Il retratto successorio

Suprema Corte di Cassazione

sezione II

sentenza 3 maggio 2016, n. 8692

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato in data 1 aprile 2003, G.L. e G.A. evocavano in giudizio D.M.L. e di V.L. assumendo di essere comproprietari, per successione ereditaria di Gi.Gu., deceduto il (omissis), della porzione di immobile sita in (omissis) , distinta in catasto al foglio 10, mappale 137 sub 3 e deducendo, altresì, che con atto del 15 aprile 2002 i coeredi Gi.Lu. , G.S. , G.G. , Senesi Maria e Senesi Giovanna avevano venduto ai convenuti la loro quota di 12/18 dell’immobile senza aver notificato la proposta di alienazione ad esse coeredi al fine dell’esercizio del diritto di prelazione. Chiedevano quindi che fosse dichiarato che alle medesime istanti spettasse il diritto di prelazione di cui all’art. 732 c.c..
Si costituivano i convenuti i quali chiedevano di essere autorizzati alla chiamata in causa dei venditori della porzione dell’immobile oggetto del retratto successorio affinché li garantissero per le somme da loro corrisposte a titolo di corrispettivo della compravendita; domandavano, altresì, di respingersi tutte le domande svolte nei loro confronti e di condannare i terzi, da chiamare in causa, in solido tra loro, al risarcimento del danno da quantificarsi in separato giudizio.
Autorizzata la chiamata in causa, i terzi non si costituivano.
A seguito di esperimento di consulenza tecnica il Tribunale di Verona respingeva le domande attrici.
Interponevano appello le attrici adducendo che il tribunale avesse errato nel ritenere che nella fattispecie non fosse applicabile la disciplina di cui al cit. art. 732 c.c., posto che l’immobile faceva parte della comunione ereditaria e che la vendita della quota parte dei coeredi aveva determinato il subentro nella comunione di soggetti estranei.
Si costituivano D.M. e V. che chiedevano il rigetto dell’appello e proponevano appello incidentale condizionato volto alla condanna degli appellati al risarcimento del danno nell’ipotesi di riforma della sentenza in senso favorevole alle appellanti.
La Corte di appello di Venezia, in riforma della sentenza impugnata, dichiarava che la quota di 6/18 dell’immobile oggetto di causa spettava alle appellanti. Riteneva che con l’atto di compravendita gli alienanti avessero inteso trasferire agli acquirenti una quota del patrimonio ereditario e fondava tale convincimento sul rilievo per cui dalla dichiarazione di successione emergeva che l’immobile era l’unico cespite di cui si componeva l’eredità di Gi.Gu. : a fronte di tale elemento presuntivo il giudice del gravame sottolineava come incombesse agli appellati dimostrare che la volontà dei contraenti fosse diretta al trasferimento del bene nella sua materialità, piuttosto che della quota ereditaria.
La sentenza è stata impugnata per cassazione da D.M. e V. con ricorso articolato in due motivi. Resistono con controricorso G.L. e A. , le quali hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

In via pregiudiziale le controricorrenti hanno eccepito che il ricorso si compone delle fotocopie degli atti della precedente fase di merito e non consentirebbe una immediata percezione delle pregresse vicende processuali.
L’eccezione va disattesa, dal momento che le riproduzioni sono precedute da parti espositive che riassumono il contenuto delle singole fasi processuali. Infatti, non viola il principio di autosufficienza, avuto riguardo alla complessità della controversia, il ricorso per cassazione confezionato mediante inserimento di copie fotostatiche o scannerizzate di atti relativi al giudizio di merito, qualora la riproduzione integrale di essi sia preceduta da una chiara sintesi dei punti rilevanti per la risoluzione della questione dedotta (Cass. S.U. 14 febbraio 2014, n. 4324).
Hanno inoltre lamentato le controricorrenti che il primo motivo di impugnazione si articolerebbe in una pluralità di distinte censure e che alcune di esse non concernerebbero la denunciata violazione di legge, quanto il vizio di motivazione.
Si osserva, sul punto, che, per un verso, il singolo motivo ben può articolarsi in distinte censure, tutte idonee a integrare la violazione lamentata e che, per altro verso, le censure basate sul disposto dell’art. 2697 c.c. sono dirette a criticare la sentenza sul piano del ritenuto mancato rispetto delle regole relative alla distribuzione dell’onere probatorio che fa carico alle parti del processo; è escluso, invece, che la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c. possa consentire la trattazione di vizi motivazionali della sentenza, posto che la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova è disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c. la cui erronea applicazione si traduce, appunto, nel vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. n. 20 giugno 2006, n. 14267).
Col primo motivo è denunciata violazione dell’art. 732 e dell’art. 2697 c.c.. Il motivo si compone di più censure. Secondo i ricorrenti la prima delle norme richiamate non era applicabile alla fattispecie in quanto le odierne controricorrenti non avevano chiarito se la porzione di immobile oggetto di controversia rappresentasse o meno l’intero asse ereditario relitto da Gi.Gu. ; l’atto di alienazione aveva in realtà ad oggetto un singolo bene ereditario, e non la quota ereditaria. D’altro canto, incombeva alla controparte di dimostrare la composizione dell’asse ereditario e, quindi, l’esclusione da tale compendio di beni, diritti o rapporti obbligatori diversi dall’immobile compravenduto. Sul punto rilevavano che nessuna prova poteva trarsi dalla dichiarazione di successione di Gi.Gu. e dalla nota di trascrizione della medesima. Inoltre i venditori S.G. , M. e Gi. non erano primi successori ma eredi di un coerede e il diritto di prelazione non era trasmissibile a favore, o nei confronti, dei successori a titolo universale del coerede. Aggiungono i ricorrenti che essi detenevano la quota maggioritaria dell’intero immobile e che tale evenienza escludeva l’applicabilità, al caso di specie, dell’art. 732 c.c.. Ancora: il diritto di prelazione intanto poteva configurarsi in quanto fosse in vita la comunione ereditaria, ma ciò era ad escludere allorquando la maggior parte degli elementi di ciascuna delle varie componenti dell’asse ereditario non si trovasse nello stato d’individuazione che risultava al momento dell’apertura della successione (e quindi, in particolare, allorquando fossero state eseguite le operazioni che avevano portato a far venir meno la comunione dei beni mobili, dei crediti e dei debiti ereditari).
Il motivo, nelle sue plurime articolazioni, non ha fondamento.
Deve osservarsi che i diritti di prelazione e di riscatto previsti dall’art. 732 c.c. in favore del coerede postulano che l’alienazione posta in essere da un altro coerede riguardi la quota ereditaria (o parte di essa), intesa come porzione ideale dell’universum ius defuncti, e vanno pertanto esclusi quando risulti che i contraenti non abbiano inteso sostituire il terzo all’erede nella comunione ereditaria e che l’oggetto del contratto sia stato considerato come cosa a sé stante, e non come quota del patrimonio ereditario o parametro per individuare la quota di detto patrimonio in quanto tale: in tal caso, data la mancanza nel coerede della titolarità esclusiva del diritto di proprietà sul singolo bene, l’efficacia della alienazione, con effetti puramente obbligatori, resta subordinata alla condizione della assegnazione, a seguito della divisione, del bene (o della sua quota parte) al coerede medesimo e quindi non può sorgere il pregiudizio (intromissione di estranei nella comunione ereditaria) che la norma in questione vuole evitare (Cass. 2 agosto 1990, n. 7749; Cass. 18 marzo 2002, n. 3945; Cass. 14 giugno 2002, n. 8571; Cass. 4 aprile 2003, n. 5320; nel senso che tale principio trova applicazione anche nel caso in cui sia alienata la quota indivisa di un bene ereditario: Cass. 22 gennaio 1985, n. 246; Cass. 15 giugno 1988, n. 4092).
Se, però, l’erede aliena ad un estraneo la quota indivisa dell’unico cespite ereditario, si presume l’alienazione della sua corrispondente quota, intesa come porzione ideale dell’universum ius defuncti, e perciò il coerede può esercitare il retratto successorio (art. 732 c.c.), salvo che il retrattato dimostri, in base ad elementi concreti della fattispecie ed instrinseci al contratto (volontà delle parti, scopo perseguito, consistenza del patrimonio ereditario e raffronto con l’entità dei beni venduti) con esclusione del comportamento del retraente, estraneo al contratto medesimo che, invece, la vendita aveva ad oggetto un bene a sé stante (Cass. 9 Cass. 4 aprile 2003, n. 5320; n. 22086; nel medesimo senso: n. 1852; Cass. 9 gennaio 2007, n. 215).
Ora, il primo motivo, laddove investe il profilo attinente al mancato assolvimento dell’onere probatorio circa la composizione dell’asse ereditario (e, quindi, il fatto che esso fosse costituito del solo immobile la cui quota è stata alienata) non si coniuga, nei suoi sviluppi argomentativi, con una violazione dell’art. 2697 c.c. e risulta, quindi, mal posto. Occorre precisare, al riguardo, che il giudice del gravame non ha esonerato le controricorrenti da una prova in tal senso, ma ha piuttosto ritenuto dimostrato che il cespite costituisse l’unica unità patrimoniale dell’eredità di Gi.Gu. , attribuendo valore probatorio alla dichiarazione di successione.
ricorrenti tenderebbero invece a contestare il rilievo di tale elemento probatorio: ma, così facendo, non considerano che una questione siffatta non è implicata dalle censure proposte (che hanno ad oggetto la violazione degli artt. 732 e 2697 c.c.). Peraltro, nemmeno una inespressa censura in punto di difetto di motivazione avrebbe consentito un riesame del materiale probatorio vagliato nelle precorse fasi del giudizio, visto che spetta, in via esclusiva, al giudice del merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, oltre che di controllarne l’attendibilità e la concludenza (per tutte: Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197).
Quanto precede porta, poi, a disattendere la censura incentrata sul rilievo che non vi sarebbe più comunione ereditaria allorquando si sia proceduto ad estromettere dalla comunione stessa i beni mobili, crediti e i debiti caduti in successione. Infatti, se come insindacabilmente accertato dalla corte territoriale – l’eredità si componeva del solo immobile oggetto della controversia, un problema di parziale liquidazione di distinte attività e passività patrimoniali dell’asse non può configurarsi. Si osserva, peraltro, che l’affermazione dei ricorrenti si pone su di un piano astratto, mancando il ricorso di alcuna circostanziata prospettazione con riguardo alla censura sollevata; e del resto – occorre aggiungere il tema dell’apprezzamento di elementi siffatti sfuggirebbe comunque al giudizio di legittimità, in assenza dell’articolazione di un motivo fondato sul vizio motivazionale (in particolare: sul mancato apprezzamento di fatti decisivi e controversi).
Accertato che l’immobile per cui è causa costituiva l’unico bene dell’asse ereditario, la corte distrettuale ha poi fatto corretta applicazione della regola che presiede alla distribuzione dell’onere probatorio con riferimento al diverso aspetto concernente l’oggetto effettivo dell’alienazione (se, cioè, la stessa concernesse la quota ereditaria o non, piuttosto, il singolo bene). Infatti, il giudice del gravame – uniformandosi alla giurisprudenza di questa Corte, che si è innanzi citata – ha ritenuto che solo la prova, da parte degli odierni ricorrenti, che la volontà espressa nel negozio di cessione fosse quella di trasferire il singolo bene, e non la quota, sarebbe stata idonea a vincere la presunzione di alienazione della quota ereditaria: prova che la corte ha negato sia stata fornita, ritenendo, anzi, che la precisa identità del bene ereditario (composto da due stanze di un piano dell’edificio) forniva un riscontro di segno opposto (e cioè la prova dell’intento di far subentrare D.M. e V. nella comunione ereditaria). Sul punto, è appena il caso di rilevare come l’indagine del giudice di merito diretta ad accertare, ai fini dell’ammissibilità del retratto successorio, se la vendita compiuta da un coerede abbia avuto per oggetto la quota ereditaria (o una sua frazione) ovvero beni determinati, costituisce un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. 4 gennaio 2011, n. 97): nella fattispecie – si ripete – la censura in punto di motivazione non è stata nemmeno formulata.
Quanto, poi, alla circostanza per cui S.G. , M. e Gi. non sarebbero primi successori, ma eredi di un coerede, si osserva quanto segue. Il diritto di prelazione tra coeredi, previsto dall’art. 732 c.c. per la durata della comunione ereditaria, integra un diritto personalissimo, contemplato in deroga al principio generale della libertà e dell’autonomia negoziale e della libera circolazione dei beni al solo fine di assicurare la persistenza e l’eventuale concentrazione della titolarità dei beni ereditari in capo ai primi successori, e, pertanto, non è trasmissibile, né attivamente né passivamente, a favore o nei confronti dei successori a titolo universale del coerede (Cass. 13 luglio 1983, n. 4777; cfr. pure Cass. 12 marzo 2010, n. 6142, in motivazione). Nel controricorso è spiegato che l’azione non era stata proposta nei confronti dei Senesi e la sentenza della Corte di appello dà atto, del resto, che G.A. e L. avevano esercitato il retratto nei soli confronti degli eredi diretti (pagg. 10 e 11). La pronuncia impugnata ha coerentemente accertato la spettanza del diritto di prelazione con riferimento alla quota di 6/18, e non a quella di 12/18, che è comprensiva della parte di eredità di cui, attraverso la successione alla madre G.G. , sono divenuti titolari i S. (e cioè coloro che, in quanto eredi della coerede, non sono esposti al retratto). La questione prospettata risulta essere dunque infondata.
Non coglie nel segno, da ultimo, la censura basata sul fatto che a seguito della compravendita del 15 aprile 2002 i ricorrenti sarebbero divenuti titolari di una quota maggioritaria dell’intero immobile (o meglio, del fabbricato in cui sono ubicati i locali oggetto di lite). Come ricordato da Cass. 12 marzo 2010, n. 6142, le finalità del diritto di prelazione e del diritto di retratto vanno ricondotte da un lato all’esigenza di assicurare la persistenza e l’eventuale concentrazione della titolarità dei beni comuni in capo ai primi successori (Cass. 13 luglio n. 1983 n. 4777; Cass. 22 ottobre 1992 n. 11551) e, dall’altro, a quella di facilitare tendenzialmente la formazione delle porzioni grazie alla concentrazione delle quote nei condividenti (Cass. 7 dicembre 2000 n. 15540). Ne discende che nessuna rilevanza possa assumere, nel quadro di una disciplina orientata nelle direzioni suddette, il fatto che parti più o meno estese dell’edificio ove è ubicata l’unità immobiliare caduta in successione appartengano allo stesso terzo che acquisti la quota ereditaria dai coeredi tenuti a rispettare il diritto di prelazione.
Col secondo mezzo di impugnazione è lamentata la violazione dell’art. 732 c.c.. La corte distrettuale aveva disatteso l’appello incidentale condizionato degli odierni ricorrenti (riferito alla pretesa risarcitoria fatta valere nei confronti dei venditori) assumendo che gli acquirenti avrebbero dovuto essere a conoscenza delle conseguenze del possibile esercizio del retratto successorio da parte delle coeredi. La corte di merito aveva però errato nel ritenere necessaria la detta conoscenza.
Questo motivo è fondato.
La domanda con la quale l’acquirente chieda all’alienante di garantirlo dalle conseguenze della pronuncia di riscatto va ricondotta alla fattispecie della garanzia per evizione, i cui effetti conseguono al mero fatto obiettivo della perdita del diritto acquistato, che, facendo venire meno la ragione giustificatrice della controprestazione, altera l’equilibrio del sinallagma funzionale e fa sorgere la necessità di porvi rimedio con il ripristino della situazione economica dell’acquirente anteriore all’acquisto. Ne consegue che, ai fini della responsabilità dell’alienante, è irrilevante che l’acquirente abbia avuto conoscenza della possibile causa dell’evizione (Cass. 2 aprile 1996, n. 3020 in tema di riscatto ex art. 38 l. n. 392/1978; Cass. 1 luglio 1988, n. 4389, in tema di riscatto agrario). La regola è coerente col principio per cui la garanzia per evizione opera indipendentemente dalla sussistenza della colpa del venditore o dalla buona fede dell’acquirente e, quindi, non è esclusa neppure dalla conoscenza, da parte del compratore, della possibile causa di futura evizione, ove la stessa effettivamente si verifichi (per tutte: Cass. 10 ottobre 2011, n. 20877).
Sul punto quindi la sentenza va cassata, con conseguente rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Venezia, la quale dovrà fare applicazione del principio appena enunciato. Alla stessa corte veneta è rimesso di statuire sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo, rigetta il primo;
cassa la sentenza con riferimento al motivo accolto e rinvia la causa ad altra sezione della Corte di appello di Venezia anche per le spese

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