Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 23 novembre 2015, n. 46460
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 15/10/2014 la Corte d’appello di Palermo ha confermato la decisione di primo grado, che aveva assolto Rosario S. dai reati di cui agli artt. 612, comma secondo, cod. pen., in relazione all’art. 339 cod. pen. (capo a), artt. 2, 4 e 7 I. n. 895 del 1967 (capo b), artt. 81, 594, comma primo cod. pen. (capo c), art. 614 cod. pen. (capo d), art. 612, comma secondo, cod. pen. (capo e).
Con riguardo aì reati di cui ai capì a), b) e c), contestati come commessi nel medesimo contesto in danno del fratello A.S., la Corte d’appello ha rilevato che le dichiarazioni di quest’ultimo, da vagliare con rigore, attesa l’esistenza di motivi di astio, non erano sorrette da adeguati riscontri, anche perché la perquisizione domiciliare eseguita nei confronti dell’imputato non aveva consentito di rinvenire l’arma che sarebbe stata usata in occasione delle minacce e dell’ingiuria; con riferimento ai reati di cui ai capi d) ed e), contestati come commessi poco dopo, presso l’abitazione familiare di A.S. e alla presenza della moglie di quest’ultimo, C.P., e dei figli, la sentenza impugnata ha ritenuto che la P. avesse reso una dichiarazione contraddittoria e imprecisa, caratterizzata da diversi “non ricordo” e “forse”, non confermata, quanto alla pronuncia di minacce, dai figli e al vicino di casa, S.D., il quale aveva solo riferito di avere visto l’autovettura dell’imputato e dì averlo convinto a calmarsi, accompagnandolo fuori. Con specifico riguardo alla violazione di domicilio, la Corte d’appello ha aggiunto che, anche se l’imputato era entrato nell’abitazione della cognata, presentandosi come Totò e, dunque, con inganno, non era stata raggiunta la prova che l’avesse fatto invito domino, con intenzioni illecite né che avesse sostato in quella casa contro l’espressa volontà dei proprietari.
2. Nell’interesse delle parti civili è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico articolato motivo, con il quale si lamentano vizi motivazionali, con riguardo alla pronuncia relativa ai contestati reati di violazione di domicilio e di minaccia.
Si osserva, in particolare, che l’avere l’imputato incontestata mente fatto ricorso all’inganno per introdursi nell’abitazione delle parti civili, presentandosi come altra persona, e la riconosciuta sussistenza di motivi di astio tra i fratelli S. erano elementi che illuminavano la consapevolezza dello stesso imputato dell’implicita esclusione non solo dal domicilio, ma persino dalla vita privata delle persone offese. In definitiva, il S., dopo essere entrato nell’abitazione con uno stratagemma – condotta che avrebbe successivamente spiegato con l’esigenza di sollecitare il fratello Antonio a chiudere l’infisso di una finestra, ossia con una giustificazione rivelatasi falsa -, vi si era trattenuto contro la volontà della P., la quale, atterrita dall’atteggiamento aggressivo del cognato, non era riuscita neppure ad esternare in modo esplicito lo jus excludendi. In tale prospettiva, secondo i ricorrenti, la Corte territoriale, per un verso, non avrebbe adeguatamente valorizzato il fatto che il teste S.D. aveva convinto l’imputato a calmarsi, accompagnandolo fuori e, per altro verso, avrebbe travisato il significato delle deposizioni della P. e dei figli delle parti civili.
Considerato in diritto
1. Le articolazioni del motivo di ricorso proposto dalle parti civili, nella misura in cui investono l’esclusione della responsabilità dell’imputato in relazione al delitto di violazione di domicilio, sono fondate.
Per espresso disposto dell’art. 614 cod. pen., all’introduzione effettuata contro il volere del dominus è equiparata quella che avviene clandestinamente o con inganno, in quanto la prima situazione necessariamente implica il dissenso e la seconda rende privo di ogni valore il consenso eventualmente prestato (Sez. 5, n. 708 del 10/04/1970, D’amato, Rv. 115494).
La Corte territoriale ha ritenuto accertato che l’imputato si sia introdotto nell’abitazione del fratello, presentandosi come il vicino, ossia come “Totò” e, quindi, con inganno, ma ha aggiunto che non risulterebbe provato che l’abbia fatto invito domino, con intenzioni illecite, né che abbia sostato in quella casa contro l’espressa volontà dei proprietari.
E, tuttavia, alla stregua della equiparazione tra introduzione contro la volontà espressa o tacita dei titolare dello jus excludendi e introduzione con inganno, operata dal primo comma dell’art. 614 cod. pen., non si riesce ad intendere, una volta ritenuto accertato l’inganno, quale rilievo dovrebbe assumere la prova che l’accesso sia avvenuto invito domino.
Quanto poi all’illiceità delle intenzioni, la motivazione della sentenza impugnata non coglie il significato di Sez. 5, n. 35166 del 11/07/2005, Minnici, Rv. 232566, da essa citata a sostegno delle conclusioni raggiunte.
In tale decisione, infatti, si è affermato che la violazione di domicilio è configurabile anche nella condotta di colui che si introduce nel domicilio altrui con intenzioni illecite, in quanto, in tal caso, si ritiene implicita la contraria volontà dei titolare dello jus excludendi e nessun rilievo svolge la mancanza di clandestinità nell’agente, il quale frequenti o si ritenga autorizzato a frequentare l’abitazione dei soggetto passivo.
In definitiva, il carattere illecito delle intenzioni dell’agente rende irrilevante la clandestinità o non dell’accesso (si veda, al riguardo, anche Sez. 5, n. 19546 del 27/03/2013, M, Rv. 256506).
Ma laddove l’accesso sia stato pacificamente realizzato attraverso l’inganno, l’art. 614 cod. pen., non richiede alcun altro requisito. E ciò non per caso, visto che il ricorso ad artifici per introdursi in uno dei luoghi indicati dall’art. 614 cod. pen. con l’apparente consenso del titolare può ragionevolmente spiegarsi solo con la volontà di sottrarsi all’esercizio dello jus exciudendi di quest’ultimo.
Tale conclusione trova puntuale conferma, nel caso di specie, atteso che la stessa Corte territoriale riconosce che era sorto un alterco e che le spiegazioni fornite dall’imputato quanto alla necessità di rimuovere degli infissi erano “irrilevanti”, ossia, si può aggiungere, che il fine dell’imputato era proprio quello di cercare un confronto con il fratello.
Al contrario, le valutazioni della Corte territoriale, quanto all’assenza di una dimostrazione idonea a sorreggere, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’affermazione di responsabilità per il reato di minaccia, non palesano alcuna manifesta illogicità.
Esse si fondano essenzialmente sulle imprecise dichiarazioni della moglie di A.S. e sull’assenza di adeguati riscontri nelle dichiarazioni dei figli di quest’ultimo e del vicino di casa, S.D., il quale, pur essendo intervenuto per calmare l’imputato e accompagnarlo fuori dall’abitazione del fratello, non aveva confermato di avere sentito frasi minacciose.
Al riguardo, va ribadito che gli aspetti dei giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento dei significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità, se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa, con la conseguenza che non possono essere proposte in sede di legittimità le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del materiale probatorio (di recente, v. Sez. 5, n 18542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168 e, in motivazione, Sez. 5, n. 49362 del 07/12/2012, Consorte, Rv. 254063).
2. In conseguenza delle superiori considerazioni, la sentenza impugnata va annullata, con rinvio, ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen., al giudice civile competente per valore in grado di appello.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’imputazione ex art. 614 cod. pen. e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello. Rigetta nel resto il ricorso.
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