Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 3 marzo 2016, n. 8885
Ritenuto in fatto
1. Con la decisione in epigrafe indicata la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del 2 maggio 2012 emessa dal Tribunale di Palermo nei confronti di C.L.T., ha dichiarato non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo b) per intervenuta prescrizione, mentre ha confermato la responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 348 cod. pen., rideterminando la pena in euro 300,00 di multa.
Secondo l’accusa l’imputato, presso il Centro Italiano di Biorisonanza ed Omeopatia, di cui era anche socio, avrebbe esercitato abusivamente la professione medica, senza la necessaria laurea in medicina e la successiva abilitazione, visitando i pazienti, sottoponendoli alla biorisonanza magnetica con un apposito macchinario, effettuando diagnosi e consigliando loro la cura, anche tramite farmaci omeopatici che a volte provvedeva a vendere direttamente.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’imputato abbia svolto attività medica, effettuando diagnosi e prescrivendo cure, considerando irrilevante la circostanza che seguisse la medicina omeopatica.
2. L’avvocato M.D.S., nell’interesse dell’imputato, ha proposto ricorso per cassazione.
2.1. Con il primo motivo denuncia l’erronea applicazione dell’art. 348 cod. pen., in quanto i giudici avrebbero omesso ogni disamina sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. La mancanza di tale elemento andava desunta dalla circostanza che un precedente procedimento penale, per gli stessi fatti nei confronti dell’imputato, era stato archiviato, sicché L.T. ha continuato ad esercitare la sua attività di “naturopata” nella convinzione che fosse un’attività professionale per la quale non necessitava la laurea in medicina.
2.2. Con il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 348 cod. pen. nonché il vizio di motivazione, sostenendo che la Corte territoriale ha erroneamente qualificato l’imputato come omeopata anziché come naturopata, la cui attività, a seguito della legge del 14 gennaio 2013, n. 4 e della normativa UNI n. 11491 del 2013, deve considerarsi del tutto lecita, anche in assenza della laurea in medicina. In particolare, si assume che la norma UNI 11491 del 2013 avrebbe determinato in concreto una ipotesi di abolitio criminis parziale, limitatamente agli atti riconducibili all’attività professionale propria del naturopata, dalla stessa disciplinata. Conseguentemente, l’imputato andava assolto con la formula perché il fatto non sussiste oppure perché non è più previsto come reato.
2.3. Con il terzo motivo, riferito al reato di cui al capo b) dichiarato prescritto, si deduce la mancanza di motivazione, assumendo che i prodotti rinvenuti nel Centro Italiano di Biorisonanza e Omeopatia non fossero medicinali ma semplici preparati o complessi omeopatici, prodotti di libera vendita, con la conseguente insussistenza dei reato di cui agli artt. 6, 57 e 147 comma 2 del digs. n. 219 del 2006, dal quale l’imputato andava assolto con formula piena.
Considerato in diritto
1. Si ritiene che la Corte d’appello abbia correttamente riconosciuto la sussistenza dei reato.
1.1. Preliminarmente, deve ribadirsi che per la sussistenza del reato di abusivo esercizio della professione medica deve aversi riguardo al concreto svolgimento di atti tipici, cioè di atti riservati a detta professione, dovendo negarsi che possa avere rilievo, per escluderne la configurabilità, la circostanza che l’agente non si presenti come “medico”, ma come esercente un’attività alternativa a quella della medicina tradizionale. Nel caso in esame l’imputato si è difeso sostenendo di avere esercitato lecitamente l’attività di naturopata, attività professionale riconosciuta dalla legge (legge 14 gennaio 2013, n. 4) e dalla normativa UNI 11491 dei 6 giugno 2013, che consente di “dispensare consigli naturopatici”, consistenti in indicazioni per la soluzione delle difficoltà, degli squilibri e dei disagi riscontrati, anche attraverso il riferimento a prodotti (integratori alimentari, alimenti funzionali, rimedi floreali ecc.), trattamenti manuali (riflessologie, digitopressione ecc.), tecniche di equilibrio, stili di vita ed alimentari, precisando che per effetto di tale normativa si sarebbe verificata una ipotesi di abolitio criminis parziale dell’art. 348 cod. pen. limitatamente all’attività professionale svolta dal naturopata.
Si tratta di un approccio del tutto errato in quanto, come si è anticipato, ciò che rileva ai fini dell’accertamento dei reato di esercizio abusivo della professione medica non è il metodo scientifico adoperato, ma la natura dell’attività svolta. Ciò che caratterizza l’attività medica, per la quale è necessaria una specifica laurea e un’altrettanto specifica abilitazione, è la “diagnosi”, cioè l’individuazione di un’alterazione organica o di un disturbo funzionale, la “profilassi”, ossia la prevenzione della malattia, e la “cura”, l’indicazione dei rimedi diretti ad eliminare le patologie riscontrate ovvero a ridurne gli effetti. Sicché non ha rilievo la circostanza che queste tre componenti della professione medica siano effettuate in base a tecniche o metodi non tradizionali, come quelli omeopatici o naturopati, in quanto ciò che rileva è che siano poste in essere da soggetti che non hanno conseguito la prescritta abilitazione medica.
Invero, deve riconoscersi la possibilità del libero svolgimento di un’attività come quella dei naturopata ovvero di quelle rientranti nel novero della medicina alternativa, tuttavia tali attività non possono mai sostanziarsi “in atti tipici della professione medica”: più precisamente, ad un soggetto privo dell’abilitazione medica è concesso svolgere tali attività – in presenza dei requisiti prescritti -, purché non esegua diagnosi di malattie, non prescriva rimedi terapeutici e non somministri farmaci, perché in questo caso la sola circostanza che si tratti di metodiche alternative, pur se riconosciute dalla legge, non consente di ritenere lecito l’esercizio di un’attività corrispondente a quella medica da parte di chi non ha le competenze tecnico-scientifiche formalmente asseverate a seguito dei conseguimento dell’abilitazione (cfr., Sez. 6, n. 34200 del 20/06/2007, Mosconi; Sez. 6, n. 16626 del 04/04/2005, Di Lorenzo; Sez. 6, n. 30590 del 10/04/2003, Bennati; Sez. 6, n. 22528 del 27/03/2003, Carrabba; Sez. 6, n. 7176 del 06/04/1982, De Carolis)).
1.2. Nel caso in esame la Corte d’appello ha bene evidenziato la natura dell’attività esercitata dall’imputato nel Centro italiano di Biorisonanza e Omeopatia, riconducendola nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 348 cod. pen.: infatti, dalle prove acquisite è risultato che L.T. effettuasse vere e proprie diagnosi delle malattie sui pazienti che si recavano da lui, inoltre prescrivendo terapie, come risulta dalle testimonianze rese da Bonanno Fara, Liliana Barba, Emilia Sarullo, Michelangelo La Spisa, Robert Cucuzza, Cosimo Gebbia, Grazia Sperandeo e Sergio Moro, pazienti visitati dall’imputato ai quali ha prescritto farmaci omeopatici ed altri prodotti, indicando anche la posologia da seguire, come hanno dimostrato le ricette sequestrate.
Sulla base di quanto si è detto non vi è dubbio che l’attività svolta da L.T. debba qualificarsi come medica, sicché correttamente i giudici di merito hanno ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 348 cod. pen.
2. Riguardo al motivo con cui si assume il mancato accertamento dell’elemento soggettivo dei reato, si osserva che l’esercizio abusivo di una professione non richiede il dolo specifico, per cui è sufficiente la volontarietà dell’azione nella quale si concreta la condotta criminosa, con la conseguenza che la convinzione di non operare contra legem si risolve in una ignoranza della legge penale che non può essere invocata come scusante. Peraltro, questo motivo è stato dedotto sottoforma di violazione di legge, ma non risulta che sia stato proposto nell’atto di appello, sicché non può il ricorrente lamentarsi dell’omessa disamina dell’elemento soggettivo da parte del giudice di appello, fermo restando che lo stesso motivo deve ritenersi inammissibile in questa sede, ai sensi dell’art. 606 comma 3 cod. proc. pen.
3. Del tutto infondato è, infine, l’ultimo motivo relativo al reato di cui agli artt. 6, 57 e 147 comma 2 d.lgs. n. 219/2006. Questa Corte, soprattutto in presenza della dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non ha elementi per contraddire quanto accertato in sede di merito circa la natura dei prodotti detenuti dall’imputato, né può verificare quanto dedotto nel ricorso in ordine alla etichettatura in inglese dei preparati.
4. In conclusione, l’infondatezza dei motivi proposti determina il rigetto dei ricorso, con la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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