Equa_Riparazione

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 18 marzo 2016, n. 5425

Fatto e diritto

Ritenuto che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Messina il 30 maggio 2012, T.A., C.M. e C.G., quali eredi di C.A., chiedevano la condanna del Ministero dell’economia e delle finanze per la irragionevole prosecuzione di un giudizio amministrativo oltre la data del 22 settembre 2009, precisando che per la irragionevole durata sino a tale data era già intervenuto decreto di condanna;
che, precisavano i ricorrenti, il giudizio presupposto era stato introdotto dal loro dante causa, poi deceduto nel 2007 ed essi si erano costituiti con comparsa di prosecuzione del giudizio in data 31 luglio 2008;
che l’adita Corte d’appello accertava che il giudizio presupposto si era protratto per altri quattro anni, un mese e quindici giorni e riteneva che da tale segmento non potesse essere decurtato tutto intero il triennio di durata ragionevole, tenuto conto che i ricorrenti si erano già costituiti nel giudizio presupposto nel 2008 e che il precedente decreto, non impugnato, aveva liquidato l’indennizzo sino al 22 settembre 2009;
che la Corte d’appello detraeva, quindi il segmento di due anni, e per l’accertata irragionevole durata ulteriore di due anni, un mese e quindici giorni liquidava un indennizzo di 1.060,00 euro, e compensava per metà le spese processuali;
che per la cassazione di questo decreto i ricorrenti in epigrafe indicati hanno proposto ricorso sulla base di due motivi, illustrati da successiva memoria;
che l’intimato Ministero non ha resistito con controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
Considerato che con il primo motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione del giudicato esterno formatosi, relativamente alla domanda proposta iure proprio da essi ricorrenti, sulla individuazione del dies a quo del periodo di irragionevole durata del giudizio presupposto e conseguente violazione degli artt. 2, commi 1 e 3, della legge n. 89 del 2001 e 6, par. 1, della CEDU, nonché degli artt. 1226 e 2056 cod. civ.; motivazione inidonea ed illogica (e quindi sostanzialmente omessa o
apparente) per giustificare l’esclusione del segmento temporale di due anni di ulteriore protrazione del giudizio presupposto ai fini del riconoscimento dell’equa riparazione;
che, assumono i ricorrenti, posto che la Corte d’appello con il precedente decreto, non impugnato, aveva riconosciuto il loro diritto iure proprio a far data dalla loro costituzione in giudizio, omettendo di detrarre i tre anni di durata ragionevole, tale detrazione non poteva essere effettuata con riferimento alla domanda di equa riparazione avente ad oggetto la protrazione del giudizio presupposto;
che con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono della disposta compensazione parziale delle spese;
che il primo motivo di ricorso è infondato;
che, come riconoscono anche i ricorrenti, l’orientamento di questa Corte è consolidato nel senso che “in tema di equa riparazione, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, qualora la parte costituita sia deceduta anteriormente al decorso del termine di ragionevole durata del processo presupposto, l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo iure proprio dovuto al superamento del predetto termine, soltanto a decorrere dalla sua costituzione in giudizio; ne consegue che qualora l’erede agisca sia iure haereditatis che iure proprio, non può assumersi come riferimento temporale di determinazione del danno l’intera durata del procedimento, ma è necessario procedere ad una ricostruzione analitica delle diverse frazioni temporali al fine di valutarne separatamente la ragionevole durata, senza, tuttavia, escludere la possibilità di un cumulo tra il danno morale sofferto dal dante causa e quello personalmente patito dagli eredi nel frattempo intervenuti nel processo, non ravvisandosi incompatibilità tra il pregiudizio patito iure proprio e quello che lo stesso soggetto può far valere pro quota e iure successionis, ove già entrato a far parte del patrimonio del proprio dante causa” (Casa. n. 21646 del 2011; da ultimo, Casa. n. 23422 del 2015);
che è certo, quindi, che “qualora la parte costituita in giudizio sia deceduta nel corso di un processo avente una durata irragionevole, l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo iure proprio soltanto per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, ha assunto a sua volta la qualità di parte; non assume, infatti, alcun rilievo, a tal fine, la continuità della sua posizione processuale rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 cod. proc. civ., in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla legge n. 89 del 2001, non sì fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione” (Casa. n. 13083 del 2011; Cass. n. 23416 del 2009; da ultimo, Cass. n. 23422 del 2015, cit.) ;
che, nella specie, posto che il triennio di durata ragionevole per i ricorrenti iure proprio non era ancora interamente decorso alla data del decreto della Corte d’appello che, pronunciando sulla domanda dagli stessi proposta a seguito della loro costituzione nel giudizio presupposto, aveva riconosciuto loro l’indennizzo, deve ritenersi che non abbia errato la Corte d’appello di Messina nel detrarre due anni, imputandoli a durata ragionevole per la posizione dei ricorrenti iure proprio;
che, invero, se può ritenersi formatosi il giudicato sul diritto dei ricorrenti iure proprio è anche vero che in ordine all’accertamento della durata ragionevole nei loro confronti nessun giudicato può predicarsi, proprio perché in occasione del precedente decreto la Corte d’appello ha, sia pure erroneamente – come affermato anche dai ricorrenti -, riconosciuto il diritto di questi ultimi per un anno, sicché, accertato il diritto, non rimaneva preclusa per la Corte d’appello successivamente adita, la possibilità di determinare comunque la durata ragionevole anche per la posizione dei ricorrenti iure proprio;
che il secondo motivo è invece fondato, atteso che non si rinvengono ragioni idonee a giustificare la disposta compensazione parziale delle spese del giudizio di merito;
che come ha già affermato questa Corte di recente (Casa. n. 3095 del 2015) la proposizione di successive domande di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata di un medesimo processo, in conseguenza del protrarsi della violazione anche nel periodo successivo a quello accertato con una prima decisione, costituisce esercizio di una specifica facoltà prevista dalla legge ed è funzionale al perseguimento delle sue finalità, postulando essa il riconoscimento dell’equo indennizzo in relazione alla durata dell’intero giudizio, dall’introduzione sino alla pronuncia definitiva (principio, questo, ovviamente applicabile nella previgente disciplina dell’equa riparazione, prima delle modificazioni introdotte dal decreto-legge n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012);
che, pertanto, tale condotta non integra gli estremi di un abuso del processo o di un esercizio del diritto in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, in violazione del principio di lealtà processuale previsto dall’art. 88 cod. proc. civ. e del giusto e sollecito processo, stabilito dall’art. 111 Cost., anche tenuto conto che nulla impedisce alla P.A., al fine di evitare gli oneri di ulteriori spese di giudizio, di predisporre i mezzi necessari per offrire spontaneamente soddisfazione a chi abbia sofferto un danno a cagione dell’eccessiva durata del processo;
che, dunque, nel caso in esame, se si deve escludere che la condotta processuale degli attuali ricorrenti integrasse gli estremi di un abuso del diritto, si deve parimenti escludere che la stessa integri gli estremi di un giusto motivo per la compensazione, anche solo parziale, delle spese giudiziali; anzi, dovendosi ritenere che anche i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, proposti ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, non si sottraggono all’applicazione delle regole poste, in tema di spese processuali, dall’art. 91 cod. proc. civ., trattandosi di giudizi destinati a svolgersi dinanzi al giudice italiano, secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito, la totale soccombenza dell’Amministrazione avrebbe dovuto comportare la condanna della stessa al pagamento delle spese giudiziali;
che il secondo motivo va quindi accolto, con conseguente cassazione del decreto impugnato in relazione alla censura accolta;
che, tuttavia, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, provvedendosi ad elidere la compensazione parziale delle spese dal decreto impugnato, fermi l’importo della liquidazione e la disposta distrazione;
che, in considerazione del limitato accoglimento del ricorso, le spese del giudizio di cassazione possono essere compensate per metà e poste, per la restante metà, a carico del Ministero dell’economia e delle finanze.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo; cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e, decidendo la causa nel merito, elide dal decreto impugnato la compensazione parziale delle spese, fermo il resto; condanna il Ministero dell’economia e delle finanze al pagamento di metà delle spese del giudizio di cassazione, che liquida, per l’intero, in euro 500,00, oltre accessori di legge e spese forfetarie; dispone la distrazione delle spese in favore dell’Avvocato F.M., dichiaratosi antistatario.

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