Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 2 dicembre 2015, n. 47590
Ritenuto in fatto
La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 18 settembre 2014 ha confermato la condanna alla pena di giustizia che il Tribunale di Piacenza aveva inflitto a B.L.M. il precedente 18 giugno 2010 avendolo riconosciuto colpevole dei reato di cui all’art. 171-ter, comma 1, lettera b), della legge n. 633 del 1941 per avere riprodotto a fine di lucro in copie fotostatiche 30 opere letterarie complete destinate alla didattica, nonché sei pagine di altra opera a contenuto tecnico.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il B., assistito dal proprio difensore, deducendo tre motivi di impugnazione.
Col primo di essi il ricorrente lamentava il fatto che i giudici del merito avessero dedotto la natura abusiva della duplicazione delle opere rinvenute presso la sua copisteria dalla sola mancanza su di esse dei cosiddetto bollino Siae, senza tenere conto che la Corte di giustizia europea con la nota sentenza Schwibbert ha rilevato che, in assenza di una preventiva procedura di notificazione da parte del singolo Stato alla competente Commissione dell’Unione europea, non è opponibile neppure ai singoli cittadini la norma o regola tecnica che impone l’apposizione del predetto bollino sui supporti ove sono riprodotte opere di arti figurative; poiché lo Stato italiano ha provveduto al perfezionamento di detta procedura solo il 21 aprile 2009, per i fatti precedenti a tale data, fra i quali vi sono quelli di causa accertati in data 6 dicembre 2007, la prova della abusività della duplicazione non può essere desunta, come invece fatto dai giudici del merito, solamente dalla mancanza della stampiglia del predetto bollino.
Quale secondo motivo di impugnazione il ricorrente ha dedotto la inosservanza o violazione dell’art. 171-ter, comma 1, lettera b), della legge n. 633 del 1941, in quanto i giudici dei merito avrebbero ritenuto punibile la condotta posta in essere dal prevenuto, sebbene la stessa non fosse motivata dal fine di lucro, elemento necessario per la sua rilevanza penale; ha, infatti, chiarito il ricorrente che le opere in questione erano poste in vendita ad un prezzo che non superava il costo ordinario dei numero delle fotocopie eseguite per la riproduzione dell’opera, mentre ad avviso del ricorrente il fine di lucro sarebbe stato evidenziabile solo nel caso in cui egli avesse praticato, in ragione del contenuto della fotocopia, trattandosi di opera coperta dal diritto d’autore, un sovrapprezzo ulteriore rispetto al’ordinario costo della fotocopia.
Come ultimo motivo di censura il ricorrente si è doluto del fatto che la Corte di Bologna gli abbia negato il beneficio dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., laddove sia il lucro conseguito dall’agente che il danno patito dalla parte offesa per effetto della condotta dei primo dovevano ritenersi di speciale tenuità.
Considerato in diritto
Il ricorso presentato dal B. è inammissibile.
Con riferimento al primo motivo di impugnazione – con il quale in sintesi il ricorrente lamenta il fatto che la Corte di Bologna non abbia applicato alla fattispecie i principi derivanti dalla ben nota sentenza Schwibbert della Corte di giustizia europea, in forza della quale, attesa la sua incompatibilità con le norme eurounitarie, non è possibile sanzionare, relativamente agli episodi anteriori al 21 settembre 2009, ai sensi dell’art. 171-ter della legge n. 633 del 1941, la riproduzione e duplicazione di supporti contenenti audiovisivi sulla sola base della mancanza su di essi della stampiglia riproducente il cosiddetto bollino SIAE (cfr. in tal senso fra le molte: Corte di cassazione, Sezione III penale, 20 gennaio 2012, n. 2376; idem Sezione III penale, 21 giugno 2011, n. 24823) – rileva la Corte la assoluta inconferenza del pur valido principio rispetto al caso di specie.
Come, infatti, chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale in tema di diritto d’autore, relativamente ai reati di detenzione per la vendita di supporti privi del contrassegno Siae, l’inopponibilità nei confronti dei privati dell’obbligo di apposizione del predetto contrassegno quale effetto dalla mancata comunicazione alla Commissione dell’Unione Europea di tale “regola tecnica” in adempimento della direttiva europea 83/179/CE, comporta l’assoluzione del soggetto agente (Corte di cassazione, Sezione III penale, 3 settembre 2008, n. 34553), presuppone che l’obbligo della apposizione del contrassegno, non sia stato introdotto dal legislatore nazionale anteriormente alla data del 31 marzo 1983, coincidente con la data di entrata in vigore della direttiva 83/189/CE, ovvero che, solo se introdotto successivamente, sia stato, in adempimento di detta direttiva, previamente comunicato dallo Stato italiano alla Commissione dell’Unione Europea (Corte di cassazione, Sezione III penale, 29 maggio 2008, n. 21579).
Ciò posto rileva la Corte che nel caso delle opere soggette a contratto di edizione, quali sono le opere che si sostanziano in un libro stampato, già l’art. 123 del testo originario della legge n. 633 del 1941 prevedeva che gli esemplari dell’opera dovessero essere contrassegnati in conformità con quanto stabilito dal regolamento di attuazione della legge sopraindicata; a sua volta siffatto regolamento, si tratta del regio decreto n. 1369 del 1942, prevedeva, all’art. 12 che il contrassegno de quo fosse apposto (…) a mezzo della SIAE, salvo che l’autore non vi avesse provveduto direttamente, contrassegnando ciascun esemplare con la propria firma autografa.
La ampia preesistenza, pertanto, dell’obbligo di apposizione della cosiddetta bollinatura SIAE sulle edizioni cartacee, rispetto alla entrata in vigore della sopracitata direttiva comunitaria, rende irrilevante nel caso che ora interessa la mancata notificazione alla competente Commissione dell’Unione europea della prescrizione tecnica vigente nello Stato italiano avente ad oggetto i soli supporti digitali ed esclusivamente in relazione alla quale è applicabile la disciplina ricavabile dalla decisione assunta dalla Corte europea di giustizia riguardo al caso Schwibbert.
Neppure può attribuirsi pregio alcuno al secondo motivo di impugnazione, concernente l’assenza del fine di lucro nella condotta del prevenuto, posto che la indiscussa destinazione alla vendita delle dei volumi indebitamente riprodotti dal B. integra certamente l’elemento psicologico del fine di lucro previsto dalla norma in questione (sul fine di lucro come elemento caratterizzante sotto il profilo soggettivo i reati di cui all’art. 171-ter della legge n. 633 del 1941, cfr.: Corte di cassazione, Sezione III penale, 23 febbraio 2012, n. 7051; idem Sezione III penale, 28 dicembre 2010, n. 45567).
Tale specifica finalità ricorre, infatti, ogniqualvolta il movente che abbia spinto il soggetto a delinquere sia stato legato alla possibilità di trarre dalla propria condotta illecita un qualche guadagno patrimoniale che sia finanziariamente apprezzabile.
Nel caso di specie è evidente che, quand’anche il prezzo al quale il prevenuto metteva in vendita gli esemplari dei libri da lui illecitamente duplicati fosse stato prossimo od anche coincidente con quello praticato per il mero servizio di fotocopiatura dei medesimi (contenuto entro limiti quantitativi che ne determinavano la liceità), la finalità commerciale comunque sottesa all’intera operazione vale di per sé ad integrare, stante il programmato scambio di cosa contro prezzo, il necessario fine di lucro, non dovendosi quest’ultimo identificare come una sorta di plusvalenza, rispetto al prezzo di mercato di altro analogo servizio svolto lecitamente, derivante all’agente quale impropria contropartita connessa alla modalità illecita di realizzazione dell’altra operazione.
Quanto, infine, alla dedotta omessa motivazione in ordine alla mancata concessione della attenuante di cui all’art. 62, n. n. 4) cod. pen., prevista, nel caso di reati determinati da motivi di lucro, laddove quest’ultimo come l’evento dannoso o pericoloso cagionato, siano stati di speciale tenuità, osserva il Collegio che nessun obbligo il giudice di appello aveva di motivare sulla mancata concessione della circostanza de qua posto che siffatto dovere per sussistere avrebbe presupposto, trattandosi di sentenza di appello confermativa di quella di primo grado, la presentazione da parte dell’odierno ricorrente di uno specifico motivo di gravame avverso la mancata concessione della detta attenuante da parte dei giudice di prime cure; rilevato che nel caso di specie tale elemento catalizzatore dell’obbligo di motivazione non è riscontrabile, nessuna censura di omessa motivazione può essere efficacemente mossa sul punto alla sentenza impugnata.
La dichiarazione di inammissibilità del ricorso determina, visto l’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, equitativamente così determinata, di euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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