Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 18 marzo 2016, n. 11595
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 9 maggio 2014 la Corte d’assise d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza emessa dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Trieste in data 4 novembre 2013, concessa a C.V. l’attenuante di cui all’art. 116 cod. pen. ed all’A. quella di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen., circostanze attenuanti dichiarate prevalenti, per entrambi, sulle contestate aggravanti, unitamente alle già riconosciute circostanze attenuanti generiche, determinava la pena inflitta a C.V. in quella di anni dieci mesi otto di reclusione e quella a carico di A.J. , in anni dieci di reclusione, oltre pene accessorie.
All’esito del rito abbreviato, in primo grado, era stata, di converso, inflitta dal Giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Trieste la pena di anni sedici di reclusione ciascuno, previo riconoscimento delle sole circostanze attenuanti generiche, stimate equivalenti alle contestate aggravanti.
A carico di entrambi si era proceduto per il concorso nei delitti aggravati di rapina e omicidio, in danno di B.A. .
L’omicidio, in particolare, era stato commesso all’interno dell’abitazione della donna, colpendo l’anziana vittima più volte e provocandone asfissia per strozzamento.
Il tutto al fine di impossessarsi di diversi oggetti, sottratti all’interno dell’abitazione.
1.1. I fatti nella ricostruzione giudiziaria.
Il 7 novembre 2000 P.N. richiedeva intervento delle forze dell’ordine avendo rinvenuto, privo di vita, il corpo della madre all’interno della sua abitazione in (omissis) . La casa era a soqquadro; le luci erano accese e l’anziana donna giaceva in camera da letto. La vittima presentava numerose ecchimosi ed abrasioni al collo. Si appurava che il decesso era avvenuto a seguito di asfissia da strozzamento e che erano presenti segni di più colpi, inferti con pugni o con corpo contundente.
Erano rilevate alcune impronte papillari sulla scena del delitto e sul campanello dell’abitazione.
Inizialmente erano sottoposti ad indagini P.N. , il figlio della donna e la sua convivente. Entrambi erano successivamente prosciolti.
Acquisizioni scientifiche postume permettevano di appurare (come da nota del 12.7.2012 del gabinetto di polizia scientifica di Padova) che l’impronta, rilevata sul campanello d’ingresso dell’abitazione, apparteneva a C.V. .
Erano disposte intercettazioni e, dopo la pubblicazione sui quotidiani della notizia relativa alla riapertura delle indagini erano acquisiti una serie di commenti che permettevano di tracciare un quadro di gravità indiziaria a carico sia della indicata C. , che dell’A.J. , altro soggetto medio tempore identificato e che all’epoca frequentava la donna.
Attinti da titolo cautelare, erano ascoltati in più occasioni e ciascuno, pur ridimensionando il suo contributo al fatto ed attribuendo al concorrente la responsabilità della parte più grave di condotta, finiva, tuttavia, per ammettere la partecipazione al delitto.
All’esito dei giudizi di merito erano assunte le statuizioni in epigrafe indicate e la Corte d’assise d’appello, riconosceva alla C. la circostanza attenuante di cui all’art. 116 cod. pen. ed all’A. quella di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. ritenendole prevalenti sulle contestate aggravanti e rideterminando la pena nei termini già riportati.
2. Avverso detta decisione ricorre per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Trieste. Quattro i motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo censura il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 116 cod. pen. in favore di C.V. e la mancanza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione sul punto.
In particolare si evidenzia che i giudici della Corte d’Assise d’appello avevano affermato che gli imputati avessero messo in conto l’uso della violenza. La prima ad averla esercitata sulla vittima era stata proprio l’imputata, che aveva colpito l’anziana donna con un pugno. Chi fosse stato l’esecutore materiale del soffocamento era elemento irrilevante, poiché l’altro soggetto non aveva fatto nulla, per far desistere il concorrente, né per soccorrere la donna (fl. 32).
La Corte d’Assise d’appello aveva, in prima battuta, richiamato l’argomento del Giudice per l’udienza preliminare – secondo cui non avrebbe avuto rilevanza distinguere chi avesse materialmente eseguito il soffocamento (fl. 36) -. Aveva, ancora, indicato gli elementi che inducevano a ritenere la larga inattendibilità delle dichiarazioni degli imputati. In maniera, contraddittoria, di converso, dopo poco, aveva affermato di dover valutare sul piano processuale le conclusioni che si sarebbero dovute ritrarre dalle dichiarazioni degli imputati stessi (fl. 38). Sul riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 116 cod. pen. erano state addotte, a giudizio del ricorrente, motivazioni apparenti.
In primo luogo era stata richiamata la personalità dell’imputata, palesemente pressata dalla necessità di procurarsi lo stupefacente e nella condizione, dunque, di non riflettere.
Si censura, dunque, la genericità dell’argomento, sottolineandone l’idoneità ad attagliarsi anche al coimputato, condannato per omicidio. Il punto era, osserva il ricorrente, in aperto contrasto ed in contraddizione con quanto asserito dalla stessa Corte, che aveva ritenuto entrambi gli imputati, comunque, capaci di decidere e di pianificare una rapina ai danni della B. (fl. 31 e 32).
Il secondo argomento richiamato, a sostegno dell’intervenuto riconoscimento dell’attenuante, afferisce le circostanze ambientali in cui si è svolta l’azione.
La rapina avrebbe, in sostanza, avuto uno sviluppo quasi istantaneo (fl. 38). Questa ricostruzione, si lamenta, è incompatibile con dati di fatto pacifici, emersi durante il processo ed in particolare con quelli ricavabili dall’elemento obiettivo che gli imputati avevano rovistato in tutte le stanze dell’appartamento.
Quello scritto risulta un comportamento, a giudizio del ricorrente, che postulava innanzitutto certezza in via logica sulla mancanza di reazione da parte della vittima. L’età della donna, ancora, avrebbe indotto chiunque a ritenere che ogni violenza esercitata potesse metterne in pericolo la vita.
Osserva ancora il ricorrente che l’azione delittuosa si era svolta in un doppio momento. Il primo si era concretizzato nell’atterramento dell’anziana donna nell’ingresso dell’abitazione; il secondo era consistito nel trasporto in camera da letto.
La parte lesa non era stata, né legata, né imbavagliata; piuttosto, la C. aveva visto che la porta della camera da letto non era stata chiusa.
Dalla sequenza di elementi siffatti, ammesso per ipotesi che la C. stessa non fosse entrata in camera da letto, non si sarebbe potuto inferire che la concorrente non avesse ascoltato la violenza dei colpi inferti ed i tentativi di difesa dell’anziana vittima.
Questo atteggiamento realizzava, a suo carico, il concorso ex art. 110 cod. pen..
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si censura la simultanea applicazione dell’art. 116 cod. pen. e del regime della continuazione in favore della C. .
Il riconoscimento del vincolo della continuazione tra il delitto di omicidio e quello di rapina, si osserva, è immotivato oltre che errato. In caso di concorso anomalo nel reato il riconoscimento della diminuente a chi volle il reato meno grave esclude che si possa contestualmente applicare in suo favore il regime della continuazione tra i reati, poiché il concorso anomalo è preclusivo della simultanea sussistenza di una previa programmazione unitaria dei fatti criminosi.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione al riconoscimento in favore dell’A. della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen..
Il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Trieste in primo grado aveva riconosciuto le circostanze attenuanti generiche anche in ragione dell’intervenuto, sia pur parziale, ristoro del danno. La Corte d’Assise d’appello, al contrario, aveva riconosciuto l’ulteriore elemento circostanziale.
Deduce il ricorrente che il motivo d’appello sul punto avanzato dalla difesa era generico ed avrebbe dovuto indurre declaratoria di inammissibilità, non avendo indicato l’appellante stesso il profilo dell’ammontare del danno e dell’integrale ristoro. L’allegazione di quei dati cedeva a carico della parte, che aveva onere di introdurli a sostegno del riconoscimento dell’elemento circostanziale, che invocava con il motivo di gravame.
Ancora, si obietta, che era stata la stessa Corte d’Assise d’appello ad avere evidenziato che il valore del bene ceduto, evidentemente, non copriva il danno prodotto dal reato. La circostanza che non potesse esserne esattamente individuata la posta ed il valore (alla luce della particolarità del caso e stante la mancata costituzione di parte civile) non era elemento, a giudizio della Corte, che si poteva tradurre in un danno per l’imputato.
Gli argomenti indicati sono stati egualmente sottoposti a critica nel motivo di ricorso. Si è essenzialmente obiettato che la difficoltà di valutare l’entità del risarcimento non avrebbe autorizzato il giudice a sottrarsi al dovere di farlo, poiché nella pratica giudiziaria esistono i criteri per operare una determinazione realistica. In particolare la vedova dell’unico figlio della vittima sarebbe dovuta essere risarcita del danno non patrimoniale iure ereditario. Per determinare quanto dovuto al P.N. , figlio della vittima – ed a sua volta deceduto sarebbe stato sufficiente fare riferimento alle tabelle del tribunale di Milano. Ancora, l’impossibilità di attribuire un valore certo all’immobile ceduto era dovuta al mancato assolvimento da parte della difesa del relativo onere probatorio, erroneamente non rilevato dalla Corte d’Assise d’appello.
La sproporzione tra il valore dell’immobile e l’entità del risarcimento era direttamente ricavabile dall’atto di transazione del 22.7.2013, su cui la Corte stessa non aveva motivato. Il documento, trascritto per estratto in ricorso, enucleava tutti gli elementi per indicare il valore del bene (vani catastali, 1, valore 8.135,00 Euro; m/q 16).
In questo caso il dubbio avrebbe al più imposto stima ed una perizia, atto, contrariamente, omesso.
Si denuncia, pertanto, la violazione dell’art. 606 comma 3 cod. proc. pen..
Il risarcimento del danno sarebbe dovuto essere intergale e la circostanza invocata non era, pertanto, concedibile all’A. .
2.4 Con il quarto motivo di ricorso si censura il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti per entrambi gli imputati e la mancanza, contraddittorietà ed illogicità manifesta della motivazione, oltre l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 597 comma 3 e 4 cod. proc. pen..
Con un automatismo e con una motivazione apparente, osserva il ricorrente, si era in sostanza modificato il precedente giudizio di comparazione, eseguito in primo grado, che aveva indotto quel giudice a ritenere equivalenti le circostanze attenuanti generiche alle contestate aggravanti. Del resto la Corte d’assise d’appello aveva snaturato il giudizio di comparazione e non aveva motivato sulle ragioni della riconosciuta prevalenza. Inadeguato ed insufficiente era il mero richiamo ad un’attenuante ulteriore per entrambi gli imputati. Ciò perché anche riconoscendo quelle circostanze si sarebbe potuto comunque – e senza violare il divieto di reformatio in peius, restare fermi al giudizio di equivalenza già espresso in primo grado.
Il giudizio di prevalenza cui era, tuttavia, giunta la Corte d’Assise d’appello era contraddittorio con le premesse svolte dagli stessi giudici di secondo grado. In particolare, dopo aver dato atto di una serie di comportamenti che in astratto sarebbero stati incompatibili con il mutamento dello stile di vita, si era raggiunta la conclusione opposta nella formulazione del giudizio di comparazione.
Per l’A. si era indicato come costui avesse cercato di coinvolgere una sua ragazza dell’epoca, affinché gli fornisse un alibi; avesse, poi, cercato di addossare la responsabilità ad un ex ragazzo della C. , che era deceduto; avesse cercato, mentre era detenuto, altri alibi, stimolando i familiari ed il padre in particolare.
La C. non aveva, dal suo canto, esitato a manifestare la sua aggressività con il compagno, legata alla necessità di far tacere l’A. ; ancora, emersa la notizia sulla riapertura delle indagini, si era appreso dalle intercettazioni come ella fosse ancora interna al circuito degli stupefacenti.
Entrambi avevano, poi, riportato altre condanne per delitti.
La donna per favoreggiamento e tentata rapina nell’anno 2007 e l’A. per resistenza e lesioni nell’anno 2003.
Dopo aver indicato la stessa Corte che era rimasto nelle mere allegazioni difensive il fatto che gli imputati avessero preso coscienza della gravità dei fatti aveva, tuttavia, concluso che il riconoscimento di un’ulteriore attenuante bastava ad indurre il giudizio di prevalenza.
Si è chiesto annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
3. Nell’interesse di A.J. è stata depositata in data 25.11.2015 memoria difensiva.
Si osserva che la Procura generale deduce che la Corte d’assise d’appello avrebbe errato nel non rilevare l’inammissibilità del motivo di appello presentato nell’interesse dell’A. e relativo al mancato riconoscimento da parte del Giudice per l’udienza preliminare della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen..
Si richiede il rigetto del ricorso nella parte relativa.
Nel merito ed in concreto si ribadisce che il motivo di ricorso presentato risulterebbe finalizzato a sostituire in fatto una valutazione da parte della Suprema Corte a quella che è stata svolta nel giudizio di merito. La Corte ha indicato i criteri cui ha ancorato la concessione della circostanza attenuante ed ha spiegato che la difficoltà di determinare l’entità del danno liquidabile, oltre che la congruità del risarcimento, non si sarebbe potuta tradurre in un effetto negativo per l’imputato. Unico soggetto effettivamente legittimato a interloquire sul risarcimento era la O.R.A. che aveva sottoscritto una transazione, assistita dal suo legale e redatta per atto notarile, con rinuncia a qualsiasi ulteriore pretesa.
Nella specie si era trattato ad ogni effetto di una cessio bonorum e l’imputato si era anche accollato le spese del trasferimento. La motivazione a sostegno della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. era incensurabile. Ancora era infondato il ricorso per la parte relativa al riconoscimento del giudizio di prevalenza delle circostanze sulle aggravanti. La valutazione operata dai giudici della Corte d’Assise era adeguatamente motivata e legata ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen..
Osserva in diritto
1. Il ricorso è fondato e va accolto per quanto si passa ad esporre.
1.1. Seguendo l’ordine di proposizione dei motivi deve essere esaminato, in via preliminare, il tema della qualificazione giuridica del concorso della C. , in ragione del riconoscimento in suo favore della circostanza di cui all’art. 116 cod. pen..
La Corte d’assise d’appello ha, infatti, ritenuto di recuperarne il contributo all’istituto del cd. concorso anomalo ed ha riconosciuto l’attenuante prevista per il concorrente che volle il reato meno grave.
1.1.2. I confini dell’art. 116 cod. pen. e il rapporto con la partecipazione punibile ex art. 110 cod. pen..
È il nucleo centrale della questione giuridica prospettata con il primo motivo di ricorso.
La fattispecie disciplinata dall’art. 116 cod. pen. nella sua formulazione letterale propone un istituto rigorosamente ancorato alla concezione causale del concorso di persone nel reato. Quel principio ne enuclea, indubbiamente, il fondamento; ciò, tuttavia, non significa che la volontà e l’atteggiamento psicologico, nell’istituto de quo, siano recessivi e non assumano portata egualmente determinante ai fini della delimitazione degli ambiti di responsabilità dei singoli concorrenti.
L’art. 116 cod. pen. – che non contempla un’ipotesi di pura responsabilità oggettiva-postula che l’evento più grave debba essere voluto da almeno uno dei concorrenti.
La norma incentra la costruzione strutturale del paradigma sulla realizzazione di un “reato diverso”. È un sintagma “aperto” che risulta idoneo ad includere i fatti legati da una relazione specifica tra il delitto eseguito e quello, di converso ed effettivamente, voluto da uno dei partecipi.
Deve, innanzitutto, osservarsi che, allorquando il reato “diverso” rappresenti il mezzo o la modalità di esecuzione necessaria, per il conseguimento del risultato collettivamente voluto, esso finisce per rientrare ex se nel programma obiettivo comune. In questi casi non sembra che residui spazio concreto per pensare all’applicazione dell’ad 116 cod. pen.. Ciò accade in tutte le ipotesi in cui il reato “diverso” si pone in un nesso “relazionale” specifico rispetto al piano comune, con crismi di tale connessione strumentale o teleologica, che lo fanno assurgere a “mezzo commissivo esclusivo” dell’ulteriore delitto programmato. In questi casi il concorso si qualifica attraverso la fattispecie di cui all’ad 110 cod. pen., poiché l’adesione all’azione collettiva porta con sé necessariamente la previsione e l’accettazione della modalità d’attuazione dell’iter criminis comune e, dunque, del delitto accessorio ed ulteriore attraverso cui la condotta collettiva deve necessariamente passare per conseguire l’obiettivo finale dell’azione concordata.
In questi casi il dolo della partecipazione attrae il dinamismo obiettivo dell’azione, che concretizza l’esecuzione del programma comune e si estende alla necessaria pluralità di fattispecie.
Si è, piuttosto, al cospetto di un “reato diverso” allorquando rilevino fattispecie collegate da un nesso di pura eventualità a quella da realizzare o che siano in possibile e consequenziale sviluppo di essa, anche avuto riguardo alla natura dei beni giuridici messi in pericolo o lesi.
In questi casi il vincolo relazionale tra fattispecie non è retto da nessi di collegamento necessari ed il reato ulteriore e diverso accede al programma comune, si è detto, con carattere di pura eventualità.
In questo ambito va enucleata l’ipotesi in cui il reato diverso sia frutto di eventi o fattori del tutto eccezionali ed atipici.
È pacifico che in questi casi si interrompa lo stesso vincolo concausale ed il verificarsi del fatto “non voluto dal concorrente” è mosso da un’eziologia disancorata dall’azione collettiva, tale da risalire e collegarsi o al solo gesto di colui che ne risulti autore ovvero al distinto fattore estraneo che lo produce (Cass. 10.11.2006, n. 40156, Rv. 23544; per un rapporto di pura occasionalità, tale ex se da escludere il nesso di causalità, Sez. 2, sentenza n. 3167 del 28/10/2013 Ud. (dep. 23/01/2014) Rv. 258604, Sorrenti).
Là dove ciò non accada e la causalità collettiva esprima, piuttosto, un determinismo eziologico nella dinamica lesiva del bene protetto è il contenuto della posizione subiettiva ad orientare nella qualificazione del concorso a carico del partecipe.
Perché ricorra concorso anomalo è richiesto un logico sviluppo e la prevedibilità in concreto, come possibile epilogo rispetto al fatto programmato, del delitto diverso.
Si deve, tuttavia, trattare di un evento voluto, con dolo diretto o indiretto almeno da taluno dei concorrenti e di un risultato causalmente legato all’azione plurisoggettiva.
La ratio del meccanismo d’imputazione estensiva è evidente.
Se si agisce in gruppo si aderisce alle conseguenze che sono legate, in fatto, in un logico e naturale divenire, all’azione programmata.
Si tratta di conseguenze che, pur non volute direttamente dal singolo agente sono, comunque, annesse all’azione oggetto di programmazione.
Là dove si programmi un delitto che rientra nell’ambito di un’azione violenta orientata alla persona la progressione e la degenerazione nell’evento lesivo maggiore o, addirittura, nella morte è ipotesi plausibile.
Ciò perché la stessa aggressione al bene materiale (integrità fisica), che si è accettato di mettere in discussione, può naturalmente progredire verso una lesività di maggiore intensità, nel perimetro di un bene giuridico omogeneo.
Il nucleo differenziale, per ritenere integrato a carico del concorrente, dunque, il cd concorso anomalo ex art. 116 cod. pen., si incentra sulla particolarità che costui non abbia voluto, neppure nella forma del dolo indiretto l’evento ulteriore. Diversamente il titolo di imputazione è l’art. 110 cod. pen..
L’istituto del concorso anomalo richiede una “prevedibilità” da scrutinare alla luce di tutti gli elementi disponibili.
La stesso concetto non va, tuttavia, sovrapposto a quello di “previsione dell’evento”o di sua “accettazione”.
La ricorrenza dell’uno e dell’altro, si ribadisce, aprirebbe già all’imputazione dolosa diretta o indiretta, cui è funzionale l’art. 110 cod. pen. (ex plurimis, Cass. 10.01.2006, n. 8837, Rv. 233580).
Significa, piuttosto, rappresentabilità che va ponderata in ragione della specifica natura dell’azione in essere.
Da ciò deriva che la prevedibilità di una conseguenza è strettamente collegata alla forma di manifestazione del reato. Soprattutto, al cospetto di un’azione collettiva, si dilata l’onere di previsione a carico dell’aderente al progetto comune, per le possibili iniziative e le varianti individuali che possono essere indotte da taluno dei concorrenti al progetto condiviso.
In questo senso, ancora, si è affermato che si configura il concorso anomalo ex art. 116 cod. pen. nel caso in cui l’agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza (Sez. 3, sentenza n. 44266 del 3/04/2013 Ud. (dep.31/10/2013) Rv. 257614, De Luca; richiedono un nesso causale e psicologico, tra la condotta del soggetto che ha voluto soltanto il reato meno grave e l’evento diverso, Sez. 5, Sentenza n. 34036 del 18/06/2013 Ud. (dep.06/08/2013) Rv. 257251, Malgeri ed altri).
1.2. Ciò posto in diritto, si deve osservare come nel caso di specie la Corte d’assise d’appello ammetta che fu, innanzitutto, la C. a colpire l’anziana donna.
La conclusione è tratta non solo da quanto risulta abbia detto l‘A. . Il particolare, piuttosto, è direttamente documentato dall’intercettazione che l’imputata intrattenne con il compagno, M. , al quale aveva confessato proprio quel gesto (cfr fl. 31 della sentenza impugnata).
Ancora il giudice a quo ammette pacificamente che l’uso della violenza era stato messo in conto da parte di entrambi i concorrenti, sin dal momento in cui avevano deciso di suonare alla B. . È la stessa Corte d’assise d’appello a dare le coordinate fattuali che indirizzano in quella ricostruzione, tracciando e sottolineando i referenti storici a fondamento della conclusione. In questa direttrice si è inteso valorizzare la richiamata circostanza che il delitto era stato commesso in pieno giorno, in uno stabile occupato da studi professionali, allocato in una via centrale di Trieste, di tal che una possibile reazione della vittima sarebbe stata eventualità da prendere in considerazione immediata.
D’altro canto, si è anche annotato come la stessa C. , durante il colloquio captato, avesse fatto un riferimento espresso alla rapina e come le argomentazioni volte a sminuire il significato di quel lessico si scontrassero con l’obiettiva dinamica evolutiva dei fatti e con la presenza dell’anziana donna in casa.
Questo particolare era, infatti, noto ai concorrenti ed entrambi si sarebbero dovuti confrontare con la vittima stessa, dopo aver suonato il campanello. Da ciò correttamente la Corte d’assise d’appello, con giudizio improntato a rigore logico, ha escluso di poter recuperare il programma delittuoso – base al furto.
In questa prospettiva, del resto, è stata correttamente valorizzata l’azione violenta che in immediato risaliva alla stessa C. . Costei, al cospetto della B. , sferrava direttamente e senza esitazione un pugno all’anziana vittima.
La lettura del titolo impugnato, ancora, dà conto del particolare che l’operazione di soffocamento come indicato dai medici legali non fu istantanea e che in quella congiuntura vi fu addirittura un tentativo strenuo di difesa da parte della vittima, come documentato dalle lesioni riportate.
Da premesse siffatte si intende, allora, come la conclusione assunta (fl. 39), a fondamento del riconoscimento dell’art. 116 cod. pen., secondo cui la C. non avesse la forza né l’indole per commettere il delitto, degenera nella pura illazione e non trova supporto probatorio diretto in alcuno dei dati processuali acquisiti o richiamati in sentenza.
Anzi è una conclusione in relazione alla quale si palesa il vizio di contraddittorietà testuale con quanto premesso dalla stessa Corte d’assise d’appello.
Invero si legge nel provvedimento impugnato che la qualificazione della responsabilità penale dell’imputata è questione che si sovrapporrebbe al tema parallelo “di quanto le si possa credere”.
A questo interrogativo è, tuttavia, la stessa Corte d’assise d’appello a dare risposta negativa, riducendone la credibilità dell’imputata “davvero a poco”.
Sulla scorta di queste premesse si finisce per riconoscere il concorso anomalo prefigurando che la donna stessa non abbia voluto il delitto più grave e postulandone la realizzazione in capo al solo A. . Il giudizio finisce per applicare un criterio d’imputazione del reato diverso sulla scorta d’una valutazione puramente astratta e disancorata dai dati concreti. Il giudizio sulla prevedibilità è, di converso, strettamente concreto e va operato enucleando i particolari che, in fatto, inducano ad escludere la rappresentazione diretta e l’accettazione dell’evento più grave come conseguenza dell’agire collettivo. In questo caso si verserebbe nell’ambito del concorso ex art. 110 cod. pen..
Ebbene nel caso di specie la conclusione cui si giunge nel provvedimento impugnato è priva di supporto dimostrativo materiale e, soprattutto, di coerenza logico-giuridica. Essa risulta in contrasto con le premesse che in fatto sono poste dalla decisione stessa. È una conclusione non assistita, per altro verso, da motivazione specifica ed adeguata.
La ricostruzione del fatto e del dinamismo lesivo che si ritrae dai titoli di merito è pacifica ed è stata già descritta.
Si intende come il delitto di rapina sia stato programmato e la donna sia stata, con tutta probabilità, seguita già mentre saliva le scale e faceva rientro presso l’abitazione, dopo aver consumato, come d’abitudine, una bevanda presso il bar. La C. aveva bussato al campanello ed aveva colpito l’anziana donna. Sul seguito vi era contrasto tra le dichiarazioni rese dai due compartecipi.
Già gli elementi tracciati aprirebbero ad una naturale rappresentazione ed accettazione dell’evento maggiore in termini di dolo indiretto, ammesso che la donna non fosse stata l’autrice del soffocamento.
Alla luce, del testo, motivazionale non si comprende, invero, come la C. non si fosse rappresentata e non avesse accettato, nella forma del dolo eventuale l’evento maggiore e più grave. Sul punto non v’è motivazione e ciò nonostante la donna fosse colei che era passata per prima all’azione violenta, colpendo l’anziana vittima.
Il dinamismo violento successivo – per naturale e logica ricostruzione degli eventi, di cui danno atto gli stessi giudici del merito – aveva avuto, ancora, una durata apprezzabile. Non si era affatto risolto nel gesto iniziale isolato del colpo sferrato dalla C. .
Annota la decisione impugnata, piuttosto, che l’esito lesivo indotto dall’azione d’antagonismo fisico verso la vittima avesse procurato la morte per asfissia. Si erano, altresì, prodotte diverse lesioni aggiuntive che documentavano un agire violento prolungato, con un verosimile tentativo di difesa da parte della persona offesa.
Di ciò si dà atto attraverso il richiamo alla consulenza medico legale.
Si intende, allora, come in una progressione violenta di tal fatta, che si dipanava in una congiuntura materiale in cui entrambi i concorrenti erano presenti in casa non risponde a crisma logico l’ipotesi operata nella sentenza impugnata, secondo cui uno dei due partecipi non avesse cognizione o possibilità di rappresentarsi (e, dunque, di accettare) il risultato lesivo maggiore che sarebbe derivato dal dispiegarsi della violenza. Anzi, la caratteristica prolungata dell’azione di forza, avuto riguardo all’età della vittima ed alle condizioni materiali richiamate in sentenza ed alla coeva presenza dei concorrenti in casa avrebbe generato rappresentazione e accettazione dell’evento più grave, che si sarebbe profilato come realistico, secondo il naturale divenire dei fatti.
Ciò proprio alla luce del particolare di cui danno atto gli stessi giudici del merito che la porta della camera da letto, ove si sarebbe svolta l’aggressione, era aperta.
Si comprende, allora, come il tracciato motivazionale dispiegato in parte qua e la determinazione di riconoscere il concorso anomalo alla C. non sia conforme ai principi di diritto sopra enucleati.
Il profilo di contraddittorietà impone sul punto annullamento della decisione impugnata nei confronti della C. , con rinvio per nuovo giudizio e valutazione.
2. Venendo all’esame del secondo motivo di ricorso deve osservarsi come l’annullamento in relazione alla riconosciuta forma concorsuale attenuata di cui all’art. 116 cod. pen. assorbe anche il motivo, peraltro egualmente fondato, sulla incompatibilità tra il riconoscimento dell’attenuante stessa (del reato diverso e più grave rispetto a quello voluto) e l’istituto della continuazione.
Si tratta, infatti, di categorie che risultano concettualmente incompatibili, postulando l’una la mancanza di “volontà diretta” e l’altra la massima espressione del contributo volitivo che si traduce, appunto, in una programmazione della pluralità di delitti per il conseguimento di uno scopo finalistico unitario.
3. È fondato anche il terzo motivo di ricorso sviluppato ed articolato per la posizione dell’A.J. .
Censura il ricorrente il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen..
La sentenza impugnata, anche sul punto, risulta non fare corretta applicazione degli stessi principi giurisprudenziali che richiama a fondamento dell’elemento circostanziale ed incorre nel vizio di contraddittorietà.
Si esclude, invero, la possibilità di applicare la circostanza nella forma della cd. attenuazione o elisione delle conseguenze del reato, trattandosi di un delitto di omicidio, al cospetto del quale il danno è di per sé irreparabile.
Piuttosto si ritiene applicabile la prima delle due forme circostanziali, relativa alla riparazione del danno.
Si premette, sul punto, che il danno non sia stato mai determinato e che, pur considerando tutti gli eventi a latere creditoris (dal decesso dell’erede, figlio della vittima al sub-ingresso della moglie di costui nei diritti successori) il valore del bene ceduto non avrebbe coperto integralmente la posta risarcibile.
Ebbene, a fronte di affermazione siffatta il riconoscimento dell’attenuante in parola risulterebbe già in contrasto con la richiamata giurisprudenza di questa Corte che richiede la riparazione integrale del danno per l’operatività della circostanza di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen..
Né valgono a superare la contraddizione gli argomenti ulteriori che si enucleano nella parte motiva.
Da un lato si assume che la mancanza di certezza sul danno risarcibile nel quantum debeatur non si potrebbe risolvere in un pregiudizio per l’imputato. Dall’altro, che la differenziazione nel trattamento penale di favore non può essere basata sulla diversità di condizioni economiche.
Nella specie la cessio bonorum realizzata (con alienazione dell’unico bene di cui poteva disporre l’A. ) ammetteva il riconoscimento della circostanza attenuante in questione, proprio per evitare che le condizioni patrimoniali potessero assumere un ruolo discriminatorio tra imputati abbienti e non.
Il ragionamento svolto è in aperto contrasto con i principi di diritto affermati da questa Corte.
Si ritiene in maniera consolidata che ai fini dell’applicazione della circostanza in esame il risarcimento debba essere integrale e che non sia sufficiente il puro ravvedimento (Sez. H 24/017201, n. 9143, Rv 254880; Sez. II 13/05/2010, n. 21014, Rv 247121).
Ciò, d’altro canto, perché le due circostanze attenuanti del reato contenute nell’art. 62, n. 6, cod. pen. (riparazione totale del danno e ravvedimento operoso) hanno sfere di applicazione generalmente autonome.
La prima è, infatti, correlata al danno inteso in senso civilistico, e cioè alla lesione patrimoniale o anche non patrimoniale, ma economicamente risarcibile; l’altra si collega, invece, al danno cosiddetto criminale, cioè alle conseguenze, diverse dal pregiudizio economicamente risarcibile, che intimamente ineriscono alla lesione o al pericolo di lesione del bene giuridico tutelato dalla norma penale violata (Sez. 3, n. 31841 del 02/04/2012 Rv 260290).
Lo scopo della previsione, nella parte in cui richiede una riparazione integrale è connesso alla caratteristica intrinseca e strutturale della prestazione risarcitoria. Essa si misura sul danno risarcibile che va determinato in via primaria attraverso l’applicazione del principio di causalità, derivando l’obbligazione risarcitoria come conseguenza immediata e diretta dal fatto illecito-delittuoso. A fondamento dell’obbligo risarcitorio ed in funzione della sua delimitazione obiettiva, da intendere come ripristino patrimoniale per la violazione dell’altrui sfera giuridica, v’è la regola dell’effettività del danno. Esso si deve adeguare alla lesione patita e deve assicurare all’avente diritto di ricevere né più, né meno dell’effetto economico negativo indotto dall’azione illecita (artt. 1223 e ss c.c.). A regola siffatta si affianca quella che governa la garanzia patrimoniale, secondo cui il debitore risponde delle sue obbligazioni con tutto il patrimonio presente e futuro (art. 2740 cod. civ.).
Da quanto premesso, si comprende la ragione per la quale la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. prima ipotesi preveda che il risarcimento, perché possa rilevare in funzione del trattamento di favore, debba essere integrale.
La ratio della circostanza non è incentrata sulla sola iniziativa dell’autore del fatto e sulle sue capacità economiche; essa piuttosto pondera positivamente quell’iniziativa valorizzandone, tuttavia, in un’ottica di “mediazione penale”, la funzione riparatoria ed il ripristino integrale dell’altrui sfera, che risulta violata dall’illecito penale.
La condotta ed il cd. ravvedimento dell’autore che risarcisca il danno (cui sarebbe già tenuto de iure civili) rileva in funzione penale solo nel concorso del duplice presupposto che sia stata posta in essere un’azione di riparazione del danno e che esso sia stato integralmente risarcito.
Né il tema dell’intera riparazione del danno come elemento che condiziona il riconoscimento della circostanza attenuante è idoneo a creare situazioni di disparità di trattamento tra soggetti abbienti e meno abbienti, permettendo solo ai primi di fruire di un beneficio e di un trattamento penale di favore che, di converso, i secondi non possono invocare non avendo le condizioni per risarcire il pregiudizio.
La questione è stata affrontata anche dalla Corte costituzionale che ne ha disatteso la prospettazione dichiarandola infondata (Sentenza 4 dicembre 1964 n. 111/64 Deposito in cancelleria: 11 dicembre 1964).
Deve, d’altro canto, osservarsi come il risarcimento del danno sia obbligo che discende dal reato e, dunque, da una condotta volontaria, personale e colpevole dell’autore, che lo vede obbligato a riparare le conseguenze civili. La circostanza che sia o meno in grado di farlo, per le sue condizioni economiche non genera disparità, perché il nucleo del trattamento di favore nella circostanza attenuante in esame non sta solo nel ravvedimento dell’autore del fatto, ma nella necessità che esso si risolva in una effettiva ed integrale riparazione patrimoniale della sfera della vittima.
Non è, dunque, discriminatorio né irragionevole costituzionalmente che il legislatore assegni proprio al conseguimento di quel risultato un trattamento di favore maggiore. Ciò accade per il ripristino patrimoniale che il risarcimento induce nella sfera della vittima. Il solo aspetto legato al ravvedimento o al risarcimento parziale non opera nella stessa direzione, poiché non genera, a fronte di una condotta lesiva, volontaria e colpevole, una riparazione integrale degli interessi civili della parte lesa, riparazione doverosa, secondo il principio di necessaria imputazione causale. La condotta parziale può ben rilevare ad altri fini (riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche o in funzione delle determinazioni ex art. 133 cod. pen.) ma non assume valenza in relazione all’estensione dell’ad 62 n. 6 cod. pen. prima ipotesi che è norma caratterizzata da un tratto specializzante autonomo che ne segna rigorosamente l’ambito di applicazione.
Deve, alla luce di quanto premesso, accogliersi il motivo di ricorso con la conseguenza che nella fattispecie vanno ritenute non sussistenti le condizioni per il riconoscimento della circostanza attenuante in questione.
A prescindere dall’esatta quantificazione del danno prodotto dal reato la circostanza attenuante non era riconoscibile, poiché in ragione del tipo di gesto lesivo il valore del bene trasferito è di tale esiguità che la stessa Corte d’assise d’appello, svolgendo una valutazione probabilistica, lo aveva stimato inidoneo a coprire la posta risarcitoria. La transazione, d’altro canto, indica espressamente che si tratta di una concessione fatta a parziale risarcimento del danno (art. 1) e che sulla scorta della rendita catastale si sviluppa un valore di appena euro 8.135,00.
Anche il richiamo alla cessio bonorum non vale ad indurre una conclusione diversa, poiché si torna al profilo inerente la valutazione del comportamento del colpevole del reato aspetto che, tuttavia, non è sufficiente a legittimare l’applicazione della circostanza in esame, postulando essa oltre all’iniziativa risarcitoria anche la riparazione integrale del danno, aspetto che qui non ricorre. Alla luce di quanto premesso, in accoglimento del motivo di ricorso, la sentenza nei confronti dell’A.J. va sul punto annullata senza rinvio limitatamente al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen., che deve essere esclusa.
4. Va, infine, accolto l’ultimo motivo di ricorso che attiene al giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti operato sia per l’A. che per la C. .
La Corte d’assise d’appello in motivazione premette una serie di comportamenti preprocessuali ed endoprocessuali che, in astratto, avrebbero indotto valutazioni di tipo negativo. Tra questi enuclea per l’A. la ricerca di alibi mendaci ed i tentativi di coinvolgere altri soggetti nel fatto. Per la C. , di converso, si annota la manifestata aggressività, ipotizzando che lo stesso A. dovesse tacere, oltre al particolare che la donna stessa fosse ancora interna al circuito della droga (fl. 33 della sentenza).
Nonostante premesse siffatte si giunge, tuttavia, ad operare il giudizio di bilanciamento delle circostanze, sulla scorta di una valutazione puramente algebrica e ritenendo che l’intervenuto riconoscimento di due elementi circostanziali inducesse a modificare la comparazione in termini d’equivalenza, cui si era addivenuti in primo grado.
Ebbene la valutazione in parte qua risulta priva di motivazione adeguata e la ritenuta prevalenza delle circostanze attenuanti deve essere sorretta dalla spiegazione delle ragioni che quel tipo di scrutinio sottende.
In tema di giudizio di comparazione tra circostanze concorrenti il giudice è tenuto a dar conto del proprio giudizio in ordine alla valutazione delle circostanze stesse e, sebbene non sia tenuto anche a formulare una analitica esposizione dei criteri di valutazione deve, tuttavia, esporre le proprie argomentazioni ai fini della dimostrazione del corretto uso del potere discrezionale e del fondamento delle sue conclusioni. A tale scopo è insufficiente il richiamo a principi astratti ovvero a dati non documentati. È ancora inappagante un criterio che faccia leva sul solo confronto numerico tra circostanze, costituendo piuttosto il numero degli elementi circostanziali il punto da cui partire per dare conto dei motivi e delle ragioni per le quali taluni elementi si stimino prevalenti o subvalenti rispetto ad altri.
D’altro canto, l’obbligo di motivazione è garanzia per il corretto uso del potere discrezionale e non si esaurisce con la sola indicazione del risultato conclusivo cui si giunge. Il giudizio di comparazione concorre, piuttosto, alla determinazione della misura della pena ed è sottoposto al disposto dell’art. 132 comma 1 cod. pen..
Rientrando il giudizio di bilanciamento nella competenza esclusiva del giudice della cognizione, la sentenza impugnata nei confronti della C. e dell’A. va annullata anche in parte qua con rinvio per nuovo esame sul punto. Seguono le statuizioni di cui al dispositivo.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di C.V. limitatamente alla diminuente di cui all’art. 116 cod. pen. e al giudizio di comparazione sulle circostanze e rinvia per nuovo giudizio sul punto alla Corte d’Assise d’appello di Venezia.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di A.J. limitatamente all’attenuante di cui all’art. 62 n.6 cod. pen., che esclude; annulla la sentenza impugnata nei confronti di A.J. sulla comparazione delle circostanze e rinvia per nuovo giudizio sul punto e per la rideterminazione della pena, alla Corte d’assise di appello di Venezia.
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