cio’, infine, si aggiunge quanto gia’ affermato da questa Corte per la quale in tema di atti sessuali con minorenne, deve escludersi che le condotte poste in essere mediante comunicazione telematica presentino – per il solo fatto di svolgersi in assenza di contatto fisico con la vittima – connotazioni di minore lesivita’ sulla sfera psichica del minore tali da rendere applicabile, in ogni caso, l’attenuante speciale prevista dall’articolo 609 quater c.p., comma 4, (Sez. 3, n. 16616 del 25/03/2015 – dep. 21/04/2015, T, Rv. 263116).

Anche l’ultimo motivo di ricorso dev’essere pertanto rigettato.

12. L’impugnata sentenza dev’essere, conclusivamente, annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Napoli per la rideterminazione della pena in relazione a quanto dianzi esposto a proposito del terzo motivo, con rigetto nel resto, divenendo pertanto irrevocabile la statuizione relativa alla responsabilita’ penale del ricorrente per i fatti contestati.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Napoli; rigetta nel resto il ricorso.

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