L'Accessione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II

SENTENZA 25 gennaio 2016, n.1237 

Ritenuto in fatto

È impugnata la sentenza della Corte di appello di Palermo, depositata il 20 maggio 2011 con cui, in parziale riforma della pronuncia resa dal Tribunale del capoluogo siciliano, è stata rideterminata l’indennità ex art. 936 c.c. dovuta dagli appellanti principali G.A. , (+Altri) in favore di D.L. . In detta pronuncia è stato dichiarato che l’importo da corrispondersi a quest’ultimo a norma dell’art. 936 c.c. ammontasse a Euro 117.818,57, oltre interessi legali dal 31 luglio 2006.
La vicenda processuale ha avuto origine con la citazione notificata il 27 giugno 1985 con cui il predetto D. assumeva di aver edificato il primo piano di un edificio sovrastante un magazzino; deduceva l’attore di aver acquistato due delle quote indivise dell’area dai comproprietari della stessa, G.V. e Ga.Vi. , e che il proprio suocero G.G. aveva mancato di trasferirgli la propria, benché si fosse impegnato verbalmente in tal senso. L’attore chiedeva di essere dichiarato proprietario esclusivo dell’area sovrastante il magazzino, nonché dell’appartamento posto al primo piano del corpo di fabbrica da lui edificato; in via subordinata domandava il rimborso delle somme corrispondenti al valore delle opere realizzate, a norma dell’art. 936 c.c., oltre che il risarcimento dei danni per la mancata stipula.
Il Tribunale di Palermo accoglieva la domanda subordinata proposta dall’attore, condannando i convenuti al pagamento della somma di Euro 237.582,66, oltre interessi legali dalla notifica del deposito della sentenza.
La sentenza era impugnata dai convenuti in vita e dagli eredi di quelli che erano nel frattempo deceduti e la Corte di appello di Palermo, disattendendo gli altri motivi di gravame, accertava l’erroneità del calcolo della rivalutazione e degli interessi sulla somma liquidata ex art. 936 c.c. con riferimento al periodo intercorrente tra il 1 gennaio 1979 il 31 luglio 2006 definendo nell’importo sopra indicato di Euro 117.818,57 l’ammontare di quanto dovuto a titolo di indennità, rivalutazione monetaria e interessi fino alla menzionata data del 31 luglio 2006.
La pronuncia della corte palermitana è stata impugnata per cassazione, con ricorso affidato a cinque motivi, da G.A. , (+Altri) .
Resiste con controricorso D.L. , il quale ha depositato memoria.

Motivi della decisione

Con il primo motivo i ricorrenti hanno denunciato violazione e falsa applicazione degli artt. 936, 1346 e 1418 c.c. in relazione all’art. 360, 1 co., n. 3, c.p.c., per avere la corte d’appello proceduto alla liquidazione dell’indennità in presenza di un’opera realizzata in difformità della rilasciata concessione, così da costringere il proprietario a richiedere successiva sanatoria e da determinarne la condanna in sede penale. In particolare, D. , procedendo all’edificazione dell’appartamento, aveva operato in difformità della licenza edilizia rilasciata dal Comune di Partinico a G.G. , realizzando una veranda chiusa non prevista nel progetto, con aumento della relativa cubatura e in violazione delle norme imperative al tempo cogenti: per effetto di tale condotta il predetto G. aveva subito un procedimento e una condanna in sede penale, resa con sentenza del 5 giugno 1981, e aveva dovuto proporre domanda di sanatoria. Sul punto i ricorrenti hanno richiamato la giurisprudenza di questa Corte in forza della quale l’autore di un illecito non è titolato a richiedere l’indennità ex art. 936 c.c., e ciò anche nel caso in cui il proprietario del fondo si giovi dell’opera per avere regolarizzato l’immobile con la concessione in sanatoria.

Il motivo non è fondato.

La corte palermitana ha rilevato che per l’immobile edificato dall’odierno controricorrente era stata rilasciata regolare concessione edilizia n. 23 del 17 maggio 1977 e che G.G. aveva subito una condanna in sede penale con sentenza resa dal pretore di Partinico ‘per la realizzazione del II piano in assenza di concessione edilizia e per aver chiuso a veranda una terrazza del I piano: quindi, la difformità sarebbe consistita unicamente in tale opera’. È da aggiungere, a quest’ultimo riguardo, che i ricorrenti si dolgono proprio del fatto che G.G. abbia subito le ripercussioni della violazione edilizia concernente il primo piano dell’edificio (e avente ad oggetto la nominata chiusura della veranda), violazione posta in essere da D. , il quale non era invece responsabile degli abusi riferiti al secondo piano del fabbricato (cfr. pagg. 12 e 13 ricorso). La sentenza impugnata ha poi evidenziato che con riferimento ai due illeciti (quelli concernenti, rispettivamente, il primo in secondo piano dell’edificio) era stata rilasciata concessione in sanatoria n. 329/2000 (in cui era oltretutto richiamata la concessione del 1977: dal che la corte ricavava una conferma dell’esistenza del titolo che autorizzava la realizzazione del corpo di fabbrica del primo piano). Il giudice d’appello ha quindi concluso nel senso di non potersi in alcun modo negare la locupletazione in favore del proprietario: ciò in quanto ‘l’immobile non è precario essendo escluso qualsiasi pericolo di demolizione dello stesso’.

Ciò detto, da una prima angolazione deve richiamarsi il principio consolidato per cui ove l’esecuzione delle opere abusive da parte di un terzo, con materiali propri, su suolo altrui, configuri un illecito penale, il proprietario non gli deve corrispondere alcun indennizzo (per tutte: Cass. 25 febbraio 2011, n. 4732; Cass. 29 gennaio 1997, n. 888; Cass. 10 settembre 1997, n. 8834), poiché, sul piano civilistico, il manufatto abusivo deve ritenersi carente di valore per il fondo. Infatti, in caso di costruzione eretta senza titolo concessorio – ovvero di opere eseguite in contrasto con la stesso – il diritto dominicale relativo a quell’opera è caratterizzato da spiccata precarietà quanto al suo contenuto di ricchezza acquisita, poiché i provvedimenti autoritativi previsti dalla legge si risolvono nell’espressione di una qualità giuridica immanente a quel manufatto e da esso non separabile (Cass. 13 aprile 1995, n. 4269, richiamata da Cass. 22 agosto 2003, n. 12347).

Tale situazione viene evidentemente meno per effetto della regolarizzazione urbanistica del manufatto, operata, come nel caso in esame, con la concessione in sanatoria richiesta da G.G. . Infatti, a norma dell’art. 38 l. 47/1985 l’oblazione estingue il reato edilizio e, concessa la sanatoria, viene meno la possibilità di applicare le sanzioni amministrative conseguenti all’abuso; inoltre, ove nei confronti del richiedente la sanatoria sia intervenuta con sentenza definitiva di condanna per il reato, viene fatta annotazione della oblazione nel casellario giudiziale e in tale caso non si tiene conto della condanna ai fini dell’applicazione della recidiva e del beneficio della sospensione condizionale della pena. La concessione in sanatoria restituisce quindi senz’altro l’immobile a uno stato di conformità al diritto e, come correttamente rilevato dalla corte di appello, esclude che lo stesso sia oggetto di una futura demolizione per la violazione della disciplina edilizia ad esso applicabile.

Il discorso non si esaurisce, tuttavia, nei rilievi fin qui svolti. Da una seconda angolazione, va infatti osservato che questa Corte ha in passato ritenuto che nelle controversie riconducibili alle fattispecie regolate dagli artt. 1150 e 936 c.c. nessun indennizzo a carico del proprietario del fondo può essere preteso dal terzo costruttore che abbia realizzato l’opera in violazione della normativa edilizia, autonomamente commettendo nel primo caso, o concorrendo nel secondo, i reati previsti dalle singole disposizioni penali che sanzionano le condotte illecite: ‘ciò non tanto perché possano essere poste in dubbio la sussistenza o l’entità della locupletazione del proprietario del fondo nella prospettiva di un ordine di demolizione da parte della pubblica amministrazione competente, quanto piuttosto perché è da ritenere in contrasto con i principi generali dell’ordinamento ed in particolare con la funzione dell’amministrazione della giustizia che possa l’agente conseguire indirettamente, ma pur sempre per via giudiziaria, quel vantaggio che si era ripromesso di ottenere nel porre in essere l’attività penalmente illecita e che in via diretta gli è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c.’ (Cass. 17 maggio 2001, n. 6777; in senso conforme, Cass. 14 dicembre 2011, n. 26853).

È da ricordare, in proposito, che a norma dell’art. 38, 5 co. l. n. 47/1985, i soggetti indicati all’articolo 6 della legge, tra cui è ricompreso il costruttore del manufatto, che intendevano fruire dei benefici penali previsti dallo stesso art. 38 e dall’art. 39, dovevano presentare al comune autonoma domanda di oblazione, con le modalità di cui all’articolo 35. Sulla base di tale disciplina, in difetto di un’attivazione nel senso indicato, la sanatoria conseguita dal proprietario non giovava allo stesso costruttore, il quale, non essendosi autonomamente adoperato onde conseguire l’estinzione del reato, versava nell’illecito e non poteva legittimamente pretendere di conseguirne il frutto per via giudiziaria (Cass. 17 maggio 2001, n. 6777).

Il quadro normativo originario è peraltro mutato, dal momento che il primo comma dell’art. 24 l. n. 136/1999 ha disposto: ‘Il secondo comma dell’articolo 38 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni, deve intendersi nel senso che la corresponsione per intero dell’oblazione, purché compiuta da uno dei soggetti legittimati a presentare la domanda di cui all’articolo 31 della stessa legge, estingue nei confronti di tutti i soggetti interessati i reati di cui all’articolo 41 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni, all’articolo 17 della legge 28 gennaio 1977, n. 10, e successive modificazioni, all’articolo 221 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, e agli articoli 13, primo comma, 14, 15 e 16 della legge 5 novembre 1971, n. 1086’. Quindi il predetto art. 24, 1 co. estende l’effetto estintivo del reato – conseguente al pagamento effettuato da coloro che sono legittimati ai sensi dell’art. 31 l. n. 47 del 1985 – a tutti i soggetti responsabili, a prescindere dalla presentazione di autonoma domanda di condono.

Discende da ciò che con il pagamento dell’oblazione da parte di G. è venuto meno anche il concorso nel reato da parte di D. . Per il che nulla osta a che il medesimo si veda riconosciuto l’indennizzo di cui all’art. 936 c.c..

Col secondo motivo è lamentata violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c. La corte distrettuale avrebbe impropriamente operato la liquidazione degli interessi sull’indennità in assenza di una espressa domanda in tal senso.

La censura non merita accoglimento.

L’indennità prevista dal 2 co. dell’art. 936 c.c. costituisce oggetto di un debito di valore (Cass. 13 aprile 2006, n. 8657), con la conseguenza che il giudice, nel liquidare detta indennità, deve riconoscere sulla relativa somma, anche d’ufficio, gli interessi compensativi (cfr. Cass. 14 febbraio 2013, n. 3706, con riferimento all’indennità contemplata per l’accessione invertita di cui all’art. 938 c.p.c.).

Col terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 936 c.c., in relazione all’art. 360, n. 3 c.c.. La sentenza impugnata avrebbe errato nel confermare la condanna pronunciata dal tribunale nei confronti di tutti gli appellanti indistintamente, ritenendo che del pagamento dell’indennità fossero gravati i proprietari dell’area occupata, e ciò senza considerare che l’effettivo beneficiario del vantaggio economico fosse identificabile in uno solo di essi, posto che il magazzino e l’area sovrastante, su cui era stato realizzato l’appartamento, era nell’esclusiva disponibilità di G.G. .

Col quarto motivo si lamenta insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, a norma dell’art. 360, n. 5 c.p.c.: la corte di appello avrebbe infatti condannato gli appellanti nella duplice qualità di comproprietari del fondo e di beneficiari dell’esecuzione delle opere, ma la predetta qualità, in capo ai comproprietari, sarebbe in netto contrasto con le risultanze istruttorie di causa. Infatti l’assegnazione in divisione e la cessione in favore di G.G. della sola porzione di fondo su cui era stato edificato l’immobile dimostrerebbe che nessun beneficio si era concretizzato in capo ai condividenti venditori che dalla divisione parziale e vendita avevano conseguito solo il corrispettivo del valore del fondo.

I motivi, da esaminarsi in modo unitario per la loro connessione, sono infondati.

Legittimato passivo dell’azione intentata dal terzo, che ha costruito nel fondo altrui con materiali propri, ai fini della indennità di cui all’art. 936 c.c., è il soggetto che rivesta la duplice qualità di proprietario del fondo e di beneficiario delle opere realizzate (per tutte: Cass. 17 febbraio 1981, n. 968). Il riferimento alla qualità di beneficiario trova fondamento nel rilievo per cui il soggetto passivo di tale azione va individuato non necessariamente in colui il quale era proprietario del fondo al momento dell’accessione ma in chi, anche se divenuto proprietario di quel bene dopo l’accessione, abbia effettivamente usufruito del beneficio da essa derivatone. Infatti, in tema di accessione relativa ad opere fatte da un terzo su fondo altrui, ai sensi dell’art. 936 c.c., ove l’originario proprietario abbia trasferito il terreno su cui insiste la costruzione realizzata dal terzo, il rapporto relativo all’obbligo di corrispondere l’indennizzo, gravante sul proprietario del fondo che eserciti il diritto di ritenzione – non diversamente dall’inverso rapporto avente ad oggetto la rimozione delle opere – intercorre, anche agli effetti della legittimazione processuale, non più tra l’iniziale titolare ed il terzo, bensì tra quest’ultimo e l’acquirente del suolo, trovandosi l’uno a subire il depauperamento e l’altro a beneficiare dell’arricchimento in ragione dei quali la norma tende a ristabilire una situazione di relativo equilibrio (Cass. 30 maggio 2013, n. 13603; in senso conforme: Cass. 7 settembre 1984, n. 4780; Cass. 6 agosto 1977, n. 3586).

Se non può che convenirsi su tale proposizione, deve però anche riconoscersi che il trasferimento della posizione di diritto o di obbligo che si attui in pendenza della lite risulti processualmente irrilevante a mente dell’art. 111, 1 co. c.p.c.. Infatti le vicende giuridiche attinenti alla titolarità del bene (e, di riflesso, ai diritti e agli obblighi che ad esso si riconnettono) successive all’inizio della controversia non sono idonee ad alterare i termini di questa, giacché il processo, a norma del cit. art. 111, 1 co. prosegue fra le parti originarie, cioè fra le parti nella loro originaria individualità e posizione giuridica. Bene ha fatto, dunque, la corte di appello a valorizzare il dato della posteriorità dell’atto di divisione e vendita – con cui venne attribuita a G.G. la porzione immobiliare che qui interessa – rispetto al momento in cui era stata notificata la citazione introduttiva del giudizio.

Quanto al vizio motivazionale, esso evidentemente non sussiste. La sentenza impugnata ha inteso infatti attribuire esclusivo rilievo all’elemento giuridico della titolarità del fondo in capo agli appellanti al momento dell’introduzione del giudizio. Ciò è tanto vero che la stessa corte di appello ha escluso potessero rivestire alcuna consistenza pregressi accordi tra i comproprietari operati verbalmente, senza il rispetto della necessaria forma scritta ad substantiam. La pronuncia identifica quindi la qualità di comproprietari del fondo in quella di beneficiati dall’esecuzione dell’opera, senza scindere le due posizioni: il che è del tutto corretto, visto che una separazione delle dette posizioni avrebbe potuto operarsi solo se prima dell’introduzione del giudizio la titolarità del diritto di proprietà fosse mutata. Infatti, solo ove il proprietario dell’area edificata avesse cessato di essere tale dopo l’accessione (ma prima dell’introduzione del giudizio), si sarebbe dovuto escludere che egli fosse anche beneficiario delle opere realizzate, secondo quanto sopra osservato.

Il quinto motivo concerne le spese: ci si duole del fatto che esse siano state riversate sugli istanti, compensandole per un terzo. Si assume che la compensazione sia illegittima, dal momento che l’odierno controricorrente sarebbe stato soccombente in grado di V. appello.

È indubbio, invece, che gli odierni ricorrenti fossero soccombenti, avendo riguardo al giudizio di merito inteso nel suo complesso, visto che D. aveva visto accolta la domanda da lui proposta in via subordinata: infatti, il giudice di appello, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, sicché viola il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenga la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado (Cass. 18 marzo 2014, n. 6259).

Quanto alla formula adottata dal giudice del gravame per giustificare la pronuncia di compensazione, di essa non possono certo dolersi gli odierni ricorrenti: sarebbe stato semmai il controricorrente, parte vittoriosa nel giudizio di merito trattato avanti al tribunale e alla corte d’appello, a poter lamentare l’ipotetica assenza dei motivi che fondavano la decisione in punto di compensazione.

Nella propria memoria ex art. 378 c.p.c. il controricorrente ha proposto una domanda di condanna ex art. 96 c.p.c.. Tale domanda è inammissibile. Infatti, per quanto concerne i danni sofferti nei precedenti gradi del giudizio, su cui il giudici di merito non avrebbero pronunciato – come lamentato nella memoria (pagg. 11 s.) – va osservato che sul punto avrebbe dovuto proporsi ricorso incidentale: ciò che non è accaduto. Con riguardo ai danni per responsabilità processuale aggravata che si assumono derivanti dalla proposizione del ricorso per cassazione, vale invece il principio per cui la pretesa, a pena di inammissibilità, deve farsi valere con il controricorso, non quindi con la memoria di cui all’art. 378 c.p.c. o nel corso della discussione orale (per tutte: Cass. S.U. 17 agosto 1990, n. 8363; Cass. 11 ottobre 2011, n. 20914).

In conclusione, il ricorso è respinto e i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

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