Suprema Corte di Cassazione
sezione I
sentenza 12 gennaio 2016, n. 864
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26.2.2014, la Corte di Assise di Appello di Ancona confermava la decisione resa in data 2.4.2013, con la quale il G.I.P. del Tribunale di Macerata aveva condannato C.S. , CA.Se.Ca. e G.S. alla pena di trent’anni di reclusione ciascuno per l’omicidio pluriaggravato di M.A.C. , commesso, anche in concorso con C.V. , in (omissis) .
Venivano, altresì, confermate le pene accessorie di legge e le statuizioni in favore della costituita parte civile M.V.I. , nonché la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di tre anni ciascuno.
1.1. In base alla concorde ricostruzione operata dai Giudici di merito, i fatti venivano ricostruiti come segue.
Verso le ore 7 del 27.1.2012, parzialmente sepolto sotto la sabbia della spiaggia antistante il condominio “(omissis)”, ubicato in via (omissis) , veniva rinvenuto il cadavere di una ragazza, subito identificata in M.A.C. , di nazionalità romena, domiciliata presso il suddetto condominio.
I Carabinieri della locale caserma, intervenuti sul posto a seguito della segnalazione telefonica di Z.A. , anch’egli condomino del “(omissis)”, in esito a una prima ispezione di quello stabile, rilevavano la manomissione delle due plafoniere ubicate nell’androne, e, all’interno dell’ascensore, repertavano varie tracce ematiche ed altro materiale biologico che, nel prosieguo, si sarebbe accertato appartenere alla vittima.
Il decesso della giovane veniva collegato, in sede di autopsia, ad un violento trauma cranico encefalico conseguente ad uno o più colpi da corpo contundente non identificabile, immediatamente fatali, patiti con il viso immerso nella sabbia.
Il consulente del P.M. precisava, in considerazione della presenza, sotto il viso della donna, di sabbia imbevuta di sangue per una profondità di circa 30 cm, che il luogo di rinvenimento del cadavere e il luogo dell’azione omicida dovevano ritenersi coincidenti.
L’audizione di persone ritenute a conoscenza dei fatti permetteva agli inquirenti, da un lato, di indirizzare sin da subito la loro attenzione su C.S. , indicato quale amico intimo della ragazza uccisa e assiduo frequentatore del condominio “(omissis)”; dall’altro, di avere un quadro abbastanza definito della vittima, della sua attività di prostituta, delle sue abitudini e conoscenze.
I Carabinieri decidevano, dunque, di portarsi al domicilio del C. quella stessa mattina del 27.1, dove trovavano il predetto in compagnia del figlio V. , del CA. e del G. .
1.2. I quattro venivano sentiti, in un primo tempo, come persone informate dei fatti, fornendo versioni divergenti sugli accadimenti della serata del 26, per poi confessare la comune partecipazione al delitto nell’escussione successiva.
Gli indagati venivano, quindi, sentiti dal P.M. alla presenza dei difensori, confermando, nella sostanza, le precedenti dichiarazioni confessorie.
Dal complessivo contenuto delle dichiarazioni rese dagli imputati emergeva, quanto al movente, che il C. aveva maturato la decisione di far eliminare la giovane sia per ragioni di vendetta – riconducibili ai continui rifiuti opposti dalla persona offesa alle richieste di prestazioni sessuali a pagamento avanzate dall’imputato (tra l’altro, a tariffe ben superiori a quelle praticate alla clientela “normale”) e al sospetto di un coinvolgimento della medesima in un furto in appartamento subito – sia per sottrarsi a una dipendenza divenuta non più tollerabile in termini principalmente economici.
1.2.1. Accanto alle dichiarazioni confessorie, che, poi, unicamente il C.S. ridimensionava davanti al G.I.P. affermando di aver incaricato i correi di dare solo una “lezione” alla M. e non di ucciderla, i Giudici della cognizione apprezzavano, tra gli elementi di prova acquisiti:
a) le intercettazioni ambientali eseguite presso i locali della caserma dei Carabinieri di Porto Potenza Picena, da cui emergevano sostanziali ammissioni di responsabilità da parte degli imputati, e la contestuale ricerca di concordare versioni di comodo;
b) il rinvenimento e sequestro, in esito ad ispezione del fondale del laghetto di località (OMISSIS) , eseguita su indicazione del G. , di un sacchetto di rifiuti contenente la borsa della vittima, guanti in lattice usati dagli imputati, pezzi di nastro adesivo, la sim card del cellulare della M. , alcuni mozziconi di sigarette ed altri reperti;
c) il rinvenimento sulla spiaggia, a poca distanza dal cadavere della donna, di alcuni frammenti del bastone di legno imbrattato di sostanza ematica utilizzato, come riferito dagli stessi imputati, per uccidere la M. ;
d) il rinvenimento e sequestro, presso il domicilio del C.S. , di un manoscritto, riconosciuto come proprio dall’imputato, contenente la promessa di pagamento agli esecutori del reato;
e) i risultati delle indagini scientifiche genetico-forensi, che avevano consentito di rilevare la presenza di tracce di sangue della vittima su diversi capi di abbigliamento appartenenti a ciascuno degli imputati, la presenza di materiale biologico dei correi C.V. , CA. e G. su un mozzicone di sigaretta rinvenuto nella borsetta della ragazza, la presenza di una componente maggioritaria con profilo coincidente con quello del CA. su uno dei due guanti in lattice pure rinvenuti nella stessa borsetta e la presenza di profili genetici misti generati dalla commistione di materiale biologico della vittima e del G. su alcuni frammenti del rotolo di scotch in sequestro;
f) l’analisi dei dati del traffico telefonico e della memoria del cellulare in uso a C.S. e alla persona offesa, nonché dei tabulati telefonici relativi alle utenze degli altri imputati, che evidenziava quotidiani e frequenti contatti tra gli imputati nelle due settimane antecedenti al delitto e chiariva la natura morbosa del rapporto che legava il C. alla M. , il potere di condizionamento e di ricatto sessuale esercitato da costei sul più anziano partner, e le ragioni poste alla base della maturazione del proposito criminoso;
g) infine, la perizia psichiatrica svolta sul CA. , che aveva accertato la sua capacità di intendere e di volere al momento del fatto.
2. La Corte di Assise di Appello confermava integralmente le valutazioni del primo Giudice.
2.1. Quanto al ritenuto dolo di omicidio, la Corte, a proposito della parziale ritrattazione operata dal C.S. sul contenuto del mandato a delinquere conferito ai correi (dare una “lezione” e non uccidere), osservava come la stessa fosse smentita non solo dalle contrarie dichiarazioni rese in modo convergente dal CA. , dal G. e da C.V. , ma anche dalle concrete modalità esecutive dell’azione delittuosa, assai poco compatibili con un delitto di tipo preterintenzionale: si riferivano i Giudici di merito agli accorgimenti adoperati dagli imputati per nascondersi alla possibile vista di terzi e per evitare di lasciare tracce, attraverso la pianificazione di un agguato eseguito nell’androne del palazzo dove abitava la vittima, agevolati dal buio da loro stessi provocato con la manomissione delle plafoniere ivi ubicate, e usando guanti in lattice; d’altra parte, agendo tutti a volto scoperto, a dimostrazione del fatto che la vittima, al termine della spedizione punitiva, non sarebbe stata lasciata in vita, con la conseguente rischiosa probabilità di riconoscere i suoi aggressori.
Vi era, infine, da considerare il contenuto del manoscritto rinvenuto il 13.3.2012 nell’abitazione del C. , il quale, ben poco verosimilmente, aveva sostenuto trattarsi di un impegno assunto verso un falegname, nonostante nello scritto non si facesse alcun riferimento a lavorazioni in legno e le parole impiegate “A lavoro svolto e visto e controllo non prima. E dopo aver visto e saputo consegnerò la somma” evocassero piuttosto la necessità di vedere un cadavere che una persona malmenata; anche la richiesta di recuperare “vestito da sera e mutandine” appariva, d’altra parte, del tutto incoerente con la prospettata commissione di lavori di falegnameria.
2.2. Quanto alle aggravanti della premeditazione, dei motivi abietti e futili e della minorata difesa, i Giudici dell’appello confermavano le valutazioni articolate dal primo Giudice, che aveva escluso solamente l’aggravante della crudeltà.
2.3. La Corte confermava anche l’esclusione dell’attenuante della provocazione e il diniego, per tutti, delle circostanze attenuanti generiche.
La prima non veniva ravvisate neppure nella forma “per accumulo”, siccome frutto di ipotizzate vessazioni da parte della vittima, che semplicemente si era limitata a respingere le avances del C. , ancorché continuando a richiedergli del denaro; né poteva apprezzarsi, come fatto ingiusto, quello di ritenere l’imputato la M. coinvolta nel furto subito all’interno della sua abitazione.
Ostavano alla concessione delle attenuanti generiche la obiettiva gravità del fatto, caratterizzato da modalità attuative estremamente brutali ed efferate, l’assenza di alcun segno di effettiva resipiscenza, l’offerta risarcitoria, solo verbale, formulata dal C. e dal CA. , i trascorsi criminali di quest’ultimo e del G. .
2.4. Quanto al lamentato vizio di mente del CA. , la Corte di Ancona, in sintonia con il primo Giudice, mostrava di condividere le conclusioni rassegnate dal perito psichiatra c. , il quale aveva affermato che i comportamenti adottati dall’imputato durante e dopo l’esecuzione del reato, pur essendo improntati ad “una grezza superficialità ai limiti della stolidità e soprattutto da una significativa indifferenza”, risultavano scaturiti in una condizione di media “normalità” esclusivamente ascrivibile al disturbo di personalità di tipo misto (Narcisistico, Borderline ed Antisociale con aspetti psicopatici), all’interno del quale non vi era nulla che rappresentasse un quid pluris o un quid novi tale da permettere di desumere l’insorgenza brusca e improvvisa di qualsivoglia patologia, con alterazione dell’esame di realtà, e, dunque, con valore di infermità medico-legale, in grado di inficiare la capacità di intendere il disvalore di una determinata condotta o di impedirgli la possibilità di scegliere condotte alternative lecite.
2.5. In ordine alla ravvisabilità del concorso anomalo ex art. 116 c.p., la Corte di secondo grado osservava che, anche a voler azzardare che il mandante volesse solo dare una lezione alla vittima, non si poteva ritenere, per effetto di quanto pianificato tra mandante ed esecutori, che il diverso reato più grave non fosse stato da tutti voluto, quanto meno a titolo di dolo eventuale o alternativo.
3. Ricorso proposto nell’interesse di CA.Se.Ca. (avv.ti F. Valori e R. Romagnoli).
3.1. Con il primo motivo, deduce erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 89 c.p..
La Corte di Ancona, così come il primo Giudice, aveva aderito alle conclusioni del perito c. circa l’insussistenza di dinamiche mentali di natura psicopatologica, pur riconoscendo, nell’imputato, la presenza di un disturbo di tipo narcisistico, borderline e antisociale con aspetti psicopatici.
Secondo la difesa del ricorrente, il perito, nell’escludere le ipotesi di psicosi reattiva breve e di reazione da stress non si era confrontato con la diversa prospettazione offerta dal C.T. di parte P. , che consentiva di agganciare la condotta del CA. non solo alla sua personalità effettiva, ma anche al contesto psicologico ed emotivo che aveva preceduto ed accompagnato l’azione delittuosa.
Ad avviso del predetto consulente, infatti, era stato proprio lo stress prolungato, accumulato nel tempo e impossibilitato ad essere scaricato altrimenti, considerato il target e la modalità tendenzialmente ossessiva e persistente della richiesta di azione, che aveva costituito quel quid pluris o quid novi tale da supportare ulteriormente, in aggiunta alla perdita di controllo, quell’alterazione dell’esame di realtà con valore di infermità in chiave medico-legale, in grado di inficiare la capacità di intendere il disvalore della propria condotta e/o di impedirgli di scegliere condotte alternative e di inibire la sua condotta impulsivo-aggressiva.
I difensori del ricorrente censuravano il complessivo impianto culturale della perizia psichiatrica, fondata sulla obsoleta convinzione di dar valore di “malattia” solo a disturbi equivalenti a sintomi psicopatologici di ben precisi quadri clinici individuati, con ciò annullando la visione problematica circa la sicurezza degli ancoraggi scientifici evidenziata nella celebre sentenza Raso delle Sezioni Unite e contrastando l’affermazione in detta decisione contenuta, secondo la quale i disturbi della personalità, quand’anche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle malattie mentali, possono costituire anch’essi infermità, pur transeunte, rilevante ai fini degli artt. 88 e 89 c.p. ove determinino lo stesso risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso, si denuncia erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta aggravante della premeditazione.
A prescindere dalla concreta ricostruzione della vicenda, era evidente che, con riguardo al CA. , non risultassero provati né la piena coscienza dell’altrui premeditazione, né la disponibilità di un lasso di tempo necessario per la resipiscenza.
Era, soprattutto, la stessa diagnosi formulata dal perito c. ad escludere in radice che il ricorrente avesse potuto svolgere quella intensa attività riflessiva onde sottoporre la propria determinazione criminale alle controspinte etiche, la quale giustificava il più severo trattamento sanzionatorio per essere il proposito criminoso uscito rafforzato dalla riflessione suddetta. Il quadro psichiatrico delineato nella perizia, caratterizzato da un disturbo della personalità grave e complesso, rendeva il CA. soggetto incapace di riflessione critica e di controllare i propri impulsi, il che equivaleva a dire incapace di contrapporre ad essi adeguate controspinte; nonché soggetto privo di sicuri e certi valori e riferimenti morali cui attingere nella fase riflessiva individuata quale fondamento dell’aggravante.
3.3. Con il terzo motivo, si lamenta erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante dei motivi abietti e futili.
La Corte di merito, così come il primo Giudice, aveva erroneamente esteso in via oggettiva al concorrente nel reato una circostanza aggravante di natura soggettiva e senza che il movente, quanto meno con riguardo al CA. , fosse identificato con certezza.
Da entrambe le sentenze dei Giudici di merito non si comprendeva se a muovere all’azione, fra gli altri, il CA. fosse stato l’appetito per una modesta somma di denaro o una incomprensibile solidarietà con gli interessi punitivi del C. , che il ricorrente conosceva solo di vista.
Inoltre, le resistenze palesate dall’imputato alla proposta omicida del C. impedivano di ritenere provato che il primo avesse fatta propria la particolare intensità del dolo del mandante.
Alla luce delle valutazioni del perito c. era, invece, possibile ipotizzare che il CA. fosse stato mosso all’azione per motivi che certo apparirebbero futili a un generico individuo “medio”, ma non a chi nel sentimento della propria indispensabilità traeva passeggero conforto alle proprie instabilità emotive.
Questa ipotesi non era stata minimamente presa in considerazione da parte dei Giudici.
3.4. Con il quarto motivo, si contestano violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
Si imputa alla Corte di merito di non aver tenuto conto, ai fini della concessione delle attenuanti generiche, del contegno collaborativo serbato dal prevenuto e individuabile nelle dichiarazioni pienamente confessorie, delle sue condizioni di vita individuali, familiari e sociali (orfano adottato in tenera età), dell’offerta riparatoria formulata nei riguardi dei parenti della vittima e, soprattutto, delle condizioni psicologiche emerse nella relazione del perito c. che, seppur erroneamente ritenute non sufficienti a giustificare un parziale vizio di mente, quanto meno avrebbero dovuto essere valutate nella determinazione della pena.
Ulteriore profilo di censura era individuabile nella decisione dei Giudici di adottare il medesimo criterio sanzionatorio per tutti i correi, senza distinzioni di sorta tra il ruolo svolto dal ricorrente e quello, ad esempio, rivestito dal C.S. , in ordine al quale erano stati descritti un profilo psicologico e una condotta di vita caratterizzati da tratti di estrema malvagità.
4. Il ricorso proposto da C.S. per il tramite del difensore avv. M. Pistelli deduce “motivazione incongrua in relazione alla ritenuta sussistenza della premeditazione e alla non configurabilità del concorso anomalo nel reato”.
Quanto all’aggravante della premeditazione, non era dato comprendere la diversità di trattamento sanzionatorio riservato ai tre imputati rispetto a quello applicato, in separato giudizio, al correo C.V. , condannato a ventidue anni di reclusione.
Quanto alla esclusione del concorso anomalo, la motivazione della Corte non appariva conforme ai principi sanciti sul tema dalla giurisprudenza di legittimità.
La rappresentazione dell’evento delittuoso da parte del ricorrente era stata, invero, elaborata in maniera elementare, senza specifiche progettualità per la sua concreta realizzazione, tanto che non v’era motivo alcuno per prevedere l’insorgenza di complicazioni che implicassero il passaggio dal voluto reato di lesioni e percosse a quello di omicidio.
Sotto questo profilo, emergeva una carenza di prova sul fatto che il ricorrente avesse maturato una qualche volizione, conoscenza, accettazione o ipotizzazione di un omicidio: le sue reali intenzioni erano differenti e il reato diverso non poteva rappresentarsi alla sua mente come sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, trattandosi di un fatto atipico ed eccezionale.
La motivazione della Corte di Ancona non era immune da censure, atteso che da alcun atto processuale era emersa la previsione di un dolo eventuale o alternativo.
5. Ricorso proposto nell’interesse di G.S. (avv. F. G. Piccirillo).
5.1. Con il primo motivo, si deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza delle aggravanti della premeditazione, dei motivi abietti e futili e della minorata difesa.
5.1.1. Entrambe le sentenze di merito si erano limitate a costruire la premeditazione in capo al C.S. , per poi automaticamente estenderla al G. e al CA. senza alcuna analisi delle intenzioni dei correi.
L’oggetto della prova della premeditazione andava individuato nella costante e ininterrotta durata del proposito criminoso da mantenersi fermo per un lasso di tempo sufficiente alla ponderazione adeguata del delitto.
La Corte di Assise di Appello aveva ritenuto erroneamente sufficiente per il configurarsi della premeditazione il fatto che i correi si fossero procurati dei guanti in lattice e sacchetti in plastica e si fossero premurati di organizzarsi all’interno dell’androne del condominio al fine di non farsi vedere dalla vittima né da altri, manomettendo l’illuminazione al piano terra, ma restando a viso scoperto.
La Corte di merito non aveva, tuttavia, approfondito tutte le circostanze del caso concreto, concentrandosi sulla fermezza del proposito maturato dal C. ed estendendolo ai correi solo attraverso l’ipotesi del concorso del reato in base alla loro adesione successiva al proposito originario.
Tale conclusione risultava in contrasto con le emergenze processuali determinando il vizio motivazionale denunciato, atteso che la sentenza impugnata parlava, dapprima, di un proposito criminoso mutevole e non fissato nel tempo nella mente del C.S. , per farne derivare, poi, uno stabile e fermo progetto criminoso nello stesso C. , non ponendo attenzione ai presupposti cronologico e psicologico della premeditazione.
I Giudici dell’appello avevano riscontrato la sussistenza del primo sulla base delle sole affermazioni del G. circa la ricorrenza dell’argomento nei discorsi dei coimputati, senza accenno alcuno ad una qualsiasi progettazione dell’omicidio né a certi riferimenti temporali.
Quanto all’elemento psicologico, non poteva certamente ravvisarsi un proposito fermo e determinato nei suoi aspetti esecutivi, dato il carattere mutevole del progetto delittuoso, oscillante tra le diverse ed alternative finalità di omicidio e lesioni o, addirittura, alla desistenza dal proposito stesso.
La sentenza impugnata era viziata da logica contraddizione, laddove parlava prima di un fermo e delineato proposito e, immediatamente dopo, di titubanze del G. e del CA. , ritenute giustificate e al contempo irrilevanti poiché derivanti dalla gravità della richiesta.
Dall’assenza dell’elemento psicologico discendeva il venir meno del c.d. dolo di durata, con conseguente insussistenza della premeditazione.
Né tale aggravante andava confusa con la preordinazione dei mezzi che, tra l’altro, per il carattere mutevole e non radicato del proposito delittuoso, nella specie appariva di difficile accertamento e più che altro lasciata al caso.
5.1.2. Quanto all’aggravante dei motivi abietti e futili, i Giudici di merito si erano limitati a dare rilevanza al profitto economico dell’azione in sé ed alle questioni eminentemente punitive, dettate dall’aver appoggiato il C. , senza riferimento alcuno alle caratteristiche dei soggetti agenti e della cerchia sociale di appartenenza, estendendo, come per la premeditazione, la circostanza in via oggettiva.
Il G. , che versava in condizioni di vita assai precarie, vedeva nel C. , che lo aveva accolto in casa, una figura di riferimento, ed era quindi comprensibile che potesse essersi lasciato trasportare dalle sue richieste, sentendosi quasi in debito nei suoi confronti e quasi in stato di soggezione.
5.1.3. L’aggravante della minorata difesa andava esclusa, data l’esposizione del luogo del delitto – uno stabile abitato da numerosi inquilini e non isolato dal centro abitato – a frequentazioni notturne ed a continui via vai di persone. Il fatto, poi, che l’azione delittuosa si fosse conclusa sull’arenile antistante il condominio andava contestualizzato in ragione dell’ubicazione della spiaggia stessa, distante pochi metri dall’ingresso dell’immobile e dalla relativa via di accesso.
5.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione della legge penale in ordine al diniego delle attenuanti generiche.
La Corte di Assise di Appello, come il primo Giudice, aveva ritenuto di negare le attenuanti generiche non avendo l’imputato dimostrato alcun segno di turbamento emotivo o di pentimento per il grave episodio commesso.
Tale affermazione appariva quanto meno superficiale e ancorata a canoni ermeneutici oggettivi e prestabiliti, senza nessun aggancio al caso concreto.
Per contro, avrebbero dovuto essere valorizzati il riconoscimento della propria responsabilità e la disponibilità manifestata verso gli inquirenti, i quali, grazie alle indicazioni del ricorrente, erano riusciti a recuperare gli oggetti appartenenti alla vittima. Inoltre, egli non si era sottratto all’esame sia nel procedimento che lo vedeva coinvolto, sia in quello celebratosi a carico del correo C.V. .
Considerato in diritto
1. I ricorsi proposti da CA. e G. vanno rigettati in quanto infondati.
2. È, in primo luogo, infondato il motivo dedotto dalla difesa del CA. sul tema del vizio di mente.
Va, al riguardo, rammentato che, per giurisprudenza di legittimità assolutamente pacifica, il tema dell’imputabilità per vizio di mente costituisce questione di fatto, la cui valutazione, mercé l’ausilio delle risultanze della perizia psichiatrica, compete esclusivamente al giudice di merito, il giudizio del quale si sottrae al sindacato di legittimità tutte le volte che esso, anche con il solo richiamo alle condivise valutazioni e conclusioni delle perizie, risulti esaurientemente motivato, immune da vizi logici di ragionamento e conforme a corretti criteri scientifici di esame clinico e di valutazione del soggetto (per tutte, sul grado dell’infermità mentale: sez. 1, n. 2883 del 24/1/1989, Panfilla, Rv. 180615; e, tra le più recenti: Sez. 1, n. 42996 del 21/10/2008, Marina e altro, Rv. 241828; Sez. 2, n. 34913 del 16/5/2013, Maneglia, Rv. 257107).
Nel caso di specie, la Corte di Assise di Appello è pervenuta ad una valutazione rispettosa di tale principio, non limitandosi a recepire acriticamente la convalidazione della perizia c. operata dal primo Giudice, ma affrontando e confutando in modo adeguato le censure difensive.
Così, con riferimento alla supposta contraddizione che, a detta della difesa, sarebbe stata rilevabile tra l’accertamento, riscontrato dal perito nel CA. , del disturbo di personalità in cui “coesistono aspetti sia della variante c.d. antisociale (predominanti), sia di quella narcisistica e borderline” e le conclusioni rassegnate dallo specialista che avevano escluso, nell’imputato, un vizio di mente (totale o parziale) alla data del fatto, la Corte di merito ha correttamente apprezzato – ritenendo, pertanto, insussistente la contraddizione prospettata – le spiegazioni fornite dallo psichiatra in ordine al fatto che l’imputato, nel corso della sua narrazione dell’evento delittuoso in cui era stato coinvolto, era apparso “in grado di orientarsi all’interno di parametri consolidati dall’esperienza e dalla conoscenza, in quanto le sue operazioni di valutazione, di progettazione e decisionali non risultavano alterate dalla tendenza ad attribuire significati abnormi alla realtà esterna, riflettendosi nelle facoltà di giudizio e critiche, nella previsione delle conseguenze dei propri atti, nelle capacità di autodeterminazione e di scelta”.
Non era, dunque, emersa, all’interno dell’acclarato disturbo di personalità di tipo misto, l’improvvisa insorgenza di una qualsiasi psicopatologia, con alterazione dell’esame di realtà, e, dunque, con valore di infermità medico-legale, in grado di condizionare nel soggetto la capacità di intendere il disvalore di una determinata condotta o di impedirgli la possibilità di scegliere condotte alternative lecite.
La Corte marchigiana non aveva, neppure, eluso le obiezioni, peraltro generiche, mosse al ragionamento del perito in base alla giurisprudenza formatasi sulla scia della sentenza delle Sezioni Unite n. 9163 del 25/1/2005, Raso, Rv. 230317, che aveva affermato il seguente principio: “Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”” (tra le più recenti, vedi anche Sez. 1, n. 52951 del 25/6/2014, Guidi, Rv. 261339).
Anche a voler qualificare tecnicamente come “infermità” il disturbo palesato dal CA. , i Giudici dell’appello avevano coerentemente escluso, anche alla luce del principio enunciato dalle Sezioni Unite, la sussistenza di un nesso eziologico tra detto disturbo e l’azione delittuosa, non essendo ipotizzabile, alla luce delle condivise valutazioni del perito, la riconducibilità del crimine al prospettato stato di “infermità” mentale.
D’altro canto, osservava in modo logico e stringente la Corte di Ancona che neppure il consulente della difesa dott. P. , al di là di obiezioni essenzialmente “formali” mosse alle conclusioni del perito, non aveva saputo fornire alcuna specifica indicazione sull’elemento ulteriore che avrebbe scatenato “quel rush di incontrollabile natura” poi sostanziatosi nell’omicidio della M. .
3. È parimenti infondato il motivo, comune ai due ricorrenti, dedotto in ordine alla ritenuta insussistenza della circostanza aggravante della premeditazione.
Al riguardo, va considerato che, secondo Sez. U, n. 337/2009 del 18.12.2008 (ric. Antonucci e altri, Rv. 241575; tra le sezioni semplici, Sez. 5, n. 34016 del 9/4/2013, F., Rv. 256528), elementi costitutivi della circostanza aggravante della premeditazione – prevista nei delitti di omicidio volontario ex art. 577, comma 1, n. 3, c.p. e di lesione personale ex art. 585, comma 1, c.p. – sono un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso (elemento di natura cronologica) e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica).
La prova della premeditazione deve essere necessariamente tratta da fattori estrinseci e sintomatici, quali il previo studio delle occasioni ed opportunità per l’attuazione, un’adeguata organizzazione di mezzi e la predisposizione delle modalità esecutive del crimine, la causale, l’anticipata manifestazione del proposito, la violenza e la reiterazione dei colpi inferti (Sez. 1, n. 3082 del 5/3/1996, Travagnin, Rv. 204299 e, tra le più recenti, Sez. 1, n. 4698 del 20/11/2013, dep. 31/1/2014, Fetto, n.m.)
È stato, pure, di recente, condivisibilmente precisato, che, in tema di omicidio volontario, l’agguato costituisce, in astratto, indice rivelatore della premeditazione, siccome sinonimo di imboscata o di insidia preordinata che postula un appostamento, protratto per un tempo più o meno lungo, in attesa della vittima designata ed in presenza di mezzi e modalità tali da non consentire dubbi sul reale intendimento dell’insidia, sicché già il pur breve arco di tempo dell’attesa può valere a soddisfare i requisiti ideologico e cronologico della premeditazione (Sez. 5, n. 26406 dell’11/3/2014, P.G. in proc. Morfei e altro, Rv. 260219).
Infine, va rammentato che l’aggravante in parola è estesa al concorrente che non abbia direttamente premeditato il reato qualora lo stesso abbia acquisito, prima dell’esaurirsi del proprio apporto volontario alla realizzazione dell’evento criminoso, l’effettiva conoscenza dell’altrui premeditazione, così facendo propria la particolare intensità del dolo del correo (Sez. 5, n. 29202 dell’11/3/2014, C, Rv. 262383; Sez. 5, n. 4977 dell’8/10/2009, dep. 8/2/2010, Finocchiaro, Rv. 245581; Sez. 1, n. 12879 del 24/1/2005, Bagarella ed altri, Rv. 231124).
Nel caso in esame, le sentenze integrate dei Giudici di merito, con argomentazioni correttamente sviluppate, hanno ravvisato la contestata aggravante, osservando in modo congruo:
– che la decisione di uccidere la M. , con C.S. nel ruolo di determinatore, era stata assunta alcune settimane, circa un mese, prima della consumazione del delitto;
– che i coimputati C.V. , CA. e G. avevano aderito alla proposta formulata da C.S. , facendo propria l’intensità del dolo del correo;
– che all’accordo criminoso erano seguiti sopralluoghi, prolungati contatti telefonici e riunioni fra gli imputati, sino alla finale scrupolosa predisposizione dei mezzi per portare a compimento il delitto;
– che la fase dell’esecuzione aveva assunto la forma di un vero e proprio agguato, essendosi i due ricorrenti, poco dopo raggiunti da C.V. , appostati per un significativo lasso di tempo nell’androne della palazzina dove abitava la vittima in attesa di essa, agevolati dal buio provocato con la manomissione delle plafoniere ivi ubicate e usando guanti in lattice;
– che il proposito delittuoso era persistito, nel tempo, in capo a tutti gli imputati.
A fronte del descritto argomentare, privo di manifesti vizi logici, la difesa del CA. ha opposto incongrue obiezioni fondate sul contenuto della perizia c. , che, al contrario, per quanto sopra esposto, aveva ravvisato nel ricorrente piena capacità di autodeterminarsi e di prevedere le conseguenze dei propri atti.
Le censure mosse dalla difesa del G. sul punto sono, da una parte, apodittiche, laddove genericamente e infondatamente lamentano l’assenza, nel provvedimento impugnato (come detto, da integrare con la pronuncia di primo grado), di un riferimento alla progettazione dell’omicidio, viceversa adeguatamente trattata, e, dall’altro, oppongono un’arbitraria interpretazione del progetto stesso come “mutevole” (cioè oscillante tra l’omicidio e le lesioni), fondata esclusivamente sulla parziale “ritrattazione” di C.S. , peraltro logicamente smentita dalla Corte di merito, e “leggono” in modo giuridicamente erroneo i “ripensamenti” manifestati dai ricorrenti, in quanto gli stessi, al contrario di quanto assunto, denotano l’esistenza di controspinte psicologiche che sono state alla fine superate, così dimostrando, a fortiori, la persistenza del proposito criminoso lungo un significativo lasso di tempo richiesto per la configurabilita dell’aggravante della premeditazione.
4. È, ancora, infondato – con le precisazioni che seguono – il motivo, comune ai due ricorrenti, relativo alla ritenuta insussistenza della circostanza aggravante dei motivi abietti e futili.
La giurisprudenza consolidata di questa Corte ha chiarito che, ai fini dell’aggravante in esame, per motivo deve intendersi l’antecedente psichico della condotta, ossia l’impulso che ha indotto il soggetto a delinquere, e che il motivo deve qualificarsi futile quando la determinazione delittuosa sia stata causata da uno stimolo esterno cosi lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, ovvero privo di quel minimo di consistenza che la coscienza collettiva esige per operare un collegamento logicamente accettabile con l’azione commessa, da apparire, per la generalità delle persone, assolutamente insufficiente a provocare l’azione delittuosa, tanto da poter considerarsi, più che una causa determinante dell’evento, un pretesto o una scusa per l’agente di dare sfogo al suo impulso criminale (fra le più recenti, vedi Sez. 5, n. 41052 del 19/6/2014, Barnaba, Rv. 260360).
La circostanza aggravante ha, quindi, natura prettamente soggettiva, dovendosene individuare la ragione giustificativa nel fatto che la futilità del motivo a delinquere è indice univoco di un istinto criminale più spiccato e della più grave pericolosità del soggetto che legittima l’applicazione di un più severo trattamento punitivo.
Per motivo abietto si intende, invece, quello turpe, ignobile, che rivela nell’agente un grado tale di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza in ogni persona di media moralità, nonché quello spregevole o vile, che provoca ripulsione ed è ingiustificabile per l’abnormità di fronte al sentimento umano (fra molte, Sez. 1, n. 5448 del 23/11/2005, dep. 13/2/2006, Calì ed altri, Rv. 235093).
Si tratta, dunque, di due aggravanti caratterizzate da autonoma e distinta fisionomia strutturale che non possono in alcun modo considerarsi “equipollenti”.
Tale precisazione si rende necessaria perché la Corte di Ancona, nel rispondere alle censure dedotte in appello dai ricorrenti, si è sostanzialmente diffusa soltanto sui motivi abietti, correttamente ravvisandone la sussistenza nel cinico “calcolo contabile” operato dal C.S. , il quale si era risolto a uccidere la M. , considerata come una “cosa” di sua “appartenenza”, per la non convenienza economica della prosecuzione di un rapporto che, ormai, presentava per lui solo voci passive di spesa (denaro, gioielli etc), senza neppure la gratificazione di poter fruire delle prestazione sessuali della donna, ancorché a pagamento, sicché tale forma di intollerabile “insubordinazione” andava punita con la morte.
Quanto alla connotazione di futilità dei motivi, la Corte si è limitata ad accennare alla “evidente sproporzione” con l’assassinio compiuto, con ciò implicitamente rimandando alla motivazione in termini di abiezione dei motivi come poc’anzi precisato.
Si tratta di un errore di diritto suscettibile di correzione, ai sensi dell’art. 619 c.p.p., che non influisce in modo decisivo sul dispositivo, in quanto, per procedere all’aumento di pena determinato dall’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p., richiamata dall’art. 577, comma 1, n. 4), c.p., è sufficiente la ricorrenza o dei motivi abietti – come ritenuto nella specie – o dei motivi futili, non di entrambi, come è reso palese dalla particella disgiuntiva “o” usata dal legislatore (“l’aver agito per motivi abietti o futili”).
Così corretta, la motivazione resiste alle obiezioni dedotte dalle difese dei ricorrenti.
A tal proposito, va ricordato che l’aggravante in parola, pur avendo natura soggettiva, è estensibile al concorrente che, con il proprio volontario contributo, abbia dato adesione alla realizzazione dell’evento, rappresentandosi e condividendo gli sviluppi dell’azione esecutiva posta in essere dall’autore materiale del delitto e, perciò, maturando e facendo propria la particolare intensità del dolo che abbia assistito quest’ultima (Sez. 1, n. 13596 del 28/9/2011, dep. 12/4/2012, Corodda e altri, Rv. 252348).
Coerente con l’enunciato principio è l’argomentare della Corte marchigiana, che ha esteso l’aggravante de qua anche al CA. e al G. , i quali avevano consapevolmente aderito all’esternato movente che animava C.S. , tanto da prestarsi a fungere da esecutori materiali dell’omicidio.
Errata in diritto è, quindi, la censura svolta dalla difesa del CA. in base al carattere soggettivo della circostanza e al difetto di prova in ordine al movente che aveva spinto detto ricorrente.
Inammissibili, perché articolate in punto di fatto e sul piano del merito, le considerazioni formulate dalla difesa del G. sulla pretesa “succubanza” del predetto ricorrente rispetto al C. .
5. Parimenti inammissibile, e per le medesime ragioni, le censure svolte, sempre nell’interesse del G. , a proposito della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 5), c.p., esattamente ancorata dalla sentenza impugnata allo strapotere fisico di tre uomini su una ragazza dal fisico minuto ed alle condizioni ambientali caratterizzanti le due fasi dell’aggressione (tempo di notte in uno stabile scarsamente abitato nel periodo invernale, il cui androne era stato privato dell’illuminazione; fase finale in un arenile deserto).
6. Manifestamente infondate le censure dedotte dai due ricorrenti sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
La Corte di Assise di Appello ha correttamente basato il diniego sulla estrema gravità del fatto, sulla inusitata brutalità ed efferatezza delle modalità attuative, sulla mancata resipiscenza di entrambi gli imputati (l’offerta risarcitoria del CA. era rimasta su un piano meramente verbale), sulla condizione di pluripregiudicati che accomunava i medesimi.
La Corte si è anche fatta carico di valutare gli elementi addotti dalle difese a sostegno delle invocate attenuanti, spiegando, in modo del tutto congruo, perché non potessero considerarsi risolutivi.
In particolare, non potevano reputarsi influenti le condizioni di vita e personali del G. , cresciuto in un ambiente socio-culturale degradato e caratterialmente fragile, posto che l’imputato aveva avuto più di un trascorso giudiziario e avrebbe dovuto rielaborare, presentatasene l’occasione, la negatività di certe condotte devianti, mentre, per come emerso dalle intercettazioni ambientali del 27.1.2012, a poche ore dal delitto, subito si era preoccupato di istruire i correi sulla versione da riferire alla P.G., così dimostrando di avere piena coscienza della necessità di organizzare una comune difesa credibile, “il tutto a smentita della sua asserita posizione di sudditanza psicologica dagli altri che da quella fragilità caratteriale…si vorrebbe far derivare”.
Quanto al CA. , oltre alle considerazioni svolte sulla sua capacità (di cui già si è detto), la Corte di merito ha puntualmente messo in rilievo la risolutezza e lucidità nell’uccidere e la totale indifferenza per la sorte subita dalla giovane vittima, platealmente smascherata dalle immagini estrapolate dal sistema di videosorveglianza installato presso il bar della stazione di servizio “ENI” sito nella frazione Porto Potenza Picena, che raffiguravano il ricorrente intento, poco dopo il delitto, a far colazione ridendo e scherzando con i correi (vedi par. 2.3.3., parte finale, della sentenza impugnata).
Correttamente motivata, dunque, unitamente al diniego delle circostanze attenuanti generiche, è stata la decisione dei Giudici dell’appello in ordine alla insussistenza dei presupposti per procedere a una riduzione del trattamento sanzionatorio nei confronti di tutti gli imputati (implicitamente ritenendosi ingiustificate eventuali differenziazioni, profilo, quest’ultimo, genericamente accennato dalla difesa del CA. ).
7. I ricorsi del CA. e del G. vanno, in conclusione, rigettati e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.
8. Il ricorso proposto nell’interesse di C.S. va dichiarato inammissibile.
Ed invero, la censura sulla contestata aggravante della premeditazione consiste in una generica e inconferente doglianza in ordine al più favorevole trattamento sanzionatorio riservato al figlio V. nel separato processo celebrato a suo carico, mossa, oltre tutto, senza tener conto del fatto che, in esito al giudizio di appello, l’aggravante in questione, esclusa dal primo Giudice, era stata ravvisata anche nei confronti del congiunto.
La seconda censura, relativa alla esclusione del concorso anomalo ex art. 116 c.p., si fonda su una lettura alternativa delle emergenze istruttorie in senso favorevole all’interessato, esclusivamente basata sulla “ritrattazione” delle prime dichiarazione ammissive di responsabilità, risultata nettamente smentita dalle chiamate in correità dei concorrenti nel reato e dalle ulteriori evidenze.
8.1. Alla inammissibilità del ricorso consegue ex lege la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo indicare in Euro 1.000,00.
Tutti i ricorrenti vanno, infine, condannati alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile costituita, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi di CA.Se.Ca. e G.S. , che condanna al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso di C.S. che condanna al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.
Condanna tutti gli imputati alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile M.V.I. , che liquida in complessivi Euro 5.400,00, oltre accessori di legge.
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