Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 22 settembre 2015, n. 38373
Ritenuto in fatto
1.Con sentenza del 28/11/2013, il Tribunale di Lodi dichiarava A.S. colpevole dei delitti di duplice violenza sessuale aggravata, a danno di M.G.G. e D.M., e lesioni personali aggravate, a danno di quest’ultima, assolvendolo, invece, dall’imputazione di tentato omicidio pluriaggravato, a danno, ancora, della M.; lo stesso era quindi condannato alla pena di 5 anni, 7 mesi e 15 giorni di reclusione.
2.Con sentenza del 14/10/2014, la Corte di appello di Milano, in riforma della precedente, riconosceva il S. colpevole anche di quest’ultimo delitto e, unificati i delitti sotto il vincolo della continuazione, lo condannava alla pena di 11 anni, 1 mese e 15 giorni di reclusione.
3. Propone ricorso per cassazione il S., a mezzo del proprio difensore, deducendo due motivi:
– violazione di legge, mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione quanto al delitto di tentato omicidio. La Corte di appello avrebbe riformato la pronuncia sul punto con una sentenza gravemente carente, che avrebbe disatteso la pacifica risultanza istruttoria – riconosciuta dal primo Giudice – per la quale la condotta di cui al capo c) era stata tenuta al solo fine di costringere la M. ad avere rapporti sessuali. Ancora, la Corte avrebbe riconosciuto l’animus necandi nella mera possibilità che la donna precipitasse nel vuoto, anche contro la volontà del S. (la sentenza ipotizza che la stessa potesse sbilanciarsi o l’uomo perdere la presa per il peso), così però negando qualsiasi configurabilità al dolo. Il quale, peraltro, sarebbe stato individuato dalla Corte anche nella forma eventuale (la sentenza afferma che il ricorrente si era rappresentato l’evento morte, accettando la concreta possibilità dei suo verificarsi); dolo eventuale, però, pacificamente incompatibile con la contestazione di un delitto tentato;
– violazione di legge, difetto di motivazione quanto al mancato riconoscimento dell’ipotesi di minore gravità quanto al delitto di cui capo b); la Corte avrebbe steso sul punto una motivazione illogica e contraddittoria, negando la diminuente pur a fronte di tutti gli elementi che la connotano, alla luce di una complessiva valutazione del fatto. Ancora, la sentenza risulterebbe contraddittoria, atteso che avrebbe concluso diversamente quanto all’«identico reato» di cui al capo a), a danno della G., così realizzando una evidente ed immotivata disparità di trattamento.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è parzialmente fondato.
Con riguardo, innanzitutto, al secondo motivo, osserva la Corte che lo stesso non può essere accolto.
L’art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen., in tema di violenza sessuale, afferma che `nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi”. La ratio che sostiene questa previsione risiede nell’unificazione – compiuta dalla I. 15 febbraio 1996, n. 66 – dei concetti di violenza carnale e di atti di libidine violenti nell’unica figura di atti sessuali; ed invero – alla luce della severa cornice edittale individuata dal legislatore, con pena minima pari a 5 anni di reclusione – appariva evidente la necessità di un meccanismo che garantisse un regime sanzionatorio adeguato per quei fatti che, pur potendo esser ricondotti alla nuova ed unica fattispecie di reato, risultassero comunque offensivi della libertà sessuale in modo non grave.
La giurisprudenza di questa Corte ha poi costantemente interpretato la previsione nel senso che, ai fini della configurabilità della diminuente in esame, deve farsi riferimento ad una valutazione globale della vicenda, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le sue caratteristiche psicologiche in relazione all’età, così da potere ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa, anche in termini psichici, sia stato significativamente contenuto (Sez. 3, n. 23913 del 14/5/2014, C., Rv. 259196; Sez. 3, n. 6623 del 10/12/2013, dep. 12/2/2014, T., Rv. 258929; Sez. 3, n. 18662 del 12/4/2013, A., Rv. 255930).
Ciò premesso, ritiene il Collegio che la Corte di merito abbia fatto buon governo di questi principi, negando la diminuente quanto al capo b) con motivazione logica ed adeguata. In particolare, la sentenza ha sottolineato che gli atti sessuali – sia pur limitati a toccamenti – erano stati realizzati dal S. in un contesto fortemente aggressivo, determinato anche dall’abuso di alcolici appena compiuto, sì da rendere il soggetto molto pericoloso e, di conseguenza, le sue condotte fortemente intimidatorie. Ancora, il ricorrente aveva manifestato al riguardo «arroganza ed insistenza … giacché la molestia sessuale e i toccamenti in zone erogene dei corpo erano stati reiterati edera stato facile per le vittime sottrarsi».
Un percorso argomentativo del tutto congruo e solido, dunque, a fronte del quale non può ravvisarsi neppure la dedotta contraddittorietà con quanto stabilito dalla Corte in ordine al delitto di cui al capo a); ed invero, la sentenza ha distinto in modo logico e chiaro le condotte poste in essere a danno della G. (oggettivamente di minore gravità, tanto da meritare un aumento di pena, ex art. 81 cpv. cod. pen., di un solo mese di reclusione) da quelle realizzate contro la M., avvenute nel più aggressivo contesto appena descritto e, peraltro, “arricchite” dal gravissimo comportamento descritto sub c), sì da impedire qualsivoglia assimilazione tra le due ipotesi.
Il motivo, pertanto, deve essere rigettato.
4. Con riguardo, invece, alla prima doglianza, relativa alla contestazione di tentato omicidio, ritiene la Corte che la stessa meriti accoglimento; la sentenza, infatti, risulta sul punto manifestamente illogica e contraddittoria, laddove, invece, avrebbe richiesto un particolare e rigoroso sforzo argomentativo. Al riguardo, infatti, occorre ribadire che, ai fini della riforma di una pronuncia assolutoria, non è sufficiente una differente valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo Giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia una forza persuasiva tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla situazione di contrasto; mentre, infatti, la condanna presuppone la “certezza della colpevolezza”, l’assoluzione non richiede la “certezza dell’innocenza” (Sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, Rv. 25106). Ne consegue, come più volte affermato da questa Corte, che, in un caso siffatto, il Giudice di appello ha l’obbligo di dimostrare specificamente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli elementi più rilevanti della sentenza di primo grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a quella dei primo Giudice, dia ragione delle scelte effettuate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (tra le molte, Sez. 2, n. 50643 del 181/2014, Fu, Rv. 261327; Sez. 5, n. 35762 del 5/5/2008, Aleksi, Rv. 241169).
Ciò premesso, costituisce costante indirizzo di legittimità quello per cui, in tema di omicidio tentato, la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall’agente. Ne consegue che, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell`animus necandi”, assume valore determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata “ex post”, con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili dei caso (Sez. 1, n. 35006 del 18/4/2013, Polisi, Rv. 257208; Sez. 1, n. 30466 del 7/7/2011, Miletta, Rv. 251014; Sez. 1, n. 39293 del 23/9/2008, Di Salvo, Rv. 241339). Ancora, si è precisato che in tale delitto, pur avendo valenza concorrente i due profili dell’intenzione dell’agente e dell’idoneità degli atti, quest’ultimo prevale rispetto a un’intenzione del soggetto agente solo in parte denunciata, concorrendo alla configurazione del tentativo soprattutto criteri di natura oggettiva, come la natura del mezzo usato, la parte dei corpo attinta e la gravità delle lesioni inferte (Sez. 1, n. 24808 del 16/6/2010, Lazzaro, Rv. 247806; Sez. 1, n. 35174 del 23/6/2009, M., Rv. 245204). Quanto, poi, all’univocità degli atti, questa deve essere considerata come una caratteristica oggettiva della condotta, sicché è necessario che gli atti, in sé stessi, per il contesto nel quale si inseriscono, per la loro natura ed essenza, rivelino, secondo le norme di esperienza e l’id quod plerumque accidit, il fine perseguito dall’agente (Sez. 5, n. 43255 del 24/9/2009, Alfuso, Rv. 245721).
Orbene, tutto quanto rilevato, osserva il Collegio che la Corte di merito ha riformato sul punto la sentenza di primo grado senza conformarsi a questi principi, ma anzi – ed in modo esplicito – muovendosi in senso contrario.
In particolare, la pronuncia ha riconosciuto l’animus necandi in capo al S. nel fatto che – tenendo la M. per le braccia, nel vuoto – la stessa sarebbe potuta precipitare «perché volontariamente l’imputato poteva lasciare la presa, ma anche perché poteva cedere per il peso, perché la vittima stessa poteva sbilanciarsi con movimenti del corpo e per altri fattori che certamente, alternativamente, l’imputato ha tenuto in considerazione nel momento in cui ha posto in essere la condotta univocamente diretta a provocare la morte della vittima». Orbene, trattasi, all’evidenza, di mere congetture prive di ogni riscontro, di asserzioni dei tutto apodittiche; le quali, peraltro, sono in palese contrasto con il dolo alternativo riconosciuto dalla stessa Corte di merito (l’imputato avrebbe voluto la morte della donna o le lesioni), dal momento che individuano l’univoco fine omicidiario non solo nella volontà di gettare nel vuoto la Mitici, ma anche nella mera eventualità che la caduta potesse esser determinata da altri fattori, del tutto estranei all’animus necandi. In altri termini, il dolo alternativo individuato dalla sentenza non consiste nel fatto che il soggetto attivo avesse previsto e voluto alternativamente, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi (nella specie morte o grave ferimento della vittima) ricollegabili alla sua condotta, ma nel fatto che la morte potesse esser determinata in via esclusiva dalla condotta medesima (supportata dal necessario dolo) oppure – anche – da elementi ulteriori e del tutto distinti (la perdita di equilibrio o della presa), come tali non riferibili affatto alla volontà del S. e, soprattutto, al dolo omicidiario contestatogli.
Ne deriva – quel che la sentenza ben evidenzia nella parte finale, con accentuata variazione argomentativa (pag. 11) – che la responsabilità dei ricorrente è stata riconosciuta non già in forza di un indimostrato dolo alternativo, ma in ragione di un esplicito dolo eventuale («S. si era quindi rappresentato l’evento morte non solo come possibile, ma lo aveva accettato – e quindi voluto – nella sua concreta possibilità di verificarsi»); quel che è pacificamente escluso in presenza di fattispecie tentate, come nel caso di specie (tra le molte, Sez. 6, n. 14342 del 20/3/2012, R., Rv. 252565; Sez. 1, n. 25114 del 31/3/2010, Vismara, Rv. 247707; Sez. 1, n. 44995 del 14/11/2007, Strimaitis, Rv. 238705).
Da ultimo, rileva il Collegio che la sentenza non ha adeguatamente motivato in ordine alle frasi che il ricorrente aveva pronunciato, mentre teneva la M. nel vuoto, poste invece dal Tribunale a fondamento della propria decisione; quel che, pertanto, avrebbe imposto un rigoroso sforzo argomentativo sui punto. In particolare, la Corte ha negato ogni rilievo all’affermazione della M. per cui, in quel contesto, il ricorrente le aveva detto «che voleva avere rapporti (sessuali, n.d.e.) ed io gli dicevo di no», così contestando il primo Giudice che aveva letto nelle stesse parole una volontà diversa da quella omicidiaria, e soltanto intimidatoria a scopo sessuale; la considerazione della Corte al riguardo («Il Giudice di prime cure ha enfatizzato in modo erroneo una sola frase detta dalla vittima, considerandola poi avulsa dal contesto e anche da una logica e ragionevole interpretazione degli eventi»), però, risulta del tutto apodittica, generica e priva di motivazione, sì da imporre ulteriormente l’annullamento della sentenza con rinvio.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al delitto di tentato omicidio, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta il ricorso nel resto.
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