Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 30 luglio 2015, n. 33763
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CONTI Giovanni – Presidente –
Dott. CITTERIO Carlo – Consigliere –
Dott. MOGINI Stefano – Consigliere –
Dott. DI STEFANO Pierluig – rel. Consigliere –
Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BARI;
Nei confronti di:
Q.O. n. (OMISSIS);
A.O.A.M. n. (OMISSIS);
C.L.V. (detto (OMISSIS)) n. (OMISSIS);
G.G. n. (OMISSIS);
M.L. n. (OMISSIS);
M.N. n. (OMISSIS);
MO.FR.PA. n. (OMISSIS);
P.R. n. (OMISSIS);
R.S. n. (OMISSIS);
S.G. n. (OMISSIS);
INGROSS LEVANTE SPA;
avverso la sentenza 13972/2014 del 27/6/2014 del GUP DEL TRIBUNALE DI
BARI;
visti gli atti, l’ordinanza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dr. PIERLUIGI DI STEFANO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. OSCAR CEDRANGOLO
che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza;
Udito l’avv. LUCA DEL FAVERO in sostituzione dell’avv. LAFORGIA
MICHELE per G. e P..
Udito l’avv. CHIARELLI TERESA per M.L. e M.
N.;
Udito l’avv. STARACE GUGLIELMO per R. e C.;
Udito l’avv. GIGANTE MICHELE per P.U.;
l’avv. LEONARDO IANNONE per A. e INGROSS LEVANTE SPA;
Udito l’avv. ROMOLI ADRIANA in sostituzione dell’avv. BOZZI LEONARDO
per S.;
l’avv. Ghiro G. per Q. e l’avv. Amenduni A. per
Q. O.
RITENUTO IN FATTO
1. Il pubblico ministero presso il Tribunale di Bari chiedeva il rinvio a giudizio nei confronti di 40 imputati per numerosi reati di corruzione in atti giudiziari, abuso di ufficio, falso ed altri, nonchè nei confronti di persone giuridiche per illeciti amministrativi di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001.
In estrema sintesi, considerando più avanti le singole imputazioni, il procedimento rappresentava lo sviluppo delle indagini a carico del giudice tributario Q.O., indiziato di corruzione ed altri reati nel contesto della sua attività giurisdizionale; lo svolgimento di indagini, tramite la intercettazione di conversazioni, consentiva di individuare numerose altre persone coinvolte nelle sue attività. Nel corso delle indagini venivano disposte misure cautelari in seguito alle quali, al materiale già acquisito, si aggiungevano le dichiarazioni sia confessorie che accusatorie del predetto Q..
- All’esito della udienza preliminare il giudice, per parte degli imputati e parte delle imputazioni, disponeva il proscioglimento ai sensi dell’art. 425 c.p.p., previa riqualificazione dei reati definiti dal PM come corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter c.p.) quali fatti di corruzione ex artt. 319 e 321 c.p. nonchè riqualificazione del capo 11.2) nel delitto di millantato credito.
Più in dettaglio, proscioglieva:
2.1 A.O.M. dal reato di cui al capo 1) per non aver commesso il fatto;
R.S. dai reati di cui ai capi 6), 31) e 42) perchè il fatto non sussiste;
G.G. dal reato di cui al capo 6.1.b) perchè il fatto non sussiste;
C.L.V. dal reato di cui al capo 6) perchè il fatto non sussiste;
M.N. dal reato di cui al capo 11.1) perchè il fatto non costituisce reato;
M.L. dal reato di cui al capo 11.2) perchè il fatto non costituisce reato;
P.R. dai reati di cui ai capi 18) e 20) perchè il fatto non sussiste;
Mo.Fr.Pa. dai reati di cui ai capi 12), 23) e 25) perchè il fatto non sussiste;
Q.O. dal reato di cui al capo 25) perchè il fatto non sussiste;
S.G. dal reato di cui al capo 27) perchè il fatto non sussiste;
inoltre disponeva non luogo a procedere nei confronti della Ingross Levante ai fini della responsabilità amministrativa per il reato di cui al capo A), ritenendo che gli elementi acquisiti non consentissero di sostenere l’accusa in giudizio.
3.1 A.O.A.M. capo 1. A questi era contestata la ipotesi di corruzione per un processo tributario di interesse della sua società, Ingross Levante spa, per la quale fruiva dei servizi del commercialista Gu.. Secondo il giudice, effettivamente talune intercettazioni dimostravano che vi erano degli accordi corruttivi tra Q. e Gu. con riferimento alla gestione del contenzioso della Ingross, ma non vi era prova di alcun coinvolgimento diretto di A.. Vi era solo il dubbio, in base al contenuto di un’intercettazione, che costui fosse stato portato a conoscenza con anticipo dell’esito della sentenza, ma una tale circostanza non era comunque in grado di provare la specifica accusa;
del resto, osservava il gup, le utilità promesse al giudice tributario non erano in alcun modo riferibili ad iniziative dirette di A..
A tale posizione era collegata quella della Ingross spa che, comunque, si riteneva che avesse tratto profitto dal reato. Invero, riportandosi a quanto affermato da questa Corte in sede cautelare, il giudicante considerava che la sentenza che si assume essere stata pilotata era di conferma della sentenza di primo grado di annullamento dell’atto impositivo. Ciò rendeva impossibile determinare effettività ed entità di un profitto.
3.2 R.S., dipendente amministrativo in servizio presso la commissione tributaria, era innanzitutto accusato dei fatti di cui al capo 42: secondo il PM, R. avrebbe dato ad A. G. il consiglio di farsi apporre un timbro postale falso sul ricorso per farne attestare la data di spedizione, risultando altrimenti l’impugnazione proposta fuori termine. Osserva il giudicante che tale informazione è troppo generica per potere attribuire una qualsiasi responsabilità all’imputato, risultando che il falso è poi stato realizzato effettivamente, ma da soggetti diversi da R., senza alcuna prova della sua consapevolezza.
Quanto al capo 31, R.S. era accusato di essere uno dei soggetti che aveva partecipato ad una attività di assegnazione pilotata di ricorsi di interesse di tale Ga.. Si tratta, però, di ricorsi per i quali Q., pur reo confesso per altri episodi, escludeva il suo intervento. Inoltre, le telefonate che dovrebbero dimostrare tale condotta risultano effettuate quando il processo in questione ( Ga.) di cui si parlava nella telefonata era già stato assegnato e, comunque, la individuazione del collegio era avvenuta per ragioni di connessione. Quindi, osserva il giudice, pur se il Q. indicava il R. quale soggetto disposto a farsi corrompere per assegnare i processi, lui stesso escludeva che tale singola ipotesi potesse essere ascritta al R..
3.3 Quanto al reato di cui al capo 6 del quale R. è stato imputato insieme a C.L. e G.G., Q. aveva riferito di aver ricevuto la somma di Euro 2000 da G.G. per corrompere R.S. e C. L., entrambi segretari presso la commissione tributaria.
Osserva in questo caso il giudice che, sia quanto alla dazione di Euro 500 in favore di R. che in generale a tutta l’operazione, manca qualsiasi riscontro, essendovi soltanto la dichiarazione del correo. A ciò si aggiunge che non si riesce ad individuare un atto contrario ai doveri di ufficio in quanto il possibile intervento di cui parla Q. era riferito al controllo della regolarità della presentazione del ricorso, in base alla presenza o meno della busta di spedizione dell’atto impositivo; non era possibile simulare la presenza o meno di tale busta negli atti, in quanto il controllo viene effettuato dal giudice e, comunque, la verifica viene fatta anche delle parti.
3.4 M.N. e M.L.. M.N. all’epoca dei fatti era l’amministratore delegato del consorzio Coimba ed il fratello M.L. ne era consulente fiscale.
Agli stessi erano contestati due episodi. Un primo caso in cui M.L., nella asserita piena consapevolezza del fratello, aveva corrotto il Q. ottenendo, dietro promessa del pagamento di Euro 500, una sentenza in favore del consorzio.
Nell’altro caso, M.N., nella consapevolezza del fratello L., aveva promesso al medesimo Q. un incarico retribuito quale consulente del predetto consorzio in cambio delle sue pressioni sul presidente della quinta sezione della commissione regionale tributaria.
Per il primo episodio, pacifica la vicenda, notava però il giudice che non vi era alcun elemento che consentisse di ritenere coinvolto il M.N., mai sentito nelle intercettazioni e neanche citato dal Q.. Nell’altro caso, il presunto impegno di Q. nei confronti dei componenti di un altro collegio, in assenza di qualsiasi elemento indicativo del buon fine di tale pressione, era ritenuto un millantato credito, per cui era prosciolto dalla imputazione originaria.
3.5 S.G. avrebbe millantato credito presso i giudici componenti il suo collegio ottenendo, in cambio della sua mediazione, la riparazione gratuita della propria autovettura presso l’officina di un’autoconcessionaria della società MM della quale, peraltro, il solito Q. era componente del collegio sindacale. Per questa vicenda, il giudice rilevava come non vi fosse alcun elemento a carico, neanche dichiarazioni del Q..
3.6 P.R.. Nel corso di una perquisizione, nella cassaforte di D.C.F. veniva rinvenuta la somma in contanti di Euro 480.000, risultata di proprietà del P. R.. Contestato a quest’ultimo il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, il gup riteneva che non vi fosse alcuna prova dell’essere la somma il provento di evasione fiscale, non avendo alcuna capacità dimostrativa le annotazioni del tutto equivoche rinvenute nella medesima cassaforte. Conseguentemente, escludeva la sussistenza del reato di intestazione fittizia di beni.
3.7 Mo.Fr.Pa.. Una prima contestazione è quella di cui al capo 12): sulla scorta delle intercettazioni dei colloqui del Q., gli inquirenti ritenevano che questi avesse contattato i giudici che avevano in corso il processo tributario nel quale era parte tale B.D.. Le prove per tale vicenda a carico del Mo., giudice del processo B., consistono nella intercettazione tra lui e il Q. nel corso della quale quest’ultimo, dopo la trattazione della causa, riferisce “tutto a posto”. Il giudice disponeva il proscioglimento non emergendo alcun elemento significativo di una condotta determinante ai fini dell’accoglimento del ricorso e, comunque, potendo avere altri significati la semplice espressione captata.
Quanto al capo 25, in esso si fa riferimento ad una serie di procedimenti in cui aveva prestato attività di giudice il Mo.. Osserva il giudice che l’unico dato concreto consiste nell’esito positivo di tali ricorsi, dato, però, di per sè solo indiscutibilmente equivoco. Inconsistenti, secondo il giudicante, gli elementi aggiuntivi indicati in un caso in una pressione sul Mo., che nessun effetto risultava produrre in quanto il Mo. si limitava a dire che, per poter decidere, doveva studiare gli atti, nell’altro unico elemento aggiuntivo è che Mo. sapeva che il Q. era interessato.
3.8 Infine, il giudice ha prosciolto il Q. per il reato lui contestato al capo 25, trattandosi di fatti già contestati quale corruzione.
- Contro tale sentenza il pubblico ministero ha presentato ricorso.
Con il primo motivo deduce la violazione di legge in ordine alla riqualificazione dei reati; erroneamente il giudice avrebbe qualificato le vicende in contestazione quale corruzione semplice poichè l’art. 319 ter c.p., diversamente da quanto sostenuto nella sentenza, è applicabile al processo tributario.
Con il secondo motivo deduce la violazione di legge in relazione all’art. 425 c.p.p.. Il giudice non ha rispettato la regola di giudizio per il proscioglimento in sede di udienza preliminare avendo effettuato un giudizio in termini di innocenza senza tener conto che la insufficienza e la contraddittorietà degli elementi che giustificano il proscioglimento devono avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente superabili in giudizio. Il proscioglimento richiede l’esistenza di prove positive di innocenza o la manifesta inconsistenza di quelle di colpevolezza. In ragione di tale valutazione in termini di innocenza, il giudice non ha tenuto conto degli esiti delle indagini rappresentati nelle informative per le quali sarebbe stata chiesta in dibattimento la testimonianza del personale di polizia giudiziaria.
4.1 Svolge, quindi, osservazioni su parte delle singole contestazioni ed imputati:
A. – Ingross (3.1); in questo caso il giudice avrebbe effettuato non solo un giudizio prognostico di innocenza, ma avrebbe fatto una valutazione solo parziale del materiale probatorio non tenendo conto del materiale valutato in fase cautelare.
R.S. (3.2). In ordine al capo di imputazione 42), osserva il pubblico ministero che proprio la certezza della predisposizione di un falso timbro postale, circostanza indiscussa, dimostra l’intervento di R. per attestare falsamente il pervenimento a mezzo posta dell’atto che, invece, era stato portato a mano. Invero il giudice ha diversamente considerato i fatti contestati ed il ruolo del R.. Quanto al capo 31, osserva il pubblico ministero che si tratta di valutazioni in merito che non tengono conto del complesso delle indagini (“senza peraltro valutare una serie di prove pur presenti in atti quali le dichiarazioni rese dal coimputato Q.O., gli esiti delle intercettazioni e quelli delle indagini finanziarie condotte dalla polizia giudiziaria”).
R., C. e G. (3.3). Anche in questo caso, il pubblico ministero rileva l’errore della decisione che, pur entrata nel merito, non ha affatto considerato il complesso degli elementi acquisiti. Inoltre non ha tenuto conto della prassi secondo la quale il controllo sulla tempestività di deposito dei ricorsi era, in concreto, fatto dai segretari. Su tale aspetto il dibattimento avrebbe consentito l’acquisizione di testimonianze significative.
M. (3.4). Secondo il pm, in questo caso risulta la stabile messa a disposizione del Q., nel suo ruolo, in favore degli altri due imputati ed è necessario il vaglio dibattimentale;
le condotte poste in essere dai fratelli M. non erano finalizzate alla remunerazione di singole condotte del Q. bensì a ricompensare tutti i suoi servigi, passati, presenti e futuri.
Mo. (3.7). Secondo il pubblico ministero, in questo caso il giudice non tiene conto delle diverse valutazioni effettuate dal gip in sede cautelare.
- Varie difese hanno depositato memorie di sostegno degli argomenti del gup e di contrasto delle argomentazioni del PM.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
La decisione di infondatezza del ricorso, per le ragioni che si diranno, assorbe, sul piano pratico, la questione relativa alla qualificazione giuridica delle condotte contestate.
6. Ricorrono, però, evidenti ragioni per procedere comunque alla correzione di un errore interpretativo, che incide su una casistica comune, laddove si è escluso che rientrino nella “corruzione in atti giudiziari” le condotte di corruzione per atti di ufficio nell’ambito del processo tributario.
Il gup, difatti, ha ritenuto che il processo tributario non rientri nella attività giudiziaria oggetto di tale reato.
6.1 Si nota innanzitutto un palese errore di fondo, che condiziona il resto della decisione, mirata alla ricerca di elementi di conferma della proprio tesi, perchè la sentenza ritiene esservi il “dato letterale univoco e chiarissimo dell’art. 319 ter c.p., che contempla esclusivamente il processo penale, civile e amministrativo, si tende ad aggrapparsi ad altri criteri per forzare il dato normativa ….”.
Tale “chiarezza” nel senso voluto, invece, non vi è affatto perchè la espressione “processo penale, civile e amministrativo” è chiaramente una espressione che ha solo la funzione di individuare tutta l’attività giurisdizionale, ricomprendendo nelle ampie categorie, ad esempio, il processo contabile (che rientra agevolmente nell'”amministrativo”), penale militare (che rientra agevolmente nel “penale”) etc. La domanda da porsi era se, rispetto a tale definizione in positivo e senza esclusione alcuna dell’art. 319 ter c.p., il processo tributario rientri nel predetto ambito di processo civile ed amministrativo o sia un diverso genere; la decisione impugnata questo profilo, invece, non lo ha affatto considerato, arrestandosi alla diversità dei termini, non rilevando che si è in presenza di un tipo di giudizio amministrativo.
Per risolvere la questione, basta(va) ipotizzare cosa avverrebbe se non vi fosse un giudice speciale per la suddetta materia tributaria (che, si rammenta, è essenzialmente un “giudizio sull’atto” della amministrazione finanziaria od altro ente impositore, – pur se si riconosce un ambito di effetto di giudicato sul rapporto tributario).
6.2 Il principio generale è nell’art. 113 Cost. che prevede che “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi giurisdizione ordinaria o amministrativa”.
Nessun atto è escluso in quanto “tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”. Ed il terzo comma prevede che “la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione…”.
Questo vuoi dire che anche sugli atti della amministrazione finanziaria centrale e locale vi è sempre una tutela giurisdizionale che può essere o civile o amministrativa. Nell’ambito di tali tutele vi possono, poi, essere vari organi di giurisdizione.
Creata una giurisdizione speciale per gli atti della amministrazione tributaria lato sensu, è chiaro che il processo tributario occupa ambiti che sono principalmente della giustizia amministrativa;
quindi, si rientra tranquillamente nell’ambito del “processo penale, civile e amministrativo”.
6.3 Proseguendo in argomenti sostanzialmente ovvi, che ciononostante vanno svolti a fronte della particolare interpretazione della sentenza impugnata, si rammenta come quella tributaria non sia una giurisdizione “diversa” ed ulteriore bensì una giurisdizione amministrativa “speciale”; alla stessa non si applica il divieto che la Costituzione pone alla introduzione di giudici speciali, trattandosi di giudice preesistente. Si vedano, quindi, le numerose decisioni in materia della Corte Costituzionale; tra le varie, ad es., è esaustiva l’ord. 144 del 1998.
Quindi il fatto che, in passato, ed anche nell’ambito di questa stessa vicenda in fase di applicazione delle misure cautelari, questa Corte non si sia mai posto il problema della qualificazione della corruzione nel contesto del processo tributario, trova la banale spiegazione che il dato letterale, univoco e chiarissimo, è che, proprio perchè l’art. 319 ter c.p. fa riferimento esclusivamente al processo penale, civile ed amministrativo, ricomprende anche il processo tributario.
6.4 Attesa la ampiezza di argomenti utilizzati dalla sentenza impugnata che ritiene che nell’ordinamento vi siano numerose “tracce” che la giurisdizione tributaria sia “altra” rispetto alla amministrativa e civile, vanno comunque affrontate tali questioni.
Il fatto che il giudizio di legittimità, nel processo tributario, spetti alla Corte di Cassazione, viene superato dalla sentenza impugnata con argomenti non del tutto comprensibili: in particolare, non è chiaro cosa si intenda dire con “si constata che le controversie tributarie non danno luogo ad un “processo tributario” di Cassazione”, non specificandosi cosa, secondo la sentenza impugnata, sia allora l’attività della sezione tributaria di questa Corte (salvo sostenere che, nel corso del suo svolgimento, il processo da tributario diventi qualcosa di diverso per cui corrompere il segretario della commissione provinciale per tardare la trasmissione degli atti alla commissione tributaria regionale per il giudizio di appello sia corruzione semplice e corrompere il corrispondente funzionario per tardare la trasmissione degli atti in Cassazione sia, invece, corruzione in atti giudiziari).
Si afferma poi la significatività della “composizione “mista …
delle commissioni tributarie”; non è detto, però, perchè le modalità di accesso alle funzioni giudiziarie abbiano rilievo nel determinare il tipo di giurisdizione; ciò non avviene con i giudici di pace, con i componenti privati degli uffici giudiziari per i minori, con i giudici popolari delle Corti di Assise, con i “got”, utilizzati nei vari settori, con i componenti non togati dei tribunali militari etc. Si cita la Corte Costituzionale dove afferma “va però notato che il processo tributario, rispetto a quello civile ed amministrativo, conserva una sua spiccata specificità, correlata sia alla configurazione dell’organo decidente sia al rapporto sostanziale …”, ma da tale spiccata specificità rispetto al modello generale di processo civile ed amministrativo, di cui nessuno comunque dubita, non vi è alcun modo di desumere l’esclusione del processo tributario dal perimetro generale del processo civile ed amministrativo, essendovi un comune rapporto di genere a specie.
Ed ancora, si cita come significativa (non tanto la decisione quanto) il fatto che, nella nota sentenza Drassich, questa Corte si poneva problemi in tema di qualificazione quale funzione giudiziaria dell’attività del giudice fallimentare. Tale osservazione è, però, irrilevante perchè la problematica nasceva per le stesse ragioni che si pongono in questa sede. In quel caso questa Corte, e da ciò la peculiarità del caso che lo ha reso particolarmente noto per l’intervento della Cedu, doveva rivedere la decisione dei giudici di merito che avevano ritenuto sussistere il reato di corruzione comune proprio per avere escluso la natura di attività giurisdizionale civile nelle funzioni dell’imputato Drassich; allo stesso modo, in questa sede, questa Corte non argomenta sul rientrare il processo tributario nell’ambito del “processo penale, civile ed amministrativo” perchè abbia qualche dubbio sul punto, bensì, semplicemente, dovendo decidere su una sentenza di merito che ha affermato il contrario.
Poi, si parla genericamente di “legge Pinto” e di “responsabilità civile dei magistrati” senza considerare le ovvie specificità di queste discipline e dei relativi destinatari e senza, soprattutto, perchè da tali leggi si desuma che il processo tributario rappresenti un genere a sè stante.
Si valuta la proposta di modifica normativa nel senso di utilizzare, in futuro, la formula ampia “in relazione all’esercizio di attività giurisdizionali” anzichè la tripartizione “processo civile, penale o amministrativo”; la cosa nulla significa in ragione di quanto si è detto sul “genus” del processo tributario.
Infine, la sentenza impugnata cita il D.P.R. n. 115 del 2002 in materia di indennità giudiziarie che, all’art. 2, recita “Le norme del presente testo unico si applicano al processo penale, civile, amministrativo, contabile e tributario …..”. Basta osservare quale sia la funzione di tali disposizioni e come siano diverse le amministrazioni interessate ai vari settori. La legge non ha alcuna funzione in tema di qualificazione delle giurisdizioni, ma distingue tra i vari tipi di processo solo per le proprie finalità di gestione di servizi collegati ai processi. Non si discute, quindi, di processo civile e di processo tributario per la differenza ontologica di tali giurisdizioni, bensì perchè nell’un caso la gestione amministrativa è del ministero della Giustizia e, nell’altro, dell’amministrazione finanziaria. La portata sulla questione in oggetto è praticamente nulla.
6,5 Va ribadito, quindi, l’ovvio principio che “i comportamenti di corruzione nel contesto di processi tributari integrano il reato di corruzione in atti giudiziari, non essendovi ragione di escludere il processo tributario dall’ampio ambito individuato dall’art. 319 ter c.p. con l’espressione “processo penale, civile, e amministrativo”.
7. Detto ciò, può passarsi ad esaminare il motivo in ordine alla ritenuta erronea applicazione della regola di giudizio ai fini del proscioglimento in udienza preliminare.
Riportato ad estrema sintesi quanto il pubblico ministero afferma, in punto di diritto, a fondamento del ricorso, la regola di giudizio all’esito della udienza preliminare sarebbe, per l’ufficio ricorrente, esclusivamente quella di verificare la possibile utilità del dibattimento nel senso di limitare il proscioglimento al raggiungimento della prova evidente della innocenza. Il gip dovrebbe limitarsi a valutare, appunto, la prospettiva che in dibattimento si dimostri la colpevolezza ed il concetto di possibile sviluppo dibattimentale viene, nel corpo del ricorso, spinto al caso estremo della ipotetica possibilità che emergano prove determinanti non prospettate o neanche prospettabili al momento della decisione sul rinvio a giudizio (“lo stesso Gu. in dibattimento può confessare di aver corrotto Q. con la consapevolezza di A.; lo stesso P. può avere una resipiscenza e confessare anch’egli in merito”).
7.1 La regola di giudizio applicata dal giudice per le indagini preliminari, invece, non è quella della valutazione della colpevolezza o innocenza allo stato degli atti, come sostenuto dal PM. A parte la non omogeneità delle decisioni sulle singole imputazioni, trattandosi di vicende del tutto autonome quanto a tipo di accadimenti ed elementi probatori, nella maggiore parte dei casi il gup ha ritenuto che manchino del tutto elementi significativi che rendano le varie ipotesi di accusa “serie” o “consistenti” che dir si voglia. Solo laddove vi sia questo quadro indiziario minimo, potrebbe poi valutarsi la prospettiva della utilità del dibattimento.
La linea non sempre netta nell’uno o nell’altro senso della giurisprudenza di legittimità comporta la necessità di una più ampia valutazione per individuare la corretta regola di giudizio della udienza preliminare, regola che si risolve nella stessa individuazione di quale sia il ruolo della udienza preliminare nel contesto del processo ordinario (ovvero quello destinato a svilupparsi, se del caso, con il dibattimento e non con un rito alternativo): in particolare, se si tratti, o meno, di un primo filtro rispetto ad imputazioni prive di fondamento.
7.2 Si anticipa che la lettura che si ritiene preferibile, è quella secondo la quale, perchè una persona possa essere sottoposta ad un processo, è innanzitutto necessario un corpo di elementi probatori che diano consistenza alla ipotesi di accusa, condizione necessaria per giustificare le conseguenze negative che sono rappresentate di per sè dal processo – di cui è superfluo discutere – in un sistema che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale ma non il suo esercizio libero sino alla arbitrarietà. La decisione sul rinvio a giudizio od il proscioglimento è certamente “processuale”, ma non significa che non sia necessario un contenuto di valutazione del merito.
All’esito della individuazione di tale minimum probatorio, poi, il giudice dell’udienza preliminare si porrà il problema della possibilità che vi sia una prospettiva di utile sviluppo del dibattimento.
7.3 Va quindi considerata innanzitutto la “storia” della udienza preliminare e della sentenza di proscioglimento sin dalla introduzione dell’attuale codice, per le varie modifiche apportate sia alla disciplina dell’udienza preliminare che, soprattutto, alla norma di cui all’art. 425 c.p.p. nella quale è indicata la regola di giudizio. Al riguardo si può richiamare la efficace sintesi della evoluzione normativa e giurisprudenziale presente nella sentenza Sez. Un., 39915 del 2002, al cui contenuto decisorio, dopo, si farà ampio riferimento.
Nella prima fase di applicazione dell’attuale rito penale, il tema della portata della valutazione fatta dal giudice che disponeva il giudizio fu reiteratamente posto al fine di considerare se la decisione di rinvio a giudizio rappresentasse l’accertamento di una consistenza del materiale di accusa tale da assorbire la parallela valutazione di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza nell’ambito dell’eventuale sottoprocedimento di applicazione di misura cautelare. In un tale caso, disposto il rinvio a giudizio, sarebbe seguita la preclusione formale alla deducibilità, in sede di impugnazione avverso i provvedimenti cautelari, del tema della gravità degli indizi.
7.4 Si rammenta, quindi, che le Sezioni Unite di questa Corte (sent.
38 del 1995), affermarono la improponibilità del tema dei gravi indizi di colpevolezza dopo il rinvio a giudizio all’esito di udienza preliminare.
La sentenza, al fine della decisione, affrontava in termini ben specifici la regola di valutazione del rinvio a giudizio e, quindi, per converso, quella del proscioglimento: innanzitutto, affermava che la regola di giudizio di cui all’art. 425 c.p.p., anche prima della modifica ad essa apportata nel 1993, (quando la disposizione richiedeva la “evidenza” della non commissione del fatto etc), era nel senso che l’udienza preliminare era finalizzata a verificare la serietà della ipotesi di accusa ovvero, detta con diversa e frequente espressione, che non si trattasse di “imputazione azzardata”:
“Già prima della modifica dell’art. 425 c.p.p. soltanto una interpretazione esclusivamente letterale poteva indurre a ritenere che il rinvio a giudizio ex art. 429 c.p.p. dovesse essere disposto¯ anche nella quasi totale mancanza di elementi a carico, tanto desumendosi dalla formula dell’art. 425 c.p.p. che prevedeva la sentenza di non luogo procedere soltanto nel caso in cui fosse risultato evidente l’innocenza dell’imputato”.
Ovvero, si affermava esplicitamente che il senso di per sè della udienza preliminare, a fronte anche di una meno larga formulazione della norma sino al 1993, fosse la verifica innanzitutto della sussistenza di elementi probatori che giustificassero il “sacrificio” della sottoposizione al processo.
La stessa Corte affermava:
“E a seguito della modifica art. 425 c.p.p. operata dalla L. n. 105 del 1993 con la soppressione dell’aggettivo “evidente”, modifica che, come risulta anche dai lavori preparatori è stata posta in essere allo scopo di ampliare, la valutazione del merito da parte del giudice dell’udienza preliminare risulta sicuramente confermato che il rinvio a giudizio emesso a conclusione dell’udienza preliminare implica un accertamento positivo della sussistenza di elementi – quelli cui fanno riferimento le “fonti di prova” che debbono essere, ancorchè sommariamente indicate nel decreto in relazione ai fatti cui esse si riferiscono (art. 429 c.p.p., lett. d) tali da integrare la probabilità dell’affermazione di responsabilità e quindi la “qualificata probabilità di colpevolezza” richiesta perchè si possa parlare di “gravi indizi” di cui all’art. 273 c.p.p.. In conclusione anche “l’ordinario” rinvio a giudizio, e cioè quello disposto ai sensi dell’art. 429 c.p.p., “fa parte” di quelle “statuizioni adottate da organi giurisdizionali nell’ambito dello stesso processo a fondamento delle quali è posta in modo esplicito od implicito, la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza”, che per ormai costante giurisprudenza precludono, in mancanza di fatti nuovi sopravvenuti, la rivalutazione del requisito della gravità degli indizi”.
La tesi è ancor più chiara, salvo poi vederne le ulteriori conseguenze: la riforma del 1993 era specificatamente finalizzata ad aumentare lo spazio di valutazione da parte del gup della “consistenza” della ipotesi di accusa, quale precondizione per potere poi discutere di utilità del dibattimento.
7.5 La Corte Costituzionale, che già con la ordinanza n. 185 del 1991 aveva affermato “che al di là delle segnalate innovazioni, infatti, la funzione della udienza preliminare era e resta quella di verificare – sia pure alla luce di una valutazione “contenutistica” più penetrante rispetto al passato – l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero, cosicchè, ad una richiesta in rito, non può non corrispondere, in capo al giudice, una decisione di eguale natura, proprio perchè anch’essa calibrata sulla prognosi di non superfluità del sollecitato passaggio alla fase dibattimentale”, affermazione che la predetta sentenza 38/1995 di questa Corte pur citava a sostegno della propria posizione, con una successiva sentenza (Corte Costituzionale 71 del 1996), invece, smentiva la possibilità di ritenere non più proponibili questioni di gravità indiziaria dopo il rinvio a giudizio, poichè escludeva che l’una valutazione fosse necessariamente assorbita dall’altra. Considerato quindi che secondo il “postulato interpretativo elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, ove si è in più occasioni individuata nella translatio iudicii disposta all’esito della udienza preliminare una decisione di pregnanza delibativa tale da assorbire qualsiasi profilo inerente al presupposto dei gravi indizi di colpevolezza, al punto da precluderne la rivalutazione in sede di impugnativa proposta avverso i provvedimenti de libertate”, la Corte Costituzionale definiva in tal modo l’ambito della propria decisione:
“Il punto di equilibrio deve dunque rinvenirsi nel rispetto del principio di assorbimento, nel senso che soltanto ove intervenga una decisione che in ogni caso contenga in sè una valutazione del merito di tale incisività da assorbire l’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza, potrà dirsi ragionevolmente precluso il riesame di tale punto da parte del giudice chiamato a pronunciarsi in sede di impugnative proposte avverso i provvedimenti de libertate. Il tema del presente giudizio di costituzionalità sta dunque tutto nell’esaminare se il decreto che dispone il giudizio emesso all’esito della udienza preliminare possa ritenersi o meno rispondente a un simile postulato”.
7.6 Ciò che la Corte Costituzionale, però, riteneva non sostenibile, era la totale sovrapponibilità delle valutazioni della ordinanza di custodia cautelare e del decreto di rinvio a giudizio:
“Non v’è dubbio, quindi, che la soppressione dell’aggettivo “evidente”, che prima circoscriveva entro angusti confini la regola di giudizio che presiedeva alla adozione delle formule in fatto della sentenza di non luogo a procedere, abbia sensibilmente aumentato la possibilità di adottare una siffatta pronuncia e, per converso, incrementato in corrispondente misura l’apprezzamento che, sempre in fatto, corrobora l’alternativa scelta della translatio iudicii. Ma da tale pur significativo mutamento di regime non è possibile trarre la conclusione che l’atto di rinvio a giudizio si presenti come decisione fondata su una valutazione del merito necessariamente sovrapponile a quella che inerisce alla verifica del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza che legittima l’applicazione e il mantenimento delle misure cautelari personali, con la conseguenza di non poter ritenere assorbita quest’ultima delibazione nella prima e, dunque, coerentemente precluso il relativo controllo nella incidentale sede del gravame cautelare”.
L’argomento in tema di regola del proscioglimento era quindi che:
“L’apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all’esito della udienza preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento: la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche dopo le modifiche subite dall’art. 425 c.p.p., una sentenza di tipo “processuale”, destinata null’altro che a paralizzare la domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero.
Da ciò consegue che, ove la prova risulti insufficiente o contraddittoria, l’adozione della sentenza di non luogo a procedere potrà dirsi imposta soltanto nei casi in cui si appalesi la superfluità del giudizio, vale a dire nelle sole ipotesi in cui è fondato prevedere che l’eventuale istruzione dibattimentale non possa fornire utili apporti per superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà probatoria. Ove ciò non accada, quindi, risulterà scontato il provvedimento di rinvio a giudizio che, in una simile eventualità, lungi dal rinvenire il proprio fondamento in una previsione di probabile condanna, si radicherà null’altro che sulla ritenuta necessità di consentire nella dialettica del dibattimento lo sviluppo di elementi ancora non chiariti.
E’ evidente, allora, che in siffatte ipotesi il decreto che dispone il giudizio non potrà ritenersi in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza che sostengono l’adozione e il mantenimento delle misure cautelari personali, sicchè precluderne l’esame nelle impugnazioni de libertate equivale ad introdurre nel sistema un limite che si appalesa irragionevolmente discriminatorio e al tempo stesso gravemente lesivo del diritto di difesa, per di più proiettato nella specie verso la salvaguardia di un bene di primario risalto quale è quello della libertà personale”.
7.7 Tale valutazione, invero, va rammentato che non era l’esito di una decisione che intendeva ridurre le garanzie per l’imputato – riconosciute dalla interpretazione di questa Corte quanto alla portata sostanziale della decisione di rinvio a giudizio – ma aveva l’opposta finalità di ampliare tali garanzie, evitando che il rinvio a giudizio precludesse ogni possibilità di discutere il fondamento della misura cautelare in applicazione. Ciò considerato, non si può certo affermare che, pur con il riferimento allo “sviluppo dibattimentale”, la Corte Costituzionale abbia affermato che la udienza preliminare sia un mero passaggio formale e che il rinvio a giudizio sia doveroso persino in caso di un “mero sospetto” (rispetto al quale vi è possibilità di sviluppo dibattimentale); la Corte ha dato invece rilievo al carattere aperto della situazione che il giudice della udienza preliminare deve valutare ed al carattere invece chiuso, di “colpevolezza allo stato degli atti”, della valutazione di gravità indiziaria. Nell’un caso è ben consentito il passaggio al dibattimento valutando, ad es., la prospettiva di acquisizione di una annunciata testimonianza mentre, nell’altro, della misura cautelare, non è certo consentita la immediata esecuzione della ordinanza coercitiva nelle more della acquisizione della prova che renderà “grave” il quadro indiziario che al momento, senza tale prova, sia semplicemente “serio”.
In definitiva, la Corte Costituzionale non superava del tutto i principi affermati da questa Corte con riferimento alla valutazione del giudice della udienza preliminare ma considerava essenzialmente la non sovrapponibilità del dato tipo di giudizio rispetto a quello, ex art. 273 c.p.p., della ordinanza cautelare.
7.8 La giurisprudenza di questa Corte, successiva a tale ultima decisione e prima della riforma del 1999, del resto, continuava a tenere conto della necessità di un pur “minimum” probatorio a carico del soggetto da rinviare a giudizio: Sez. 1, Sentenza n. 1490 del 18/11/1998 Ud. (dep. 05/02/1999) Rv. 212335 In tema di sentenza di non luogo a procedere, a seguito della modifica apportata all’art. 425 c.p.p. della L. 8 aprile 1993, n. 105, art. 1 della (soppressione del requisito dell'”evidenza” dei presupposti per l’emissione del provvedimento), va affermato il principio della necessità di pronunziare sentenza di non luogo a procedere sia nel caso di prova positiva della innocenza, sia nel caso di mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova di colpevolezza, sempre che essa non appaia integrabile nella successiva fase del dibattimento. “Sez. 6, Ordinanza n. 3426 del 03/11/1998 Cc. (dep. 31/03/1999) Rv. 214047.
In tema di requisiti per il proscioglimento dell’imputato all’esito dell’udienza preliminare, il legislatore ha inteso evitare che pervengano alla fase del giudizio situazioni nelle quali risulti con ragionevole certezza che l’imputato meriti il proscioglimento; ciò avviene nei casi di sicura infondatezza dell’accusa, quando cioè gli atti offrono la prova dell’innocenza dell’accusato o la totale mancanza di elementi a carico, ma altresì in presenza di sicura inidoneità delle fonti di prova acquisite ad un adeguato sviluppo probatorio, nella dialettica del contraddittorio dibattimentale”.
In entrambe le decisioni, difatti, si fa riferimento alla valutazione delle prove già portate in sede di udienza preliminare.
Restava, quindi, ferma la necessità di valutare una soglia minima di dimostrazione del fatto, escludendo, conseguentemente, la possibilità di sottoporre chiunque a giudizio per la sola formulazione di una imputazione basata su una semplice notizia di reato. Si rammenta come sia ben possibile che vi sia una notizia di reato che non sia utilizzabile quale prova, si pensi alle intercettazioni non utilizzabili probatoriamente secondo la disciplina dell’art. 270 c.p.p., tali comunque da integrare notizie di reato, ovvero alla dichiarazione di un chiamante in correità priva di riscontri, quindi inutilizzabile a fini probatori.
8. Rispetto alla linea giurisprudenziale che, quindi, riconosceva la funzione della udienza preliminare sopra descritta dalle Sezioni Unite (si ribadisce solo parzialmente rivista dalla Corte Costituzionale al ben diverso fine di riconoscere garanzie all’indagato in misura maggiore di quella risultante dalla predetta interpretazione), è poi intervenuta la riforma di cui alla L. n. 479 del 1999 che innovava in modo vario e profondo la disciplina in oggetto:
– ampliava la possibilità di proscioglimento aggiungendo alla preesistente formula di cui all’art. 425 c.p.p. la ulteriore regola che “il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonea a sostenere l’accusa in giudizio”. – Assegnava al giudice della udienza preliminare poteri di merito consistenti sia nello svolgimento di attività istruttorie in corso di udienza preliminare, limitatamente alla ipotesi di decisività per il non luogo a procedere, che nella indicazione di ulteriori indagini al pubblico ministero, laddove il giudice ritenesse le indagini stesse incomplete, fissando un termine per il loro compimento.
– Ed ancora, consentendo la valutazione di merito al fine della applicabilità delle attenuanti per l’eventuale proscioglimento (norma, all’epoca, ben più attuale per l’effetto in tema di prescrizione, venuto meno con la riforma di quest’ultimo istituto).
8.1 Pur se l’evidente ampliamento dei poteri del giudice per l’udienza preliminare appariva toccare anche la ampiezza della sua valutazione sulla “serietà” della accusa, restava evidentemente ferma la non sovrapponibilità tra il rinvio a giudizio, situazione “aperta”, e la misura cautelare, situazione “chiusa”. In ragione, però, di una giurisprudenza minoritaria che aveva riproposto il tema della non deducibilità, all’esito del rinvio a giudizio delle questioni in tema di gravità indiziaria, interveniva nuovamente questa Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 39915 del 2002.
Questa sentenza, come detto, esaminava in modo approfondito l’evoluzione del tema delle condizioni per il rinvio a giudizio e, in particolare, valutava le ultime decisioni della Corte Costituzionale che, da ultimo, era giunta a ritenere che in sede di rinvio a giudizio debba farsi una valutazione di tipo sostanziale, proprio per effetto della riforma del 1999: (“la Corte costituzionale ribadisce infine, con la sentenza n. 335 del 2002, sempre in tema di operatività del principio di imparzialità del giudice, che “l’udienza preliminare, in conseguenza degli interventi innovativi derivanti dalla L. n. 479 del 1999 ha perduto la sua iniziale connotazione quale momento processuale”; che “in questo quadro normativo le valutazioni di merito affidate al giudice sono state private di quei caratteri di sommarietà che, fino alle indicate innovazioni legislative, erano tipici di una decisione orientata soltanto, secondo la sua natura, allo svolgimento (o alla preclusione dello svolgimento) del processo”; che “il nuovo art. 425, in questo modo, chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale”).
8.2 La regola di giudizio, quindi, secondo le Sezioni Unite del 2002, comprende la “probabilità di colpevolezza dell’imputato”:
“Si intende cioè sostenere che il radicale incremento dei poteri di cognizione e di decisione del giudice dell’udienza preliminare, pur legittimando quest’ultimo a muoversi implicitamente anche nella prospettiva della probabilità di colpevolezza dell’imputato, non lo ha tuttavia disancorato dalla fondamentale regola di giudizio per la valutazione prognostica, in ordine al maggior grado di probabilità logica e di successo della prospettazione accusatoria ed all’effettiva utilità della fase dibattimentale, di cui il legislatore della riforma persegue, espressamente, una significativa deflazione”.
La Corte, quindi, conferma la necessità, ai fini del rinvio a giudizio, di una consistenza del materiale probatorio sul quale poi effettuare le valutazioni di utilità del dibattimento.
Allo stesso tempo, invece, ribadisce la impossibilità di ritenere precluso, a seguito di rinvio a giudizio, l’esame dei gravi indizi ai fini del provvedimento cautelare rimarcando le già viste peculiarità in tema di giudizio definito allo stato degli atti per la misura cautelare, la esistenza di un obbligo di motivazione sulla misura cautelare e non sul decreto di rinvio a giudizio, la possibilità di riesame avverso la misura cautelare e la impossibilità di impugnazione del decreto di rinvio a giudizio etc..
8.3 Quanto al mutamento della giurisprudenza costituzionale che, dopo la riforma del 1999, ha modificato la propria interpretazione in tema di contenuto sostanziale della decisione del gup, può anche rammentarsi la sentenza 206/1999 che, nel considerare la compatibilità costituzionale di disposizioni che comportavano la sospensione del pubblico dipendente rinviato a giudizio per gravi reati, considerava proprio come il rinvio a giudizio contenesse in sè un apprezzamento di indizi:
“L’unica domanda cui si deve rispondere è se il rinvio a giudizio, in sè, e dunque prescindendo necessariamente da possibili distorsioni o eccessi che si verifichino nella pratica giudiziaria – e che debbono trovare altrove il proprio rimedio (non da ultimo nell’azione di risarcimento nei casi di responsabilità civile per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie) sia sufficiente a fondare non irragionevolmente la sospensione.
La risposta deve essere positiva, poichè il rinvio a giudizio, che interviene al termine dell’indagine preliminare e comunque presuppone che siano stati raccolti elementi tali da precludere una pronuncia di insussistenza del fatto ovvero della colpevolezza o della punibilità dell’imputato (cfr. art. 425 c.p.p.), consentendo dunque di eliminare semplici sospetti privi di riscontro o accuse del tutto prive di consistenza comporta una valutazione del giudice vertente proprio sulla esistenza degli elementi che rendono necessario il giudizio per accertare definitivamente il reato…….
Non può dunque dirsi che sussista sproporzione fra questo livello di consistenza dell’accusa e una misura sospensiva che mira appunto a tutelare il pubblico interesse dal pregiudizio che la stessa esistenza dell’accusa, in quanto tale, produrrebbe se l’accusato permanesse nell’ufficio”.
8.4 La recente giurisprudenza, invece, ha in larga parte affermato che la regola di giudizio è essenzialmente la valutazione della possibilità di acquisizione di prove in dibattimento, indipendentemente dal corpo indiziario raccolto in fase di udienza preliminare, così limitando, di fatto, il proscioglimento ai casi di prova positiva di innocenza o assoluta carenza di elementi a carico.
Le sentenze sono varie, ma tutte caratterizzate da argomentazioni simili e di rinvio ai precedenti:
“In conclusione, a meno che ci si trovi in presenza di elementi palesemente insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio, per l’esistenza di prove positive di innocenza o per la manifesta inconsistenza di quelle di colpevolezza, la sentenza di non luogo a procedere non è consentita quando l’insufficienza o la contraddittorietà degli elementi acquisiti siano superabili in dibattimento, potendosi affermare, in aderenza anche a quanto affermato in dottrina, che “sfuggono all’epilogo risolutivo i casi nei quali, pur rilevando incertezze, la parziale consistenza del panorama d’accusa è suscettibile di essere migliorata al dibattimento”. Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014 – dep. 06/10/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968″ nell’assunto vale anche per l’evenienza, prevista dall’art. 425 c.p.p., comma 3, che gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contradditori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio.
Il criterio di valutazione per il giudice dell’udienza preliminare non è infatti l’innocenza, bensì – dunque, pur in presenza di elementi probatori insufficienti o contraddittori (sempre che appaiano destinati, con ragionevole previsione, a rimanere,, tali nell’eventualità del dibattimento) – l’impossibilità di sostentare l’accusa in giudizio.
In conclusione, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere solo sulla base di un giudizio prognostico di “immutabilità” del quadro probatorio nella successiva fase del dibattimento, per effetto dell’acquisizione di nuove prove o di una diversa rivalutazione degli elementi in atti, nonchè quando le fonti di prova non si prestino a soluzioni alternative e aperte (Sez. 6A, 3 luglio 2008, n. 35178, P.M. in proc. Brunetti, Sez. 6A, 16 novembre 2001, n. 45275, Acampora) Sez. 2, n. 5669 del 28/01/2014 – dep. 05/02/2014, P.M. in proc. Schiaffino e altri, Rv. 258211″.
8.5 Di fatto, la stretta applicazione di una tale giurisprudenza, comporterebbe la applicazione della funzione di filtro dell’udienza preliminare solo nei casi di imputazione palesemente azzardata, per la quale sia dubbia la stessa natura di notizia di reato. Basta considerare che, nel ritenere che sia necessaria ex art. 425 c.p.p. una condizione di “immutabilità” del quadro probatorio, si fissa una soglia per il proscioglimento inferiore anche alla soglia prevista per l’archiviazione per la quale, ai sensi dell’art. 125 disp. att. c.p.p., va valutata la non adeguatezza degli elementi già acquisiti a sostenere l’accusa in dibattimento, senza tenere conto di possibili prove da individuare. Insomma, secondo una tale ricostruzione, con determinato materiale il PM dovrebbe chiedere (ed ottenere) l’archiviazione, ma se, chiedesse il rinvio a giudizio, il gup non potrebbe prosciogliere salvo il caso della certa esclusione della individuazione di nuovo materiale probatorio.
9. Quelle che seguono, quindi, sono le conclusioni cui giunge il collegio.
Nel solco delle decisioni delle Sezioni Unite che più ampio spazio riservano all’esercizio di una attività di filtro da parte del gup, della mutata prospettiva della Corte Costituzionale che, dopo il 1999, ha riconosciuto al gup un ambito di valutazione in merito e della giurisprudenza che ha proseguito nel sostenere tale interpretazione, si ritiene di confermare che il rinvio a giudizio necessita, comunque, di un accertamento di sufficienza di indizi/serietà della ipotesi di accusa, come da argomentazioni che seguono:
Con la disciplina introdotta dal 1999, risulta che la regola di giudizio della udienza preliminare non è più (se lo è mai stata) limitata alla verifica superficiale che non vi siano ostacoli al rinvio a giudizio; consiste, invece, nel valutare innanzitutto la esistenza di un corpo indiziario da qualificare come “serio” e, poi ed in aggiunta, nella valutazione di una seria prospettiva di un risultato positivo per l’accusa nel dibattimento. Laddove si ammettesse il rinvio a giudizio in assenza di un minimum probatorio, si consentirebbe la sottoposizione al processo al di fuori di qualsiasi verifica della necessità di una tale compressione dei diritti della persona imputata.
9.1 Già a fronte della iniziale formulazione dell’art. 425 c.p.p. si riteneva (si rammenta la sentenza S.U. del 1995 sopra riportata) che comunque non potesse darsi lettura diversa da quella per la quale, in sede di decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio, era prevista una valutazione di merito, (il che la Corte Costituzionale nel 1996 in realtà non smentiva, limitandosi a dire che si trattava di valutazione meno approfondita, “processuale” e non di merito, rispetto alla interpretazione del giudice di legittimità e, comunque, non comparabile alla regola di giudizio – la gravità indiziaria – della misura cautelare).
Va quindi considerato come il comma aggiunto nel 1999 allo stesso art. 425 cit., soprattutto se letto rispetto al “diritto vivente” sul quale si andava ad innestare, era ed è testuale nell’ampliare l’ambito di valutazione del giudice per l’udienza preliminare richiedendo la esistenza di un minimo probatorio: “il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.
Tale disposizione è stata introdotta al chiaro fine di ampliare l’ambito di intervento del gup, rispetto ad una interpretazione che, si è detto, già riteneva che ai fini della emissione del decreto ex art. 429 c.p.p. fosse necessario apprezzare una “consistenza” dell’ipotesi di accusa. Quindi, ragionevolmente, salvo considerare la norma pleonastica, deve ritenersi che quella riforma imponesse un sindacato più attento del gup. 9.2 Anche con la riforma del 1999, quindi, l’udienza preliminare costituisce “garanzia” e non forma ridondante, perciò è stata esclusa solo nei processi per reati minori (prima individuati sulla scorta della competenza della “Corte bassa” rappresentata dalla Pretura, ora in base fondamentalmente ai limiti edittali); e la funzione primaria di garanzia dell’imputato è proprio quella di prevenirne la sottoposizione all’esercizio della azione penale senza condizioni sostanziali a giustificarlo.
La interpretazione letterale del comma aggiunto dell’art. 425 c.p.p. è che la preclusione al rinvio a giudizio è conseguenza innanzitutto della “insufficienza” del materiale probatorio. Mentre l’espressione “elementi … contraddittori” potrebbe anche leggersi quale impossibilità di sviluppo dibattimentale, “elementi…
insufficienti”, che certamente non esclude che possa esservi uno sviluppo dibattimentale (anzi, l’insufficienza degli elementi prodotti all’esito delle indagini, riduce il materiale che potrebbe essere valutato a favore dell’imputato rendendo più difficile negare la possibilità teorica di acquisire utili prove nel dibattimento), non significa altro che quello che è il suo immediato significato:
“scarsità del materiale probatorio”.
9.3 Se, quindi, bastasse il carattere “aperto” degli elementi acquisiti, ovvero la possibilità che in dibattimento si raccolgano prove utili – che al momento dell’udienza preliminare non vi sono -, tale disposizione non avrebbe alcuna ragione d’essere, potendo disporsi il proscioglimento solo per i casi limite della accertata innocenza, delle imputazioni macroscopicamente impossibili e dei casi in cui il materiale a carico non giustifichi neanche la prospettazione di commissione del reato.
Quanto alla espressione “o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”, appare evidente che la stessa, per come collocata nel contesto complessivo, non si raccorda a “insufficienza” o a “contraddittorietà” per completarne il senso nel caso concreto, bensì impone che nel caso inverso (ovvero quando gli elementi siano “sufficienti” e “univoci”), non si possa rinviare a giudizio nei casi in cui, pur a fronte di tali elementi, non vi sia alcuna prospettiva di ulteriore sviluppo per giungere alla prova piena del fatto.
9.4 Tale è la lettera della disposizione, cui corrisponde la ragione della introduzione nel pacchetto della legge “Carotti” delle disposizioni di valorizzazione dell’udienza preliminare e, comunque, la lettura della giurisprudenza delle Sezioni Unite e della Corte Costituzionale sopra citata.
Al dato testuale diretto, nell’ambito della disciplina specifica della “regola di giudizio”, si aggiungono altri elementi significativi.
Si è detto come il sistema riformato appaia presupporre sostanzialmente la “completezza” delle indagini; tale regola risulterebbe dalla lettura dell’art. 421 bis c.p.p. “ordinanza per la integrazione delle indagini”.
Va quindi considerato che, nella introduzione di nuovi e forti poteri del giudice per l’udienza preliminare, quello di procedere alla raccolta di prove nel corso della udienza ex art. 422 c.p.p. è potere che può essere esercitato solo al fine di giungere al proscioglimento mentre un tale limite, invece, non è stato posto alla ordinanza per la integrazione delle indagini.
La possibilità di integrare le indagini è, ragionevolmente, un indice della necessità di acquisire un quadro probatorio minimo per il rinvio a giudizio. La necessità di completamento delle indagini ha ragione d’essere solo se, a fronte di elementi a carico insufficienti, il giudice sia tenuto al proscioglimento. Se non fosse necessario ottenere tale quadro probatorio minimo non vi sarebbe necessità della integrazione delle indagini: il giudice potrebbe rinviare a giudizio per il possibile sviluppo dibattimentale; ed anzi, proprio nel caso della possibilità di integrazione delle indagini, sarebbe innegabile la esistenza di uno spazio per un ulteriore sviluppo probatorio e, quindi, non vi sarebbe ragione di ritardare il rinvio a giudizio.
9.5 Il potere di integrazione introdotto con l’art. 421 bis c.p., invece, appare finalizzato, laddove sia in concreto possibile, al completamento della acquisizione in caso di mancanza di un quadro probatorio minimo per giustificare il giudizio.
Se bastasse la mera notizia di reato per giustificare il rinvio a giudizio, accompagnata dalla possibilità teorica di ulteriore sviluppo, tale integrazione non avrebbe alcuna possibile funzione gl’udienza preliminare avrebbe costituito un filtro a maglie larghe delle imputazioni azzardate posto che, ogniqualvolta il pubblico ministero avesse esercitato l’azione penale richiedendo il rinvio a giudizio in presenza di elementi inidonei per carenza o insufficienza o contraddittorietà della prova a sostenere l’accusa in dibattimento, il giudice dell’udienza preliminare non avrebbe potuto prosciogliere l’imputato e, quindi, l’imputazione azzardata sarebbe sfociata egualmente nel dibattimento. Se, invece, l’art. 425 c.p.p. fosse stato riferibile pure alle situazioni di prova carente, insufficiente o contraddittoria, il filtro sarebbe risultato a maglie strette e la funzione di controllo sulle imputazioni azzardate sarebbe stata effettivamente espletata”).
9.6 Vi sono ancora altre indicazioni della necessità di un minimo probatorio su cui innestare la valutazione prognostica:
– la possibilità di applicare le attenuanti al fine della applicazione di cause di estinzione del reato (essenzialmente la prescrizione che, nella disciplina previgente, era computata anche in base alle attenuanti) presuppone che, di norma, venga acquisito in sede di udienza preliminare materiale tale da consentire l’esauriente giudizio sostanziale necessario per ritenere applicabili le attenuanti.
– La disciplina del giudizio immediato dimostra che la udienza preliminare diventa superflua quando il livello di prova del fatto sia di tale serietà da apparire ben probabile la fondatezza della tesi di accusa. Se funzione della udienza preliminare fosse solo quella della valutazione della utilità del dibattimento sotto il profilo del possibile sviluppo, non vi sarebbe ragione di un giudizio immediato fondato non sul medesimo giudizio di utile sviluppo della azione penale, bensì sulla condizione che “… la prova appare evidente …”. Ed invece, è proprio la particolarità della evidenza della prova che giustifica la perdita per l’imputato della garanzia rappresentata dall’udienza preliminare (ove potrebbe portare eventuali prove a proprio favore).
– Ciò vale ancor di più per il giudizio immediato “cautelare”: la ragione che consente il rinvio a giudizio senza la garanzia dell’udienza preliminare è la sussistenza di un corpo di elementi probatori a carico – costituente “gravi indizi” ai sensi dell’art. 273 c.p.p. – di rilevante consistenza senza alcuna necessità di valutare il possibile “sviluppo dibattimentale” (eppure, la diversa regola di utilizzabilità delle prove in fase di indagini e di dibattimento, non significa affatto certezza che quelli che sono gravi indizi saranno il fondamento della eventuale condanna, come esperienza insegna in tema di prove orali, in particolare di chiamate di correo, per le quali è fisiologico il rischio di rifiuto di conferma in dibattimento).
– L’art. 421 c.p.p., prevede che il PM, in sede di discussione in udienza preliminare, oltre ad esporre i “risultati delle indagini ..”illustri “… gli elementi di prova che giustificano il rinvio a giudizio”, espressione che, pur a non ritenerla determinante, certamente è testuale nel prevedere che in tale sede vengano indicati elementi di prova, e non di “possibilità” di prova, che giustifichino la sottoposizione della persona al giudizio. La rinnovata regola dell’art. 425 c.p.p., pur se in ipotesi il materiale probatorio fosse sufficiente a giustificare il giudizio, prevede espressamente (come, del resto, la giurisprudenza di legittimità aveva già fatto in via interpretativa) che si tenga comunque conto del suo eventuale carattere “chiuso”, tale da escludere che possa esservi un utile sviluppo del dibattimento; la stessa norma, invece, non prevede, almeno testualmente, che sia sufficiente una mera prospettiva di futura raccolta di prova (la prova “aperta”) per il rinvio a giudizio.
– L’art. 434 c.p.p., nel disciplinare la revoca della sentenza di non luogo a procedere, ipotizza la sopravvenienza/scoperta di “nuove fonti di prova che, da sole o unitamente a quelle già acquisite” consentono il rinvio a giudizio. Quindi: si ipotizza il caso del proscioglimento perchè il materiale probatorio c’era, ma era da solo insufficiente, ovvero era stato smentito all’esito del contraddittorio. Le condizioni per la revoca della sentenza di proscioglimento e l’eventuale rinvio a giudizio sono l’acquisizione di ulteriori elementi probatori. Chiaro come si presupponga un “minimum” probatorio e non si discuta, invece, di mera possibilità di sviluppo dibattimentale.
9.7 Anche guardando le cose da un diverso punto di vista, si giunge a simili conclusioni:
se la interpretazione della regola di giudizio fosse nel senso che il giudice non deve valutare in alcun grado la colpevolezza od innocenza, ma solo considerare se, in base all’esito delle indagini, appaia possibile lo sviluppo dibattimentale ovvero se, allo stato degli atti presentatigli (integrati da allegazioni, anche di indagini difensive, della difesa), vi sia la prova positiva di innocenza, si avrebbe un risultato paradossale che è dimostrato proprio dal ricorso qui in trattazione. Difatti, il PM, in risposta a quei casi, dei vari oggetto del procedimento, in cui il gup considerava il materiale indiziario inconsistente, ha obiettato formulando una osservazione che si può sintetizzare come segue “non si può mai dire, l’imputato magari confessa, o confessa il presunto complice”.
Ovvero, a ritenere che sia sufficiente la mera notizia di reato accompagnata dalla generica indicazione di prove da raccogliere in dibattimento, meno materiale offre il PM e minore è l’ambito in cui il giudice può rilevare la impossibilità di sviluppo dibattimentale ovvero la prova attuale, positiva, di innocenza.
9.8 Palese, inoltre, come, escluso un tale serio ruolo di controllo, l’udienza preliminare, nella catena di attività che portano al processo ordinario, anzichè strumento di garanzia per l’imputato, cui si intende garantire un controllo contro la sottoposizione a processo in base a imputazioni inconsistenti ovvero “azzardate”, diventerebbe ulteriore strumento di “sofferenza” in sè, a fronte degli inevitabili costi, economici e non, per un mero “passaggio di carte”; la assenza di un minimo probatorio non precluderebbe affatto il rinvio a giudizio e anche la possibilità di offrire prova contraria sarebbe una attività consentita nei limiti della assenza di una attività istruttoria in udienza preliminare.
10. In conclusione, la regola di giudizio al fine del rinvio a giudizio o, per converso, del proscioglimento nel merito, consiste innanzitutto nella presentazione da parte del PM di elementi probatori che dimostrino allo stato un livello di fondatezza delle accuse, definibile “serio”. Rispetto a tale precondizione, il giudice, nel contraddittorio delle parti, valuterà che a tale materiale si aggiunga una prospettiva di utile sviluppo delle prove a carico nel corso del dibattimento ovvero la impossibilità che ciò avvenga (caso tipico è la utilizzazione di dichiarazioni del correo che ha, però, manifestato la scelta di non ripetere le sue accuse).
La situazione di incertezza probatoria, invece, pur se si colloca in un caso nel quale è innegabile lo “sviluppo dibattimentale”, non giustifica il rinvio a giudizio. Il ruolo del gup non è certamente quello di verificare l’innocenza (se non evidente) o la colpevolezza, bensì quello di individuazione di una minima probabilità di colpevolezza, condizione che giustifica la sottoposizione al processo, e la assenza di ragioni per ritenere che l’accusa non sia suscettibile di essere definitivamente provata in dibattimento. Va peraltro rammentato come tale situazione si collochi in un contesto di tendenziale completezza delle indagini che si rileva nell’art. 421 bis c.p.p..
11. In definitiva, la regola che si ritiene applicabile è la seguente:
Il giudice della udienza preliminare è chiamato ad una valutazione di effettiva consistenza del materiale probatorio a fondamento della accusa a carico dell’imputato, essendo tale condizione minima necessaria a giustificare la sottoposizione al processo. Ritenuta tale adeguatezza, se del caso esercitando il poteri di integrazione delle indagini che gli vengono riconosciuti, il gup dispone il rinvio a giudizio fatto salvo il caso in cui vi siano concrete ragioni per ritenere che non sia possibile giungere in alcun modo ad una prova di colpevolezza in dibattimento, a ciò non prestandosi il materiale individuato o che, ragionevolmente, potrebbe essere individuato.
12. Sulla scorta di tali regole, la decisione è agevole.
Premesso che, anche a fronte di una sentenza inappellabile, il giudice di legittimità non può sindacare le valutazioni in merito, la decisione impugnata è ineccepibile sotto il profilo della regola applicata: il giudice procedente ha correttamente ritenuto che il suo compito fosse quello di verificare che fossero acquisiti gli elementi minimi ad attestare la fondatezza delle accuse. Tali elementi minimi, nei casi di cui sopra, non vi erano.
Per una delle imputazioni, inoltre, ha verificato la impossibilità di utile sviluppo dibattimentale, per esservi solo la prova offerta da una chiamata in correità, priva però di alcun attuale riscontro oggettivo e senza alcuna prospettiva di futura acquisizione di riscontri.
A fronte di tali valutazioni, il ricorso affronta solo parte delle imputazioni e delle posizioni dei singoli imputati prosciolti, da un lato invocando la applicazione di una regola iuris che, si è detto, è erronea e, dall’altro, formulando osservazioni in merito non consentite in questa sede.
Va quindi disposto, come sopra anticipato, il rigetto del ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2015
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