SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II
SENTENZA 31 agosto 2015, n.17321
Ritenuto in fatto
Con atto di citazione notificato il 22 febbraio 1995 i coniugi D.G.A. e G.G. evocavano, dinanzi al Tribunale di Foggia, L.D. esponendo di avere acquistato, con atto notarile del 28.10.1993, dallo I.A.C.P. di Foggia, in regime di comunione legale, un alloggio di edilizia residenziale pubblica, sito in Foggia, via dei Preti n. 1, comprensivo della comproprietà del locale comune al piano scantinato di circa mq. 25, occupato senza titolo da convenuto, per cui chiedevano che quest’ultimo fosse condannato all’immediato rilascio del locale, per consentirne l’uso comune, oltre al risarcimento dei danni.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del L., il quale assumeva di avere acquistato il locale, unitamente ad appartamento posto nello stesso condominio, dal genitore, con atto pubblico del 12.2.1972, posseduto in via esclusiva a far tempo da tale data, per cui eccepiva in ogni caso l’intervenuta usucapione decennale ovvero quella ordinaria, con necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri condomini, il giudice adito autorizzava la chiamata in causa dello IACP a cura di parte attrice, il quale nel costituirsi deduceva la responsabilità degli acquirenti, che nonostante fossero stati immessi nella disponibilità dell’immobile dal 1987, non avevano mai comunicato alcuna molestia e comunque il prezzo di vendita dell’appartamento prescindeva dal locale in questione.
Con sentenza del 2003 il Tribunale di Foggia ordinava al L. di cessare la molestia consentendo agli attori l’utilizzo in comune del locale condominiale del vano cantinato, rigettata la domanda risarcitoria.
In virtù di rituale appello interposto da L.D., la Corte di appello di Bari, nella resistenza degli appellati, che svolgevano anche appello incidentale condizionato nei confronti dello IACP, il quale rimaneva contumace, costituiti nel corso del giudizio gli eredi dell’appellante, deceduto il (OMISSIS), L.L. e P., in accoglimento del gravame e in riforma della decisione impugnata, rigettava la domanda attorea, respinto l’appello incidentale.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale – premesso che l’azione introdotta andava qualificata quale rivendicazione, essendo diretta non solo all’accertamento della comproprietà del locale scantinato, ma anche alla sua restituzione, mentre doveva ritenersi sollevata dal convenuto la sola eccezione di usucapione, diretta come era semplicemente a paralizzare la domanda di rivendica – evidenziava che dalle prove testimoniali (le quali dimostravano l’uso esclusivo) e dall’atto di acquisto dell’appellante risultava che oltre all’alloggio, lo stesso aveva acquistato anche il locale cantina, mentre il locale comune era rappresentato dal locale corridoio che dal vano scala consentiva l’accesso ai vari locali al piano cantinato. Aggiungeva che la condotta degli appellati, consistita nell’invio di atti di diffida e contestazione, non infirmavano la legittimità del possesso ventennale, non violento, né clandestino.
Concludeva che non poteva essere esaminata la domanda svolta nei confronti dello IACP per non essere mai stato allo stesso notificato l’atto di appello incidentale.
Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Bari hanno proposto ricorso per cassazione i coniugi D.G. – G., sulla base di sei motivi, cui hanno replicato con controricorso i L., non svolte difese dall’intimato IACP.
Motivi della decisione
Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 1102 c.c. per avere la corte territoriale erroneamente qualificato l’azione loro esperita come reale e non già come avente carattere personale per avere richiesto la restituzione, e non l’accertamento giudiziale del loro diritto di comproprietà, in danno del convenuto prospettando che questi occupa, in modo esclusivo ed arbitrario, il locale di proprietà condominiale. Con la conseguenza che il convenuto era stato esonerato dalla più onerosa probatio diabolica. Diversamente il contraddittorio avrebbe dovuto essere integrato nei confronti di tutti i comproprietari. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: ‘In ipotesi l’attore agisca in giudizio chiedendo solo il rilascio della res comune da parte del convenuto, che la occupa illegittimamente, senza richiedere la declaratoria di accertamento della sua comproprietà, non trova applicazione l’istituto della rivendicazione trattandosi di azione di mera restituzione di carattere personale e non reale o è legittimo opinare il contrario?’.
La doglianza è infondata.
È opportuno a questo punto richiamare la distinzione tra l’azione di rivendica e quella di restituzione. La prima ha carattere reale ed è fondata sul diritto di proprietà di un bene, di cui l’attore assume di esser titolare, ma di non averne la materiale disponibilità; è esperibile contro chiunque, di fatto, possiede o detiene il bene (art. 948 c.c.), ed è volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà di esso e a riaverne il possesso. La seconda è fondata sull’inesistenza, ovvero sul sopravvenuto venir meno, di un titolo alla detenzione del bene da parte di chi attualmente ne disponga per averlo ricevuto da colui che glielo richiede o dal suo dante causa – e per questo ha natura personale – ed è volta, previo accertamento di tale mancanza, ad attuare il diritto – personale – alla consegna del bene. Pertanto in quest’ultimo caso l’attore non ha l’onere di fornire la prova del suo diritto di proprietà, bensì può limitarsi ad allegare l’insussistenza ab origine, oppure il successivo venir meno – per invalidità, inefficacia, decorso del termine di durata, esercizio della facoltà di recesso – del titolo giuridico legittimante la detenzione del bene da parte del convenuto, che perciò è obbligato a restituirlo.
Evidentemente le due azioni – pur tendendo entrambe al risultato pratico del recupero della disponibilità materiale del bene – hanno natura e presupposti diversi e sono distinte, sia per causa petendi che per petitum.
Pertanto, prescindendo dalla qualificazione dell’azione effettuata dalla parte, la domanda di restituzione di un bene, fondata sull’arbitraria disponibilità materiale da parte del convenuto, chiarendo che trattasi di locale acquisito con l’atto notarile di compravendita di appartamento sito nello stesso stabile condominiale, accompagnata dalla contestuale dichiarazione della esistenza su di esso di un diritto reale di (com)proprietà ed in mancanza della deduzione di un rapporto obbligatorio fra le parti, rientra dall’ambito delle azioni reali perché può esser qualificabile come rivendica, non già quale azione personale di rilascio o di restituzione, come asserito dai ricorrenti, alla quale il convenuto ha contrapposto il suo diritto al possesso esclusivo in base all’atto pubblico di acquisto del proprio appartamento del 1972, che assumeva comprendere anche il locale in contesa, con conseguente maturazione, in ogni caso, dell’usucapione.
Mette conto, altresì, ricordare, per un corretto approccio della questione sottoposta dagli impugnanti all’esame della Corte, che ricorre l’ipotesi della domanda riconvenzionale quando il convenuto, traendo occasione dalla domanda contro di lui azionata, oppone una controdomanda, chiedendo un provvedimento positivo sfavorevole all’attore, che va oltre il rigetto della domanda principale e che gli attribuisca beni determinati in contrapposizione a quelli oggetto della pretesa ex adverso azionata; invece con l’eccezione riconvenzionale il convenuto formula una richiesta che, pur ampliando il tema della controversia, ha carattere difensivo e non di attacco, posto che essa tende alla sola reiezione della domanda attrice, attraverso l’opposizione al diritto fatto valere dall’attore di altro diritto idoneo a paralizzarlo (confr. Cass. 13 febbraio 2006 n. 3072). Così ricostruito il rapporto tra domanda ed eccezione riconvenzionale, ritiene il collegio che non abbia errato il giudice di merito nel ritenere proposta dai coniugi D.G. -G. domanda di rivendica e dal convenuto L.D. eccezione riconvenzionale di usucapione del medesimo locale scantinato, per essere quest’ultima tesa solo a paralizzare la domanda attrice, volta a dichiarare abusiva ed illegittima l’occupazione dello spazio in comproprietà de quo, con conseguente condanna dello stesso al rilascio per consentirne l’uso comune, basate entrambe su una stessa situazione di fatto, l’una come progressione difensiva dell’altra. Corretta è, dunque, la qualificazione delle rispettive difese proposte dalle parti: stando alla ricostruzione effettuata dalla Corte d’appello, la deduzione degli attori presupponendo l’accertamento della comproprietà del locale scantinato, oltre alla sua restituzione, ha introdotto una azione petitoria, ed il convenuto non avendo richiesto la verifica, in suo favore, dell’avvenuto acquisto di un diritto per effetto del possesso protrattosi per il periodo legale, mirava esclusivamente a paralizzare la domanda avversaria. Del resto, l’azione personale di restituzione, come già dice il nome, è destinata a ottenere l’adempimento dell’obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall’attore al convenuto, in forza di negozi quali la locazione, il comodato, il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario. Essa non può pertanto surrogare l’azione di rivendicazione, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, quando la condanna al rilascio o alla consegna viene chiesta nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell’assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione, poiché il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante la probatio diabolica (in termini, Cass. SS.UU. 28 marzo 2014 n, 7305). Per quanto riguarda poi il regime probatorio – questione sulla quale i ricorrenti si sono particolarmente soffermati – va segnalato che, come più volte chiarito da questa Corte, l’azione di rivendicazione, tendendo al riconoscimento del diritto di proprietà dell’attore ed al conseguimento del possesso sottrattogli contro la sua volontà, esige la prova della proprietà della cosa da parte dell’attore e del possesso di essa da parte del convenuto (tra le tante: Cass. 19 febbraio 2002 n. 2392). Il principio, posto dall’art. 2697 c.c., secondo il quale chi vuoi far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, ha riguardo ai fatti che determinano il sorgere del diritto vantato, mentre la prova delle condizioni negative, ossia delle circostanze idonee ad impedire la nascita o il perdurare di tale diritto fa carico al soggetto passivo della pretesa.
Ne deriva che la corte distrettuale ha pronunciato in maniera conforme al diritto, avendo respinto la domanda per la mancata prova della proprietà del locale in capo agli attori, a fronte della dimostrazione, a mezzo delle prove testimoniali, dell’uso esclusivo dello stesso scantinato da parte del convenuto sin dal 1972.
Né in presenza di tale vicenda processuale si pone la questione dell’integrazione necessaria del contraddittorio nei confronti dei restanti condomini – dedotta in primo grado dal convenuto (v. pag. 3 della sentenza impugnata) ed implicitamente respinta dal primo giudice e non riproposta in appello – stante la qualificazione delle difese delle parti contrapposte nei termini di cui sopra.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 346 c.p.c. per avere la corte di merito posto a base del proprio convincimento l’atto di acquisto del bene de quo da parte del dante causa dei resistenti, atto notaio Marano Delfino del 1972, senza considerare che si trattava di argomentazione facente parte delle difese del convenuto e non riproposta in appello, per cui la relativa eccezione doveva ritenersi rinunziata. A corollario del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: “Il giudice di secondo grado, investito dal gravame, in violazione dell’art. 346 c.p.c., non può prendere in esame domande ed eccezioni che la parte non abbia riproposto in appello che, quindi, sono da intendersi rinunciate ed abbandonate o è vero il contrario?’.
Il motivo è inammissibile prima che fondato.
L’onere di riproposizione, previsto dal secondo comma dell’art. 345 c.p.c., concerne soltanto le eccezioni in senso proprio e non riguarda certo gli argomenti difensivi e le relative prospettazioni giuridiche, proprio perché questi debbono sempre ritenersi implicitamente sottoposti ai giudice di secondo grado, attraverso la proposizione dell’appello o con l’istanza di rigetto della impugnazione, li che, in particolare, deve ritenersi con riferimento alle contestazioni dell’esistenza del fatto costitutivo della domanda, da considerarsi implicitamente ricomprese – fatta eccezione per le ipotesi in cui attengano a punti esaminati e decisi in primo grado – nella richiesta di rigetto dell’appello, formulata dall’appellato vittorioso in primo grado.
Nella specie, a contrastare la domanda di accertamento della proprietà comune dello scantinato nei confronti dell’occupante abusivo, L.D. – in primo grado – aveva espressamente eccepito non solo l’intervenuta usucapione, ma si era anche difeso assumendo l’acquisto del locale cantina dal suo dante causa, come emergeva dall’atto notaio Marano Delfino del 1972. La corte distrettuale ha ritenuto di respingere la domanda attorea per la mancata prova della proprietà del locale in capo agli attori, fornita dal convenuto la dimostrazione del possesso esclusivo utile ad usucapionem dello stesso scantinato.
È evidente, perciò, che la difesa dei ricorrenti – basata in sostanza sull’argomento dell’acquisto a titolo derivato della proprietà esclusiva del locale, dedotto dal convenuto – risulta fondato su diversa ratio decidendi. La sentenza ha difatti evidenziato come fosse stato provato l’uso esclusivo del bene protratto da oltre venti anni, con diversa configurazione giuridica, di acquisto a titolo originario, in capo al L., per cui la questione (concernente il concorrente acquisto a titolo derivativo della proprietà) è estranea alla (diversa) ratio decidendi sulla quale è fondata la decisione impugnata, che l’ha semplicemente valutata ad abundantiam, come elemento ulteriormente giustificativo della adeguatezza del provvedimento.
Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano erroneità ed illegittimità della motivazione sulle prove acquisite, in particolare quanto alla interpretazione dell’atto del notato Marano di acquisto dell’immobile da parte del L., da cui la corte ha tratto il convincimento del trasferimento anche del locale cantinato.
È parimenti inammissibile la terza censura che ripropone il tema dell’acquisto a titolo derivativo, sotto altro angolo visuale: non è questo l’argomento sul quale si fonda l’accoglimento dell’eccezione riconvenzionale di usucapione (per quanto esposto con riferimento al secondo mezzo), ma si tratta di interlocuzione ipotetica che non ha nessuna incidenza sulla decisione della controversia.
La censura è inammissibile anche sotto altro profilo: con essa i ricorrenti deducono essenzialmente la prospettazione di una diversa analisi del merito della causa, inammissibile in sede di legittimità, nonché nella pretesa di contrastare il risultato dell’attività svolta dalla corte di appello nell’esercizio dei compiti alla stessa affidati e del suo potere discrezionale di apprezzamento dei fatti e delle risultanze istruttorie, con particolare riferimento alla valutazione delle raccolte prove testimoniale e documentali.
Trattasi di attività il cui espletamento costituisce prerogativa del giudice del merito. La motivazione di quest’ultimo al riguardo non è sindacabile in sede di legittimità se – come nella specie -sufficiente ed esente da vizi logici e da errori di diritto: il sindacato di legittimità è sul punto limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza. Spetta infatti solo al giudice del merito individuare la fonte del proprio convincimento e valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dar prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Né per ottemperare all’obbligo della motivazione il giudice di merito è tenuto a prendere in esame tutte le risultanze istruttorie e a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti essendo sufficiente che egli indichi gli elementi sui quali fonda il suo convincimento e dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e fatti che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.
Nel caso in esame non è ravvisabile difetto di motivazione: la sentenza impugnata è del tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto e che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice distrettuale.
Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 1158, 1165 e 2944 c.c. per non avere tenuto conto la corte di merito che l’attività svolta dai coniugi per ottener la riconsegna dei locali aveva riguardato anche l’intesa in base alla quale il L. avrebbe dovuto corrispondere una somma per acquistare il bene comune. L’illustrazione del mezzo è completata dal seguente quesito di diritto: ‘Qualora il possessore, in tema di usucapione, riconosca il diritto altrui e proponga di acquistare l’immobile dai comproprietari da lui posseduto ed asseritamele usucapito, pone in essere un comportamento inconciliabile con la volontà di godere il bene uti dominus tale da interrompere il termine utile per l’usucapione o tale principio è giuridicamente illegittimo’.
Il motivo è infondato e al quesito occorre dare risposta negativa.
La rinuncia tacita all’usucapione è configurabile soltanto allorché sussista incompatibilità assoluta fra il comportamento del possessore e la volontà del medesimo di avvalersi della causa di acquisto dei diritto, senza possibilità di diversa interpretazione (vedi Cass. n. 10026 del 2002). Orbene, nel caso di specie, le dichiarazioni dei testi escussi – riprodotte nel ricorso in ossequio al principio di autosufficienza – (Gu.Mi. e C.M. ), secondo cui il L. avrebbe dichiarato la propria disponibilità ad acquistare il locale in contestazione, ormai maturato il termine per usucapire, non sembrano sufficientemente ed univocamente dimostrativi del pregresso tacito riconoscimento del diritto del Condominio e quindi della rinuncia ovvero dell’interruzione del termine ‘ad usucapionem’. Alla statuita efficacia abdicativa attribuita a siffatte dichiarazioni poteva in sostanza contrapporsi, come rilevato dalla corte territoriale (v. pag. 6 della sentenza impugnata), la diversa interpretazione nel senso che essi fossero ispirati solo alla volontà del convenuto di regolarizzare la propria posizione e di eliminare il contenzioso insorto tra le parti pur senza perdere il diritto acquisito in virtù dell’intervenuta usucapione.
Ne discende che correttamente e senza violazione dei principi sopra enunciati il giudice di appello ha ritenuto che non poteva costituire atto interruttivo dell’usucapione la disponibilità manifestata dal convenuto ad acquistare il bene non implicando tale atto riconoscimento del diritto altrui (sia pure nei limiti fissati dall’art. 1102 c.c. per il godimento della cosa comune) sul bene in tesi posseduto e goduto in via esclusiva dal L..
Con il quinto motivo i ricorrenti si dolgono della violazione degli artt. 1158, 1102, 1141 e 1164 c.c., oltre ad insufficiente motivazione, non essendo sufficiente, ai fini dell’usucapione da parte del comunista di beni in comunione, che questo attui il possesso della cosa, ma è necessario che questo esteriorizzi con comportamento materiale l’intento di possedere il bene in maniera esclusiva. Al riguardo viene riportato un passo della deposizione del teste C.M., non tenuta in alcun conto dalla corte di merito. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di diritto: ‘Il comunista della res communis, oltre ad esercitare un possesso durevole e permanente del bene, deve dimostrare, ai fini della usucapione, di averla posseduta per venti anni anche provando l’animus possidendi o, invece, solo la relazione di fatto con la res fa maturare in suo favore l’usucapione?’.
Del pari non può trovare ingresso il quinto motivo.
Il principio di diritto, cui occorre far riferimento per decidere la causa, è ormai consolidato in giurisprudenza (di recente, Cass. 23 luglio 2010 n. 17322). Il condomino può usucapire l’altrui quota indivisa del bene comune senza necessità della interversione del possesso, ma attraverso l’estensione del possesso medesimo in termini di esclusività. Il mutamento del titolo, ai sensi dell’art. 1102 comma 2 c.c., deve concretarsi in atti integranti un comportamento durevole, tale da manifestare un possesso esclusivo con animo domini, incompatibile con il permanere del compossesso altrui sulla stessa cosa.
In definitiva, a fondamento della dedotta usucapione devono porsi degli atti, univocamente rivolti contro i compossessori, tali da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, ma come possessore esclusivo.
Ciò posto, la prova del possesso ad usucapionem – vale a dire dei suoi elementi costitutivi, configurati dal potere generico sulla cosa e dalla esteriorizzazione di tale potere in attività corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà, protratti per un congruo periodo di tempo – riguarda una situazione di fatto e, perciò, costituisce un giudizio rimesso al giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se motivato in modo logicamente corretto e sufficiente.
La sentenza impugnata si sottrae alle censure, essendo motivata in modo logicamente corretto e sufficiente. Secondo la Corte d’appello risulta il godimento esclusivo dalle dichiarazioni rese da tutti i testi escussi, con conseguente esternazione di una chiara ed univoca volontà di escludere dall’area i condomini.
Con il sesto ed ultimo motivo è denunciata la illegittimità e l’erronea motivazione quanto all’appello incidentale proposto dai coniugi D.G. – G. nei confronti dello IACP per avere la corte distrettuale ritenuto non notificato all’ente l’atto di appello incidentale, mentre l’adempimento è stato espletato e perfezionato – presso il procuratore costituito in primo grado – il 3.12.2004.
La censura va riferita al fatto che la Corte non si sarebbe accorta che l’appello incidentale proposto dagli odierni ricorrenti sarebbe stato regolarmente notificato anche allo IACP, quindi avrebbe avuto un’errata percezione visiva del documento.
Così inquadrato il motivo, si tratterebbe di errore revocatorio, non deducibile come motivo di impugnazione in cassazione, nemmeno sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr., tra le tante, Cass. n. 19921 del 2012 e Cass. n. 9637 del 2013), posto che questo consiste nell’affermazione o supposizione dell’esistenza o inesistenza di un fatto la cui verità risulti, invece, in modo indiscutibile, esclusa o accertata.
Per le ragioni esposte il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come nel dispositivo, vanno poste a carico della parte ricorrente, risultata soccombente.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge.
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