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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza  30 novembre 2015, n. 47282

Ritenuta in fatto

1. Con sentenza pronunciata in data 18.10.2013, la Corte di Appello di Trento, rigettando l’impugnazione proposta da A.B. avverso la sentenza emessa dal Tribunale della medesima città il 09.07.2012, ha confermato la condanna dei prevenuto alla pena di un anno di reclusione; nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile liquidato in euro 15 mila, per il reato di oltraggio a magistrato in udienza (art. 343 cod. pen.).
Al B. è addebitato di avere offeso – nel corso dell’udienza tenutasi in data 21.07.2010, nell’ambito del procedimento n. 2153/06, celebrato avanti la Corte d’ Assise di Padova – l’onore ed il prestigio della dottoressa R.C., pubblico Ministero d’udienza, definendola «falsa», «bugiarda» e dedita a «scorribande giudiziarie».
2. Avverso la sentenza della Corte di appello ricorre per cassazione la difesa dell’imputato, affidando il proposto mezzo ad un unico articolato motivo.
La parte ricorrente denuncia manifesta illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen.), per avere la Corte territoriale formulato il proprio giudizio di colpevolezza, dopo aver incongruamente astratto – tentandone quindi un inserimento nel paradigma normativo dell’art. 343 cod. pen. – le parole «scorribande giudiziarie», «falsa» e «bugiarda», contenute in imputazione, dal contesto in cui vennero pronunciate.
Siffatto contesto, contrassegnato dal sindacato e dall’aspra critica condotti dall’imputato – nel corso delle spontanee dichiarazioni rese e durante le repliche rese in udienza dalla pubblica Accusa – avverso l’operato, e non la persona, dei pubblico Ministero, avrebbe dovuto condurre la Corte, deduce la difesa, a ritenere in capo al B. l’esimente dell’esercizio dei diritto di critica.
Quest’ultimo, quale corollario dei diritto di difesa, avrebbe invero portato la Corte all’affermazione di un giudizio di colpevolezza solo ove le frasi pronunciate dai prevenuto, non attinenti ai dato processuale, avessero integrato autonomo reato.
La Corte avrebbe dovuto ravvisare, pertanto, solo in tal modo congruamente motivando la propria decisione:
– nel termine «scorribande», la locuzione «scorrere» utilizzata dal medesimo pubblico Ministero che, nel formulare l’ imputazione a carico dei B. in distinto procedimento avente ad oggetto un reato associativo, aveva contestato al prevenuto, per l’appunto, lo «scorrere delle armi»;
– negli appellativi «falsa» e «bugiarda», una immediata reazione dell’imputato – processato in quella sede per omicidio – all’affermazione resa dal pubblico Ministero – mentre illustrava alla Corte di assise le proprie repliche – per la quale il pentito che aveva accusato il B., ricevendo così un trattamento sanzionatorio di favore, sarebbe stato condannato in altro connesso procedimento alla pena di 16 anni, mentre ciò non corrispondeva al vero.
Per l’introdotto motivo, denuncia ancora la difesa come la Corte di appello, decontestualizzando le dichiarazioni dell’imputato dalle dinamiche dei processo, non avrebbe fornito spiegazione sul perché delle dichiarazioni incriminate che, in quanto profferite al solo scopo di offendere l’onore ed il prestigio dei Magistrato, avrebbero costituito un non senso logico ed avrebbero incongruamente condotto la Corte territoriale a ritenere integrato l’estremo soggettivo del reato.

Considerato in diritto

1. La difesa dei B. fa valere la manifesta illogicità della motivazione in cui sarebbe incorsa la Corte di appello di Trento per avere ricondotto il fatto, così come accertato ai danni dell’imputato, all’astratto paradigma normativo dell’oltraggio a un magistrato in udienza (art. 343 cod. pen.), non scriminato dall’esercizio del diritto di critica e, più puntualmente, dall’esímente specifica del diritto di difesa esercitato, nel processo, da una parte nei confronti di un’altra, nell’osservanza dei dovuti limiti di continenza (artt. 343 e 598, primo comma, cod. pen.).
2. La giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, n. 14201 del 06/02/2009, Dodaro), in sostanziale adesione al pronunciamento del Giudice delle leggi (così per gli esiti interpretativi di rigetto di cui alla sentenza n. 380 dei 1999), ha riconosciuto l’applicabilità della scriminante specifica di cui all’art. 598, primo comma, cod. pen. (“Offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie o amministrative”) al delitto previsto dall’art. 343 cod. pen. (“Oltraggio a un magistrato in udienza”), escludendo ogni distinzione a seconda che ii destinatario delle espressioni offensive sia una parte privata (imputato; difensore; parte civile) o il pubblico Ministero.
L’espresso orientamento (Sez. 6, n. 20085 del 26/04/2011, Prencipe) muove dagli esiti interpretativi raggiunti dalla Corte di legittimità sui contenuti della scriminante dell’esercizio dei diritto di critica nei delitti contro l’onore, scriminante che come tale deve essere sostenuta dalla correttezza e dalla continenza delle espressioni utilizzate.
Da siffatta premessa, la giurisprudenza di legittimità si è fatta portatrice della necessità che allorché la fattispecie contestata sia quella dell’oltraggio a un magistrato in udienza (art. 343 cod. pen.), le espressioni di dissenso portate all’operato di un magistrato dall’imputato, e più in generale da una parte privata, nel processo, siano scriminate dalla esimente speciale di cui all’art. 598, secondo comma, cod. pen., se rispettose del principio della continenza.
Quest’ultimo resta in modo poi specifico contrassegnato, quanto a contenuti, dalla diretta ed immediata riferibilità dell’espressione utilizzata all’oggetto della controversia e dalla rilevanza funzionale della prima alle argomentazioni poste a fondamento della tesi prospettata dalla parte nel processo (Sez. 6, n. 21112 dei 23/03/2004, Perniciaro).
Quanto alle modalità di esercizio che le espressioni adoperate restino contenute nell’ambito di un dissenso motivato ed espresso in termini corretti e misurati che non trasmodino in toni lesivi dell’onorabilità dei destinatario (Sez. 6, n. 14201 de! , Dodaro, Rv. 243833).
Resta infatti per i riportati estremi salvaguardata quella posizione paritaria riconosciuta all’interno dei processo penale alle parti e, quale espressione di detta esigenza, il diritto di critica che le parti, tutte, possono esercitare anche rispetto all’operato dei Magistrato purché l’esercizio, resti circoscritto alla legittimità ed opportunità dei provvedimento in sé considerata e non sconfini nella illecita critica alla persona dei Magistrato (Sez. 6, n. 20085 cit.).
3. In applicazione dei richiamati principi, i motivi articolati dal ricorrente sono infondati.
Il ricorrente denuncia per il proposto ricorso i’ illogico argomentare della Corte che sarebbe stata in ciò guidata da una impropria parcellizzazione e decontestualizzazione delle affermazioni rese dall’imputato nel corso dei processo in cui erano maturati i fatti in contestazione.
Osserva la Corte come i Giudici di appello nel decontestualizzare le espressioni imputate al B., colgano già in siffatta prospettiva, con motivazione sorretta da logica, e come tale in questa sede non censurabile, la obiettiva oltraggiosa connotazione delle prime.
La declinazione al femminile delle parole «falsa» e «bugiarda» utilizzate dall’imputato, viene, infatti, congruamente sottolineata dalla Corte territoriale come diretta, essa stessa, a denunciare la direzione delle parole come pronunciate alla volta della persona del magistrato, R.C., e non al fatto dichiarato.
Un successivo processo di contestualizzazione nell’utilizzo di siffatte espressioni da parte dell’imputato, rileva poi ancora congruamente la Corte di appello, come non sottragga le prime all’indicato giudizio.
Per legittimo richiamo anche alle motivazioni spese dal Giudice di primo grado (Sez. 2, n. 19619 del 13/02/2014, Bruno),la Corte congruamente evidenzia come nel corso delle spontanee dichiarazioni, in cui quegli epiteti vennero per la prima volta proferiti, il contesto stesso disvelasse l’intento dei B. di ledere professionalità ed onorabilità del magistrato per l’utilizzo fatto delle dichiarazioni dei pentiti.
Il complesso delle dichiarazioni viene sottolineato dalla Corte, con motivazione sorretta da logica e pertinenza, come fortemente connotato dall’intento dì offendere la persona laddove, si argomenta, l’imputato contesta al magistrato di sostenere «una bugia, ma sapendo di mentire».
Per queste ultime espressioni, invero, sostiene la Corte dì appello, il B. contesta al Magistrato dell’Accusa una gestione dei pentiti, per la quale lo stesso avrebbe tradito il suo più elementare dovere: l’osservanza della legge laddove la stessa impone di ricercare anche le prove a discarico dell’imputato.
Il criterio di valutazione delle espressioni previa contestualizzazione delle stesse, è pienamente osservato dalla Corte – di contro ad ogni censura contenuta in ricorso -, e quindi congruamente applicato nelle raggiunte conclusioni, quanto all’ulteriore momento costituito dalle dichiarazioni rese dall’imputato allorché il pubblico Ministero illustrava le proprie repliche alla Corte di assise.
La Corte di appello motiva congruamente sulla natura offensiva delle espressioni utilizzate dall’imputato alla volta del Magistrato, in quanto prive del carattere della immediatezza rispetto alle prime e quindi sulla esclusione di ogni scriminabilità suggerita da un contesto di mera reazione d’impeto.
I Giudici di secondo grado riferiscono, logicamente sul punto, di una reiterazione, pur nel nuovo contesto dichiarativo, di espressioni già utilizzate dall’imputato nel corso delle dichiarazioni spontanee e, ancora, di plurimi richiami, come da verbalizzazione stenotipica, dei Presidente dei Collegio giudicante.
Quanto evidenziato dalla Corte d’appello di Trento, con corretto governo degli esiti probatori, non è quindi, come vorrebbe la difesa, la mancata prova della contestualità delle dichiarazioni dell’Accusa nel corso della discussione rispetto alle interiocuzioni dell’imputato in quella sede, ma è invece, e proprio, la prova della non contestualità delle condotte.
L’ulteriore locuzione, poi, per la quale la rappresentante della pubblica Accusa sarebbe stata dedita a «scorribande giudiziarie», viene declinata dalla Corte di appello ora nella sua obiettiva e statica rilevanza ora in una rilevanza «di contesto», senza però, che, per il diverso approccio metodologico osservato, secondo condivisibile e logica motivazione, le conclusioni raggiunte dalla Corte siano destinate a divergere.
I Giudici di secondo grado sottolineano invero, con motivazione immune da censure, come l’indicata espressione sia dotata, di per sé, di una obiettiva carica ingiuriosa, quella per la quale il pubblico Ministero avrebbe tradito il suo più elementare dovere: l’osservanza della legge laddove la stessa impone di ricercare anche le prove a discarico dell’imputato
La Corte motiva ancora congruamente sulla consapevolezza dei carattere ingiurioso delle espressioni utilizzate in capo all’imputato, proprio dall’argomento speso sul punto dalla difesa, argomento che si rivela pertanto non congruente e funzionale alla tesi sostenuta.
Rileva infatti la Corte territoriale per l’impugnata sentenza, come l’utilizzo da parte dell’imputato – così per lo «scorrere delle armi» – di una locuzione già utilizzata dal Magistrato dell’Accusa nel formulare a carico dei prevenuto, il capo di imputazióne in un distinto procedimento per reato associativo, deponga, per ciò stesso, per la consapevolezza in capo all’imputato della valenza negativa dell’espressione utilizzata.
4. II ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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