Consiglio di Stato
sezione VI
sentenza 9 febbraio 2016, n. 547
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 5189 del 2012, proposto da
Vi.Co., rappresentato e difeso dagli avv. En.Bo. e Al.Ca., con domicilio eletto presso l’avv. Cl.De.Cu. in Roma, viale (…);
contro
Comune di (omissis), in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avv. Ma.Pa., con domicilio eletto presso la Segreteria della VI Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza (…); Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via (…);
nei confronti di
So.Co., rappresentata e difesa dall’avv. Gi.Fi., con domicilio eletto presso l’avv. Al.Fi. in Roma, Via (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA -NAPOLI -SEZIONE VII, n. 884/2012, resa tra le parti, concernente diniego di condono edilizio per opere abusive e ingiunzione di demolizione;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis), del Ministero e di So.Co.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del 17 dicembre 2015 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati De.Cu. per delega di Bo. per l’appellante e Ga. per il Ministero; nessuno comparso per l’appellata So.Co.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.Con la sentenza in epigrafe il Tar Campania ha respinto, con spese a carico, il ricorso proposto dal signor Vi.Co., contro il Comune di (omissis) e nei confronti della signora So.Co., avverso e per l’annullamento dell’ordinanza in data 14 dicembre 2010, del responsabile del Servizio Urbanistica comunale, con la quale era stata rigettata la domanda di condono edilizio presentata dal Co. in data 23 giugno 1986, ai sensi della l. n. 47 del 1985, per le opere abusive consistenti nella realizzazione di un ampliamento -di circa 67 mq., per una volumetria di circa 280 mc.-, al preesistente fabbricato situato in località (omissi), alla via (omissis) (realizzato sulla base della concessione edilizia n. 137 del 28 settembre 1982); ed era stata contestualmente ordinata la demolizione di tale manufatto; e per la caducazione di atti presupposti, tra i quali la nota della Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici, storici, artistici ed antropologici di Napoli e Provincia in data 28 maggio 2010.
Per quanto riguarda la ricostruzione dei tratti salienti della controversia, conviene richiamare l’esposizione in fatto e le considerazioni in diritto della sentenza.
1.1. In particolare, dalla motivazione dell’ordinanza impugnata emerge che il diniego di condono e il conseguente ordine di demolizione erano stati determinati dalla ritenuta sussistenza del vincolo di inedificabilità assoluta ex art. 33, comma 1, lett. d), della l. n. 47/1985, derivante dall’atto pubblico di asservimento sottoscritto dal Co. avanti a notaio il 12 agosto 1982 ai fini del rilascio della concessione edilizia relativa all’edificio in aderenza al quale era stato realizzato l’abusivo ampliamento per cui è causa.
In particolare (v. la sentenza in epigrafe, pagine 3 e 4), “…all’esito delle verifiche espletate a seguito dell’esposto presentato dalla signora Co. So. in data 15 febbraio 2010 e della nota della Soprintendenza n. 10762/10 in data 3 giugno 2010, è emerso che il ricorrente “con atto pubblico di asservimento per notaio Lu.Ca. del 12.8.1982 rep. n. 12679, racc. n. 6721, ai fini del rilascio della predetta concessione edilizia n. 137/1982 asserviva in favore dell’Ente comunale la restante parte del fondo con vincolo di inedificabilità”, e che il rigetto della domanda di condono presentata dal ricorrente è motivato per relationem, con riferimento al parere legale prot. n. 28246 in data 13 ottobre 2010, a firma del responsabile del Servizio Affari Legali del Comune di (omissis), nel quale è stato evidenziato quanto segue: A) “circostanza pacifica è che, nell’ambito del procedimento volto al rilascio della citata concessione edilizia, con l’atto notarile rep. n. 12679/1982 il sig. Co. Vincenzo asserviva a favore della P.A. un’area di sua proprietà. Il sig. Co. attraverso tale atto di asservimento si obbligava a mantenere inedificata l’area “residua” garantendone la perpetua destinazione a verde”; B) l’art. 33 della legge n. 47/1985 vieta la sanatoria delle opere abusive che “siano in contrasto con vincoli di inedificabilità assoluta imposti – prima dell’esecuzione delle opere – da leggi statali, regionali, strumenti urbanistici, volti alla tutela di determinati interessi pubblici (lett. a, b, c), nonché ogni altro vincolo che importi l’inedificabilità delle aree”; C) il manufatto abusivo di cui trattasi deve quindi ritenersi insanabile, perché “l’atto negoziale di asservimento, parte integrante della citata concessione del 1982 ha configurato… un vincolo di inedificabilità sull’area libera, spogliando il proprietario dello ius aedificandi”.
1.2. Ciò posto il Co., con ricorso proposto nel 2011, ha domandato al Tar l’annullamento dell’ordinanza, deducendo tre censure.
Per quanto rileva in questo grado d’appello (dato che il ricorrente, e odierno appellante, ha dichiarato di avere interesse al gravame esclusivamente con riferimento al capo di sentenza con cui è stato respinto il terzo motivo del ricorso di primo grado), con la terza censura il Co. aveva contestato la correttezza della motivazione posta a base del provvedimento impugnato, deducendo “violazione e falsa applicazione degli articoli 32, 33 e 35 della legge n. 47/1985 (ed) eccesso di potere per carenza di interesse pubblico, contraddittorietà, difetto di motivazione e sviamento”.
In particolare il Co. aveva contestato che “un atto di asservimento come quello… sottoscritto (potesse) determinare l’insorgenza di uno dei vincoli di inedificabilità assoluta di cui all’art. 33, comma 1, lett. d), della legge n. 47/1985, perche un atto della specie produce effetti unicamente tra i sottoscrittori e, quindi, il Comune può ben decidere di rinunciare all’asservimento, com’è avvenuto nel caso in esame per effetto dell’adozione del suddetto decreto n. 4 in data 2 febbraio 2010 (con il quale il Servizio Urbanistica aveva inizialmente accolto la domanda di condono -n. di est.). Pertanto l’atto di asservimento di cui trattasi non produrrebbe effetti erga omnes e, quindi, non potrebbe essere invocato dalla signora So.Co., che nel 1982 non era proprietaria del fondo confinante con quello di proprietà del ricorrente, non vi risiede e non riceve alcun danno dal modesto ampliamento di cui è stata chiesta la sanatoria. Il ricorrente (aveva dedotto) poi che il Comune non (aveva), allo stato, alcun interesse ad invocare il suddetto vincolo di inedificabilità perché, come si può evincere dalla perizia allegata al ricorso, lo strumento urbanistico vigente all’epoca della sottoscrizione dell’atto di asservimento (programma di fabbricazione approvato nel 1964) prevedeva che nelle zone C (come quella ove insiste il manufatto) si potesse edificare solo a condizione di lasciare libera una parte del fondo pari al 50% dello stesso, ma tale previsione non trova riscontro nel vigente strumento urbanistico. Inoltre, secondo il ricorrente, “se aveva un senso nel 1982 asservire a verde parte del fondo in questione, inserito in un’area ancora scarsamente urbanizzata, oggi tale finalità ha perso completamente di senso, poiché l’area in cui sorge il fabbricato in questione è ormai completamente urbanizzata, come testimonia… il tecnico di parte ricorrente nella propria perizia…”.
1.3. Con la sentenza impugnata il Tar, dopo avere respinto il primo e il secondo motivo, ha disatteso anche la terza censura, incentrata sulla ritenuta insussistenza della causa ostativa prevista dall’art. 33, comma 1, lett. d), della l. n. 47/1985, costituita dal vincolo di inedificabilità assoluta derivante dall’atto di asservimento sottoscritto ai fini del rilascio della concessione edilizia n. 137/1982.
A questo riguardo i giudici di primo grado hanno osservato che “A) secondo la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, 6 luglio 2010, n. 4333), l’asservimento di particelle contigue a quella sulla quale viene posizionato il progetto per la realizzazione di un intervento edilizio in zona residenziale nasce da una pratica assai diffusa e costituisce uno strumento legittimo per consentire lo sfruttamento di tutta la potenzialità edificatoria delle aree a disposizione di chi intende realizzare tale intervento, con il quale, di solito, si pone rimedio all’infelice esposizione, ovvero alla ridotta dimensione dell’area di progetto. Con l’asservimento le aree asservite perdono, in tutto o in parte, ma definitivamente, la loro attitudine edificatoria in favore della particella di progetto e a tal fine è richiesto, di norma, che il proprietario del compendio interessato debba sottoscrivere un atto d’obbligo ovvero una dichiarazione formale, con il quale, nei riguardi del Comune, s’impegna per sé e per i propri aventi causa a non utilizzare, in seguito, a fini edificatori, le particelle asservite di cui ha, insieme alla particella di progetto, la proprietà o comunque la disponibilità giuridica. Ciò all’evidente fine di impedire che le norme urbanistiche riguardanti l’indice di edificabilità dei suoli situati in zona di completamento o di espansione residenziale non vengano facilmente aggirate con notevole pregiudizio per l’armonico uso a fini edilizi del territorio e con notevole danno per la collettività su di esso insediata; B) la giurisprudenza (T.A.R. Umbria Perugia, Sez. I, 16 agosto 2010, n. 426) ha già avuto modo di precisare altresì che l’art. 33 della legge n. 47/1985, laddove prevede l’impossibilità di condonare le opere abusive realizzate dopo l’imposizione del vincolo, su aree caratterizzate da vincoli di inedificabilità assoluta, non può intendersi riferito ai soli vincoli posti a tutela dell’ambiente o dei beni paesaggistici, ma riguarda anche o vincoli di inedificabilità assoluta di natura urbanistica, come dimostra l’espresso riferimento, contenuto nella lett. d) del comma 1, ad “ogni altro vincolo che comporti l’inedificabilità delle aree”; C) stante quanto precede risulta evidente, da un lato, che l’atto di asservimento sottoscritto dal ricorrente ai fini del rilascio della concessione edilizia n. 137/1982 ha determinato l’insorgenza di un vincolo di inedificabilità assoluta di natura urbanistica e, dall’altro, che il Comune di (omissis), nell’invocare il predetto atto di asservimento, quale fonte del vincolo di in edificabilità, non ha perseguito l’interesse di un soggetto terzo rispetto all’atto d’obbligo, perché ha agito nel perseguimento del fine pubblico (affidato alla sua cura) sotteso alla sottoscrizione dell’atto di asservimento. Del resto, proprio in considerazione del fine pubblico per cui è sottoscritto l’atto di asservimento, si deve ritenere che l’Amministrazione comunale non può decidere di rinunciare agli effetti derivanti da tale atto. Inoltre il Collegio osserva che il decreto n. 4 in data 2 febbraio 2010 non potrebbe comunque essere interpretato come un indice della volontà di operare una rinuncia di tale genere perché, come già evidenziato in occasione dell’esame del primo motivo di ricorso, con tale decreto il responsabile del Servizio Urbanistica si è limitato ad esprimere soltanto il parere di compatibilità paesaggistica di cui all’art. 32, comma 1, della legge n. 47/1985. Ne consegue che nessun rilievo può assumere la circostanza che l’esistenza del predetto vincolo (derivante da asservimento) sia stata portata all’attenzione dell’Amministrazione comunale dalla signora So.Co., né la circostanza che lo strumento urbanistico vigente all’epoca dell’asservimento (Programma di fabbricazione approvato nel 1964) prevedeva che nelle zone C (come quella ove insiste il manufatto di cui trattasi) si potesse edificare solo a condizione di lasciare libera una parte del fondo pari al 50% dello stesso, mentre tale previsione non trova riscontro nel vigente strumento urbanistico. Infatti il predetto fine pubblico risulta comunque affidato alla cura dell’Amministrazione comunale e, a differenza di quanto affermato dal ricorrente, la circostanza che l’area in cui sorge il fabbricato in questione sia ormai completamente urbanizzata conferma piuttosto l’attualità dell’interesse pubblico ad invocare il predetto vincolo di inedificabilità…”.
2. L’appellante, nel dedurre violazione e falsa applicazione dell’art. 33, comma 1, lett. d) della l. n. 47 del 1985 -opere non suscettibili di sanatoria, secondo il quale “Le opere di cui all’articolo 31 non sono suscettibili di sanatoria quando siano in contrasto con i seguenti vincoli, qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse: a) vincoli imposti da leggi statali e regionali nonché dagli strumenti urbanistici a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici;
b) vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali;
c) vincoli imposti a tutela di interessi della difesa militare e della sicurezza interna;
d) ogni altro vincolo che comporti la inedificabilità delle aree”; ed erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, ribadisce che al momento dell’abuso non veniva in questione un “vincolo urbanistico” di inedificabilità assoluta, tale da precludere l’applicazione della disciplina condonistica.
Come risulta dai certificati di destinazione urbanistica rilasciati dal Comune, in atti, al momento della costruzione (1983) era vigente, a (omissis), il programma di fabbricazione approvato con d. i. del 20 luglio 1964 il quale consentiva, in zona C-espansione edilizia privata -zone residenziali delle frazioni, costruzioni isolate e senza cortili chiusi che utilizzino al massimo un mezzo del lotto e abbiano un’altezza massima di otto metri.
In zona non era imposto vincolo di sorta.
L’unica limitazione stabilita dal p.d.f. per la zona “C” era di carattere edilizio, e riguardava l’indice di copertura della superficie del lotto disponibile, entro il 50 %, come detto.
In questo contesto, l’atto di asservimento era stato richiesto dal Comune, nel corso del procedimento di rilascio della concessione edilizia n. 137/1982, al solo scopo di garantire il rispetto dell’indice di copertura suddetto.
L’atto di asservimento -che si limitava a prevedere che l’area “libera dalla costruzione del fabbricato sarà sempre destinata a verde e libera da costruzioni” – era destinato a produrre i propri circoscritti effetti nell’ambito del procedimento diretto al rilascio della concessione edilizia, sicché il modesto abuso commesso dall’appellante doveva considerarsi condonabile, mancando un vincolo d’inedificabilità assoluta.
I richiami giurisprudenziali operati in sentenza sarebbero inoltre inappropriati.
Per l’appellante viene in questione un vincolo d’inedificabilità relativa, diretto ad assicurare unicamente l’osservanza dell’indice di copertura del 50 % imposto dal p.d.f..
E poiché viene in rilievo solamente la violazione dell’indice di copertura suddetto, e non la violazione di un vincolo d’inedificabilità assoluta, non si comprende per quale ragione l’ampliamento abusivo non possa considerarsi condonabile.
Comune, e Tar, avrebbero dilatato in modo eccessivo, e discriminatorio, il concetto di “vincolo di inedificabilità assoluta” di cui all’art. 33, comma 1, lett. d) della l. n. 47/1985.
Nell’ipotesi residuale di cui alla lett. d) possono farsi rientrare vincoli d’inedificabilità nascenti da fonti diverse da quelle indicate alle lettere da a) a c), ma deve trattarsi pur sempre di fonti “tipologicamente predeterminate dalla legge, in virtù della riserva di cui all’art. 42 Cost. “, non bastando a tale scopo che la fonte del preteso vincolo sia costituita unicamente da un atto pubblico di asservimento, anziché da uno strumento urbanistico.
Dal che, le richieste di riforma della sentenza, di accoglimento del terzo motivo del ricorso di primo grado e di annullamento dell’ordinanza di diniego di condono e d’ingiunzione di demolizione.
Il Comune e la signora So.Co. si sono costituiti per resistere.
L’appellata ha tra l’altro eccepito in via pregiudiziale l’inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 104 del cod. proc. amm..
All’udienza del 17 dicembre 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
3. Come emerge dai punti 1. e 2., la questione da risolvere attiene essenzialmente a se l’atto pubblico di asservimento del 12 agosto 1982, posto in essere al fine di consentire il rilascio della concessione edilizia n. 137/1982, e contenente destinazione perpetua a verde dell’area rimasta libera dalla costruzione (“l’area libera dalla costruzione del fabbricato sarà sempre destinata a verde e libera da costruzioni”), abbia comportato il sorgere di un vincolo d’inedificabilità assoluta ex art. 33, comma 1, lett. d) della l. n. 47 del 1985, tale quindi da rendere l’ampliamento abusivo eseguito non condonabile; se cioè si rientri, o meno, in “ogni altro vincolo comportante inedificabilità assoluta sull’area”, ai sensi del su citato art. 33/D), trovando applicazione, o no, una fattispecie ostativa a una possibile definizione della pratica di condono favorevole al privato.
Ciò posto, il Collegio ritiene che l’appello sia infondato e vada respinto, il che esime dal prendere posizione sull’eccezione d’inammissibilità del gravame sollevata dall’appellata.
In via preliminare e in termini generali pare di caso di rilevare che l’asservimento consiste, come specificato dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (sent. n. 3 del 2009), in una fattispecie negoziale atipica avente effetti obbligatori in base ai quali un’area viene destinata a servire al computo dell’edificabilità di altro fondo.
L’asservimento realizza, in definitiva, una specie particolare di relazione pertinenziale, nella quale viene posta durevolmente a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro.
Scopo dell’atto di asservimento è quello di incrementare la cubatura disponibile su un fondo, sfruttando quella concessa (e non utilizzata) ad altro fondo della medesima area, il quale viene, conseguentemente, assoggettato a vincolo di inedificabilità.
L’atto di asservimento dei suoli comporta la cessione di cubatura tra fondi contigui ed è funzionale ad accrescere la potenzialità edilizia di un’area per mezzo dell’utilizzo della cubatura realizzabile in una particella contigua e del conseguente computo anche della superficie di quest’ultima, ai fini della verifica del rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria.
La riconducibilità dell’asservimento a un vincolo di inedificabilità idoneo a permanere anche in caso di alienazione del fondo asservito, discende dalla natura oggettiva del vincolo. Il quale vincolo non trova fondamento solo nel negozio a oggetto pubblico stipulato tra pubblica amministrazione e privato ma anche nella disciplina urbanistica che limita a una certa cubatura l’edificabilità dell’area e che risulterebbe violata qualora il soggetto acquirente del fondo asservito potesse sciogliersi dal vincolo derivante dall’asservimento.
Per effetto dell’asservimento le aree asservite perdono la loro attitudine edificatoria in via definitiva, in favore della particella di progetto; diversamente opinando, del resto, si ammetterebbe un facile aggiramento delle norme urbanistiche riguardanti l’indice di edificabilità dei suoli situati in zona di completamento o di espansione residenziale.
Per Cons. Stato, Sez. V, n. 3823 del 2011, l’asservimento di un fondo, in caso di edificazione, costituisce una qualità oggettiva dello stesso, opponibile ai terzi, che continua a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva. (Consiglio Stato, sez. V, 30 marzo 1998, n. 387; sez. IV, 06 luglio 2010, n. 4333)…il vincolo creato dall’asservimento per sua natura permane sul fondo servente a tempo indeterminato, pena il completo snaturamento dell’istituto. L’asservimento di un fondo ad un altro crea, infatti, una relazione pertinenziale nella quale viene posta “durevolmente” a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro” (cfr. Cons. Stato, Ad Plen., n. 3/2009; Cons. Stato, sez. IV, n. 3766/08, secondo cui il “vincolo rimane cristallizzato nel tempo”)…gli effetti derivanti dal vincolo, integrando una qualità oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle potenzialità edificatorie dell’area asservita, con permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario (Cass. pen., sez. III, 21177/2009)….
Ciò posto, si ritiene che le argomentazioni dell’appellante non tengano conto di natura ed effetti dell’istituto dell’asservimento.
L’esaurimento dell’attitudine edificatoria dell’area, implicato dal suo asservimento per lo sfruttamento edilizio di altra area, facente parte dello stesso lotto (c. d. concentrazione volumetrica), o di altro diverso lotto (c. d. cessione di cubatura), costituisce un effetto definitivo ed irrevocabile, derivante dalla realizzazione dell’intervento progettato, integrando, l’inedificabilità anzidetta, una qualità oggettiva del terreno asservito.
Guardando adesso più da vicino il caso in esame, il Co., con l’atto di asservimento in questione, nell’obbligarsi a mantenere inedificata l’“area residua”, libera da costruzioni, garantendone la destinazione perpetua a verde, assumendo in questo modo un’obbligazione essenziale ai fini del rilascio della concessione edilizia n. 137 del 1982, ha determinato l’insorgere di un vincolo d’inedificabilità assoluta sull’area (che avrebbe poi formato oggetto dell’ampliamento edilizio), vincolo che ben può farsi rientrare nella c. d. “clausola aperta”, o nell’ipotesi “di chiusura”, ove posta a confronto con i casi specificati alle lettere da a) a c) del citato art. 33, di cui alla lettera d) del medesimo art. 33, la quale si riferisce a ogni altro vincolo che comporti l’inedificabilità delle aree.
L’ipotesi, di cui al citato art. 33/D), ostativa alla condonabilità dell’abuso compiuto, risulta ampia e omnicomprensiva, e prescinde da quale sia il modo o la fonte del vincolo d’inedificabilità.
La lett d) sembra cioè disegnare una fattispecie di carattere residuale idonea ad abbracciare qualsiasi vincolo d’inedificabilità, indipendentemente dalla sua fonte, e quindi anche un vincolo -seppure atipico- di natura negoziale.
Viene in rilievo, del resto, un vincolo strettamente connesso con i limiti di edificabilità sanciti dallo strumento urbanistico (i quali, per il tramite dell’asservimento, vengono diversamente ripartiti tra due fondi) e quindi, in ultima analisi, un vincolo riconducibile a quest’ultimo.
In questa prospettiva, il Comune, nel fare richiamo all’atto di asservimento suddetto, quale fonte di un vincolo d’inedificabilità (negoziale atipico), ha agito nel perseguimento del fine pubblico, affidato alle sue cure, sotteso alla sottoscrizione dell’atto di asservimento.
Risultano perciò corrette le considerazioni svolte in sentenza, dirette a valorizzare l’impossibilità di una rinuncia del Comune al vincolo d’inedificabilità assoluta, e ciò in ragione dell’interesse pubblico al corretto sfruttamento del suolo che lo stesso va a tutelare.
La sentenza impugnata appare infatti persuasiva anche laddove specifica che il Comune non ha perseguito l’interesse di un soggetto terzo rispetto all’atto d’obbligo, perché ha agito nel perseguimento del fine pubblico (affidato alla sua cura) sotteso alla sottoscrizione dell’atto di asservimento. Del resto, proprio in considerazione del fine pubblico per cui è sottoscritto l’atto di asservimento, si deve ritenere che l’Amministrazione comunale non può decidere di rinunciare agli effetti derivanti da tale atto.
In modo legittimo, dunque, il Comune ha negato il rilascio del chiesto condono edilizio, considerando sussistente un vincolo d’inedificabilità assoluta ex art. 33, comma 1, lett. d) della l. n. 47 del 1985, derivante dall’atto di asservimento del 12 agosto 1982.
L’appello va perciò respinto e, per l’effetto, la sentenza impugnata va confermata.
Considerato il carattere interpretativo della controversia sussistono, peraltro, in base al combinato disposto di cui agli articoli 26, comma 1, c. p. a. e 92, comma 2, c. p. c., eccezionali ragioni per l’integrale compensazione delle spese del grado di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.
Spese del grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 17 dicembre 2015 con l’intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo – Presidente
Roberto Giovagnoli – Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg – Consigliere
Andrea Pannone – Consigliere
Marco Buricelli – Consigliere, Estensore
Depositata in Segreteria il 09 febbraio 2016.
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