Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 11 novembre 2015, n. 23073
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VENUTI Pietro – Presidente
Dott. MANNA Antonio – Consigliere
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere
Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere
Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 28147/2014 proposto da:
(OMISSIS) P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1266/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 25/09/2014 R.G.N. 571/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/07/2015 dal Consigliere Dott. ADRIANA DORONZO;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. (OMISSIS), con ricorso proposto ai sensi della Legge 28 giugno 2012, n. 92, articolo 1, comma 48, ha impugnato il licenziamento intimatogli dalla (OMISSIS) (d’ora in poi solo (OMISSIS)), della quale era dipendente con mansioni varie, tra cui anche quella di addetto alla cassa nell’impianto sportivo gestito dalla societa’ datrice di lavoro. Il licenziamento e’ stato intimato a seguito di una contestazione disciplinare con la quale la societa’ ha addebitato al lavoratore l’emissione di un numero abnorme di scontrini non fiscali, non seguiti dall’incasso delle somme relative. (OMISSIS) ha pertanto chiesto al Tribunale di Bologna l’accertamento e la declaratoria della nullita’, o annullabilita’ o illegittimita’ del licenziamento intimatogli in data 25/9/2012, perche’ privo di giusta causa o giustificato motivo per insussistenza – materiale o giuridica – del fatto contestato o perche’ il fatto rientrava tra le condotte punibili con sanzioni conservative ai sensi del C.C.N.L. per i dipendenti dalle imprese ed enti di gestione di impianti sportivi, e comunque perche’ sproporzionato. Ha quindi chiesto la reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi della Legge n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4, come novellato dalla Legge n. 92 del 2012, e la condanna della societa’ al pagamento in suo favore della somma dovuta titolo di indennita’ risarcitoria ex articolo 18 cit., commisurata alle retribuzioni dovute dal momento del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, nonche’ al versamento in favore dell’Inps dei contributi assistenziali e previdenziali come per legge.
7.2. Il Tribunale ha accolto la domanda ed ha condannato la societa’ alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nonche’ al risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni globali di fatto dal giorno dei licenziamento fino alla reintegrazione, nei limiti di cui come modificato dalla Legge n. 92 del 2012, articolo 18, comma 4, detratto l’aliunde perceptum, oltre agli accessori di legge. Ha condannato altresi’ il datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
1.3. L’ordinanza e’ stata poi confermata con sentenza resa dallo stesso Tribunale, a seguito dell’opposizione proposta dalla (OMISSIS), la quale ha poi proposto reclamo, ai sensi dell’articolo 1, comma 58 Legge cit., dinanzi alla Corte d’appello di Bologna.
1.4. Infine, la Corte bolognese, con sentenza depositata in data 25/9/2014, ha rigettato il reclamo e condannato la societa’ al pagamento delle spese di lite.
1.5. Contro la sentenza, la (OMISSIS) propone ricorso per cassazione, affidato a nove motivi, cui resiste con controricorso la societa’. Le parti depositano memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso la societa’ deduce la nullita’ della sentenza e del procedimento ex articolo 360 c.p.c., n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1 comma 47, legge cit., degli articoli 125, 420, 421 e 156 c.p.c.. Deduce, in sintesi, che il ricorrente non aveva allegato nel ricorso introduttivo del giudizio che la fattispecie rientrava nell’ambito applicativo della Legge n. 92 del 2012, articolo 1, comma 48 e in particolare non aveva dedotto la sussistenza del requisito dimensionale che costituisce un presupposto indefettibile per l’applicabilita’ del rito cosiddetto “Fornero”. Aggiunge che, in assenza di tale deduzione, il giudice di primo grado non poteva esercitare i propri poteri istruttori ufficiosi e utilizzare elementi acquisiti al processo, come la visura camerale prodotta da essa ricorrente, al fine di ritenere provato il requisito dimensionale.
1.1. Il motivo e’ infondato. L’individuazione dei presupposti per l’applicabilita’ del rito previsto dall’articolo 1, comma 47 e segg. Legge cit. rientra nei poteri-doveri del giudice, al quale compete in via preliminare verificare la compatibilita’ della domanda con il tipo di rito e di tutela prescelta. Come e’ stato osservato in dottrina, il rito speciale previsto dalle norme citate non costituisce uno strumento finalizzato alla tutela delle ragioni del dipendente – con la possibilita’ che questo scelga il rito da seguire – bensi’ una tecnica di tutela volta ad abbreviare i tempi necessari per ottenere una decisione definitiva ogni qual volta la domanda abbia ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento ascrivibile ad una delle ipotesi regolate dall’alt. 18 citato. Correlativamente, il lavoratore licenziato non puo’ rinunciare al procedimento speciale, perche’ la specialita’ non e’ prevista nel suo esclusivo interesse.
1.2. Questa lettura delle norme, oltre ad essere fedele alla lettera della legge – che non discorre di facoltativita’ disponendo “la domanda… si propone con ricorso al tribunale… ” – risponde alla sua rado, che e’ quella di “accelerare le relative controversie”, come esplicitamente si esprime il legislatore nello stesso articolo 1, e quindi (anche) di ridurre i “costi indiretti” derivanti dalla durata del processo. Ne consegue che il lavoratore licenziato non puo’ rinunciare al procedimento specifico, perche’ la specialita’ non e’ prevista nel suo esclusivo interesse ma risponde (anche) a finalita’ di carattere pubblicistico. Dall’obbligatorieta’ del rito scaturisce, come logica conseguenza, l’attribuzione, in via esclusiva, all’autorita’ giudiziaria, secondo il principio iura novit curia, del potere di qualificare la domanda in base al petitum sostanziale e di individuare cosi’ il rito concretamente applicabile. Ulteriore conseguenza e’ che, ai fini dell’adozione del rito speciale, il ricorrente non ha l’onere della specifica allegazione della sussistenza del requisito dimensionale, ove si consideri per un verso che il ricorso, per la natura sommaria della prima fase, non soggiace al rigore assertivo e istruttorio previsto per la (eventuale) fase successiva di opposizione, come si evince dal richiamo per la sua redazione al solo articolo 125 c.p.c. e per altro verso che l’allegazione puo’ essere desunta dal tipo di tutela richiesto, salva la necessita’ della prova del requisito dimensionale anche in ragione della condotta processuale dell’altra parte.
1.3. Rimangono cosi’ assorbite le ulteriori questioni, relative alla ripartizione degli oneri probatori sull’esistenza del requisito dimensionale ed all'(asseritamente) illegittimo esercizio dei poteri istruttori ufficiosi da parte del giudice del merito che avrebbe cosi’ attribuito rilievo alle visure camerali, inidonee allo scopo. In ordine alla prima questione, deve rilevarsi che il lavoratore che chieda di usufruire della tutela reale apprestata dalla Legge n. 300 del 1970, articolo 18, non ha l’onere di provare il requisito dimensionale dell’impresa in cui era inserito, gravando tale onere sul datore di lavoro che ne eccepisca l’inesistenza (Cass. Sez. Un., 10 gennaio 2006, n. 141). Quanto alla seconda, di essa non vi e’ cenno nella sentenza impugnata, sicche’ era onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilita’ per novita’ della censura, non solo di allegare l’avvenuta sua deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicita’ di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., 18 ottobre 2013, n. 23675). E, ancora, deve ricordarsi che la valutazione e la scelta degli elementi probatori e’ attivita’ istituzionalmente riservata al giudice di merito, al quale solo compete, nell’esercizio del suo potere discrezionale, individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilita’ e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti piu’ idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione e tale potere non e’ sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruita’ della motivazione del relativo apprezzamento (da ultimo, ord. Cass., ord. 26 gennaio 2015, n. 1414; Cass., 11 maggio 2007, n. 10847).
2. Con il secondo motivo, la societa’ denuncia la violazione e la falsa applicazione della Legge n. 92 del 2012, articolo 18, comma 4, nonche’ la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2907 c.c., articoli 99 e 112 c.p.c., ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 4.
Censura la sentenza nella parte in cui ha accordato una tutela non richiesta dal lavoratore, il quale ha invocato l’applicazione dell’articolo 18 ed una tutela risarcitoria commisurata alle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello della reintegra, diversa da quella poi effettivamente riconosciutagli.
2.1. Anche questo motivo e’ infondato. La Corte territoriale ha infatti osservato che il lavoratore ha richiesto nelle sue conclusioni la tutela di cui all’articolo 18 nel “testo novellato”, e tanto di per se’ esclude che possa ravvisarsi il denunciato vizio di extrapetizione. Al riguardo deve poi osservarsi che il nuovo testo dall’articolo 18, come riformato dalla Legge n. 92 del 2012, nel prevede una gradualita’ di tutele collegate al tipo di licenziamento accertato, attribuisce al giudice il potere-dovere di qualificare i fatti allegati in ricorso e di ricondurli alle ipotesi ivi previste, anche ai fini di determinare il regime sanzionatorio applicabile. Si tratta peraltro di un principio piu’ volte affermato da questa Corte, secondo cui, poiche’ la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche, devolute al giudice, dei fatti che il datore di lavoro ha posto a base del recesso, la domanda avente ad oggetto la dichiarazione di illegittimita’ del licenziamento per sussistenza o insussistenza della giusta causa comprende la minor domanda relativa alla declaratoria della illegittimita’ del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, ed abilita il giudice a pronunciarsi in tal senso anche in mancanza di espressa richiesta della parte, senza che vi sia lesione dell’articolo 112 c.p.c. (Cass., 17 gennaio 2008, n. 837). Ne consegue che, nelle piu’ ampie pretese connesse all’annullamento del licenziamento e consistenti nella tutela reintegratoria piena, ovvero nella richiesta di reintegrazione e risarcimento del danno commisurato a tutte le retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, deve ritenersi compresa anche quella attenuata, come quella prevista dall’articolo 1, comma 4 Legge cit. derivante da un licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo di cui sia accertata l’insussistenza del fatto, per il principio secondo cui una pretesa piu’ ampia contiene in se’ una pretesa di minore portata, sempre che i fatti allegati con la domanda rimangano immutati (Cass., 19 dicembre 2006, n. 27104; Cass. 19 febbraio 2015, n. 3320).
3. Con il terzo motivo, la parte censura la sentenza ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, gia’ oggetto di discussione, assumendo che, pur essendosi in presenza di una cosiddetta “doppia conforme”, le ragioni di fatto poste a base della decisione del primo giudice sono diverse da quelle poste a base della sentenza d’appello.
Il motivo e’ sotto un duplice aspetto inammissibile.
3.1. Va preliminarmente osservato che non risulta l’indicazione specifica del fatto oggetto di discussione tra le parti e non esaminato dalla Corte, ma e’ genericamente criticata l’attivita’ valutativa delle prove del giudice del reclamo. Anche prima della riformulazione dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, era costante l’affermazione che tale norma non conferisse alla Corte di legittimita’ il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento. Il nuovo testo dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sostituito dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera b), convertito, con modificazioni, nella Legge 7 agosto 2012, n. 134, prevede che la sentenza puo’ essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti”. A norma dell’articolo 54, comma 3, del medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012). Nel caso in esame, la sentenza gravata e’ stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012, cosi’ che la norma trova applicazione al caso in esame.
3.2. Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito, con riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una quaestio facti, che il nuovo testo dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consente tale denuncia nei limiti dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
In proposito, e’ stato, altresi’, affermato che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisivita’”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per se’, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorche’ la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. 8053/14 cit.).
3.3. Il “fatto storico” censurabile ex articolo 360 c.p.c., n. 5, non puo’, dunque, identificarsi genericamente con l’errata o contraddittoria valutazione delle deposizioni dei testi: un migliore, piu’ appagante, coordinamento degli elementi di giudizio non denuncia un vizio logico, se la motivazione, adottata in concreto, rientra nell’ambito della discrezionalita’ valutativa del giudice di merito, senza violare le regole logiche o le leggi della razionalita’ (Cass., 26 febbraio 2003, n. 2869; Cass., 13 dicembre 2013, n. 27944); tantomeno sussiste vizio di motivazione sol perche’ “vi sia difformita’ rispetto alle attese e alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati”, altrimenti “il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito, che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalita’ del giudizio di cassazione” (Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24148).
3.4. Ma, anche a prescindere da tale rilievo, l’inammissibilita’ del motivo discende dalla disposizione di cui all’articolo 348 ter c.p.c., comma 5.
Con riferimento al contenuto ed al procedimento del reclamo previsto dalla Legge n. 92 del 2012, articolo 1, le norme contenute nei commi da 58 a 61 Legge cit., sono assai scarne, sicche’ vi e’ necessita’ di integrazione della relativa disciplina attraverso il rinvio alle norme dell’appello nel rito del lavoro. Non pare invero dubitabile, in accordo con la dottrina, che il reclamo costituisca “un vero e proprio appello, a cognizione piena, nonostante il nome utilizzato e nonostante la deformalizzazione che caratterizza… la fase istruttoria”. Ne’ si ravvisano ragioni di incompatibilita’ per l’applicazione, nel giudizio di cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello sul reclamo, anche dell’articolo 348 ter c.p.c., nella parte riguardante il vizio di motivazione per la pronuncia cosiddetta “doppia conforme” (Cass., 10 luglio 2015, n. 14416; Cass., 29 ottobre 2014, n. 23021).
3.5. L’articolo 348 ter, comma 5, prescrive che la disposizione di cui al comma 4 – ossia l’esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all’articolo 360, comma 1, nel caso in cui l’inammissibilita’ dell’appello sia stata dichiarata per le stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della sentenza impugnata – si applica, fuori dei casi di cui all’articolo 348 bis, comma 2, lettera a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado. In altri termini, il vizio di motivazione non e’ deducibile in cassazione in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme.
3.6. Occorre aggiungere che per dichiarare inammissibile il motivo di ricorso, fondato sull’articolo 360 c.p.c., n. 5, occorre che l’adesione del giudice di appello al giudizio di fatto del giudice di primo grado costituisca il fondamento della sentenza di rigetto dell’appello. Infatti, dal complessivo impianto normativo si deduce che la previsione normativa ricorre solo quando la conferma concerna sia il dispositivo sia la ricostruzione del fatto; se invece il giudice di secondo grado ricostruisce il fatto in modo differente da quello formulato in primo grado, pur non mutando il dispositivo, la limitazione non puo’ operare (Cass., 29 ottobre 2014, n. 23021). Cio’ non significa che le due motivazioni debbano essere totalmente sovrapponibili, ne’ che vi debba essere identica valutazione delle risultanze probatorie, rimanendo libero il giudice del reclamo, come quello dell’appello, di scegliere tra le varie prove quelle ritenute piu’ idonee a sorreggere la motivazione.
3.7. Il caso in esame rispetta questa condizione. La Corte, nel confermare integralmente la sentenza del Tribunale, ha condiviso la ricostruzione dei fatti operata dal primo giudice e la sua valutazione. Sullo specifico motivo di gravame proposto dalla societa’ e riguardante un’erronea ricostruzione del fatto storico, ha espressamente condiviso il ragionamento compiuto dal primo giudice, in ordine al “difetto di prova del fatto contestato, sia quanto al numero di episodi di emissione irregolare di scontrini sia quanto all’elemento intenzionale e alla effettiva sottrazione delle somme rispetto alla naturale destinazione nelle casse della societa’”, riprendendo il giudizio del tribunale nella parte in cui ha considerato “modesto” il numero degli episodi accertati rispetto alla durata delle investigazioni.
3.8. La ricorrente, oltre a non avere dedotto la diversita’ della quaestio facti a fondamento delle due decisioni di merito, ha incentrato le sue doglianze unicamente su asserite “discrasie” emergenti dalle diverse valutazioni delle prove date dai giudici dei due diversi gradi: in specifico, rileva che il Tribunale ha valutato inattendibili le deposizioni di alcuni testi, che invece la Corte ha ritenute irrilevanti, e che non sarebbe stata valutata dal giudice del reclamo la circostanza della pubblicazione su un giornale locale dei fatti addebitati al lavoratore. Si tratta di una mera difformita’ del percorso argomentativo seguito dalle due sentenze nella valutazione della prova, che non scalfisce la univoca ricostruzione della vicenda che ha dato luogo al licenziamento ne’ l’apprezzamento dei fatti, nel senso della loro inidoneita’ a dar luogo al un recesso legittimo.
3.9. Deve infine rilevarsi che, anche sotto il profilo temporale, la norma si applica al caso in esame. Il giudizio per reclamo e’ stato infatti instaurato, mediante il deposito del ricorso, in data 14/7/2014, successivamente all’entrata in vigore dell’articolo 348 ter c.p.c., come inserito dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera a), convertito con modificazioni nella Legge 7 agosto 2012, n. 134. Invero, ai sensi dell’articolo 54, comma 2, del medesimo decreto, la disposizione si applica ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato (o con citazioni di cui sia stata richiesta la notificazione) dal 30 giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto (12/8/2012).
4. Con il quarto motivo la societa’ censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’articolo 116 c.p.c., nella parte in cui la Corte ha modificato arbitrariamente il contenuto di alcune dichiarazioni testimoniali, estrapolandone solo una parte. Il motivo e’ inammissibile sotto il profilo della violazione di legge. Ed invero, quando nel ricorso per cassazione e’ denunziata la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilita’, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbono ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimita’ (Cass., da ultimo, ord. 15 gennaio 2015, n. 635; Cass., 16 gennaio 2007, n. 828). Il motivo e’ altresi’ inammissibile per difetto di autosufficienza non avendo la parte trascritto le prove non valutate o erroneamente valutate dalla corte territoriale, riportandone solo brevi stralci, ne’ ha indicato in modo chiaro e preciso in quale verbale di causa esse sarebbero state raccolte e dove i verbali sarebbero attualmente rinvenibili. In proposito va ricordato che quando siano in gioco atti processuali, ovvero documenti o prove orali la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ex articolo 360 c.p.c., n. 3, di carenze motivazionali, ex articolo 360 c.p.c., n. 5, o di un error in procedendo, ai sensi dei numeri 1, 2 e 4 della medesima norma, e’ necessario non solo che il contenuto dell’atto o della prova orale o documentale sia riprodotto in ricorso, ma anche che ne venga indicata l’esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimita’ (Cass., 6 novembre 2012, n. 19157; Cass., 23 marzo 2010, n. 6937; Cass. civ. 12 giugno 2008, n. 15808; Cass. civ. 25 maggio 2007, n. 12239).
5. Con il quinto motivo censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’articolo 115 c.p.c.. Assume che il fatto della sistematica emissione di scontrini non fiscali doveva ritenersi pacifico, in quanto riconosciuta dallo stesso ricorrente nella lettera di giustificazioni alla contestazione disciplinare, in cui il lavoratore ammette che “vi e’ stata una ripetuta emissione di scontrino fiscali”. Anche questo motivo difetta di autosufficienza, giacche’ la ricorrente non trascrive la lettera di giustificazioni dello (OMISSIS) ne’ offre precisi riferimenti per una sua immediata e facile reperibilita’ nel fascicolo di cassazione. Vanno qui richiamati i principi giurisprudenziali gia’ citati nell’esame del motivo che precede.
6. Con il sesto motivo la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 2119 c.c., per non aver la Corte correttamente interpretato la nozione di giusta causa. Il numero degli scontrini non fiscali emessi dal lavoratore, in considerazione delle mansioni cui egli era addetto, era sufficiente a delineare una condotta lesiva del rapporto fiduciario esistente tra le parti e ad impedire prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro.
6.1. Il motivo e’ infondato. La giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, e’ una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realta’ da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione e’ quindi deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realta’ sociale (Cass., 26 aprile 2012, n. 6498; Cass., 2 marzo 2011, n. 5095; Cass., 13/12/2010, n. 25144). Tale specifica denuncia di incoerenza non si ravvisa nel caso in esame, in cui la ricorrente assume che la Corte abbia erroneamente interpretato l’articolo 2119 c.c., in considerazione del numero degli scontrini non fiscali emessi e delle mansioni (anche) di addetto alla cassa del lavoratore. Ma in tale prospettazione, trascura di considerare che la Corte ha escluso la legittimita’ del licenziamento proprio perche’ ha ritenuto non provato l’addebito. I giudici hanno osservato che, a fronte della contestazione di un’abnorme emissione di scontrini non fiscali, non era stata raggiunta la prova della sistematicita’ della condotta, della sua volontarieta’ e ascrivibilita’ al lavoratore, mentre, con riguardo ai due episodi accertati (giacche’ del terzo episodio della 26/5/2012 era emersa la prova dell’esistenza in cassa dell’importo oggetto dello scontrino non fiscale emesso) non vi era prova certa dell’impossessamento delle relative somme, essendo rimasto accertato un mal funzionamento dell’apparecchio (tanto che fu sostituito tra il 2011 e il 2012) e l’avvicendamento di dipendenti alla cassa senza previa quadratura della stessa. Si tratta di una valutazione congrua, logica, ancorata a precise risultanze istruttorie, in quanto tale sottratta al sindacato di legittimita’, che rende superflua ogni ulteriore esame circa la legittimita’ del licenziamento.
7. Con il settimo motivo, la societa’ censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’articolo 7 st. lav., nella parte in cui ha ritenuto esistente una discrasia tra la condotta contestata, riferita ad un numero ben piu’ elevato di episodi, ed il licenziamento intimato. Il motivo e’ inammissibile perche’ non specifica quale affermazione della Corte sarebbe in contrasto con la disposizione citata, nell’interpretazione consolidata della giurisprudenza di legittimita’ o della dottrina. Valgono quindi i principi richiamati nell’esame del quarto motivo di ricorso.
8. Con l’ottavo motivo la (OMISSIS) denuncia la violazione e falsa applicazione della Legge n. 183 del 2010, articolo 30, comma 3, Legge n. 92 del 2012, articolo 18, comma 4, articoli 129, 144 e 149 del C.C.N.L. di categoria, ex articolo 360 c.p.c., n. 3: lamenta che la Corte non ha considerato che i fatti ascritti al lavoratore rientravano tra quelli previsti dall’articolo 154 del C.C.N.L., che prevede la sanzione del licenziamento disciplinare in ipotesi di grave violazione degli obblighi di cui all’articolo 149 e di “abuso di fiducia”. Si tratta di questione che non risulta affatto affrontata nella sentenza impugnata e la ricorrente non indica in quale atto difensivo e in quale momento processuale la questione sarebbe stata introdotta, le ragioni del suo rigetto ed i motivi con i quali e’ stata riproposta al giudice del gravame, con cio’ violando gli oneri di autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass., 18 ottobre 2013, n. 23675). Esso pertanto e’ inammissibile.
9. Con il nono motivo la ricorrente denuncia l’omessa motivazione e la conseguente nullita’ della sentenza, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4, nella parte in cui la Corte non ha tenuto conto della richiesta della difesa di acquisire la documentazione utile a ridurre le domande risarcitorie avanzate dal ricorrente al titolo di compensano lucri cum damno, di aliunde perceptum e percipiendum. Anche questo motivo e’ inammissibile per le stesse ragioni esposte con riferimento all’ottavo motivo, dal momento che non risulta che tale questione sia stata affrontata nella sentenza di merito.
10. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del presente giudizio sostenute dal controricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, con distrazione in favore dei suoi difensori. Poiche’ il ricorso e’ stato notificato in data successiva al 31 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500 per compensi professionali, oltre oneri accessori come per legge, con distrazione in favore dei difensori del resistente.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.
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