Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 9 luglio 2015, n. 14311
Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata in data 22/7/2011 la Corte d’appello di Venezia ha confermato la sentenza resa dal Tribunale di Venezia che aveva rigettato la domanda proposta da M.Z., avente ad oggetto ad ottenere la declaratoria dell’illegittimità (con le consequenziali pronunce reintegratorie e risarcitone) del licenziamento disciplinare intimato al ricorrente, con lettera del 21/3/2007, dalla T.V. S.r.l. unipersonale, della quale era dipendente con le mansioni di autista addetto al trasporto di disabili.
2. La Corte territoriale, condividendo il giudizio del Tribunale, ha ritenuto che la contestazione dell’addebito fosse sufficientemente specifica, contenendo sia un preciso riferimento temporale, sia la descrizione della condotta disciplinarmente rilevante addebitata al lavoratore, e consistita nell’aver mostrato ad un utente minorenne e disabile un video dal contenuto pornografico della durata di alcuni secondi; ha ritenuto che il licenziamento fosse stato intimato per gli stessi fatti per cui vi era stata la contestazione; che essi erano di gravità tale da ledere in modo irreparabile il vincolo fiduciario esistente tra le parti, in ragione dello stato di minorazione del disabile cui era stato mostrato il video e del carattere non privato dell’accaduto.
3. Contro la sentenza, lo Z. propone ricorso per cassazione fondato su due motivi, cui resiste la società con controricorso. Le parti depositano memorie ex art. 378 c.p.c.
4. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza per falsa applicazione dell’art. 7, comma 2°,1. 20 maggio 1970, n. 300, e assume che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la contestazione dell’addebito era generica e violava il suo diritto di difesa.
5. Il motivo è infondato. L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (vedi, per tutte, Cass. 30 marzo 2006, n. 7546; Cass., 15 maggio 2014, n. 10662).
6. Nel caso in esame, la Corte veneziana ha ritenuto specifica ed analitica la lettera di contestazione inviata al lavoratore, essendo in essa precisati la condotta ascritta nei suoi elementi qualificanti, costituiti dal fatto materiale (“ha utilizzato il video cellulare di sua proprietà per far visionare agli utenti minori presenti in quel momento sul mezzo di trasporto video e/o foto pornografici”), dal tempo (“nel corso delle settimane comprese tra il 5/2/2007 ed il 16/2/2007”) e dalle circostanze di luogo della sua commissione (“nello svolgimento della sua attività di autista”). La specificità non può dirsi insussistente per il sol fatto che manchi la precisa indicazione del giorno in cui il fatto era avvenuto e il nome del minorenne cui il video era stato mostrato: il riferimento ad un determinato e ristretto arco temporale, al luogo, agli elementi materiali ed alle modalità di estrinsecazione della condotta, alle qualità del soggetto destinatario della stessa, costituiscono sufficienti elementi perché il lavoratore sia stato posto in grado di conoscere le ragioni della contestazione e di potersi adeguatamente difendere.
7. Va invero ricordato che, in tema di sanzioni disciplinari a carico dei lavoratori subordinati, la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati (Cass., 5 gennaio 2015, n. 13; Cass., 15 maggio 2014, n. 10662; Cass., 3 marzo 2010, n. 5115; Cass., 30 dicembre 2009, n. 27842; Cass., 10 giugno 2004, n. 11045; sull’irrilevanza dell’indicazione del giorno e dell’ora, v. Cass., 7 agosto 2003, n. 11933). A tali principi il giudice del merito si è pienamente conformato, sicché non sussiste la denunciata violazione di legge né alcuna incongruità o illogicità della motivazione.
8. Con il secondo motivo lo Z. censura la sentenza per falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., nonché per motivazione insufficiente, circa la sussistenza della giusta causa e la proporzionalità tra il fatto commesso e la sanzione adottata, in considerazione dei seguenti elementi non adeguatamente valutati: a) il mutamento dei costumi e della morale sociale che, nel rendere la collettività più tollerante verso informazioni anche di contenuto volgare trasmesse via internet, incide sul giudizio di gravità del fatto; b) la scarsa intensità dell’elemento intenzionale, considerato che il minore appariva “normale e d’età ben superiore a quella posseduta” c) la sua affidabilità nello svolgimento delle mansioni, attestata dalla mancanza di precedenti rilievi disciplinari; d) la possibilità di adibire esso ricorrente ad una mansione diversa, non a contatto con i disabili.
9. Il motivo è infondato.
10. In primo luogo, deve rilevarsi che la censura proposta – nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nell’intestazione – si risolve nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata, e non già sotto il profilo della sua incongruità o incoerenza o per l’errata ricostruzione del materiale probatorio, bensì per la complessiva valutazione dei fatti, incontestata la loro oggettività. In particolare, il ricorrente addebita ai giudici del merito di aver attribuito una valenza negativa alla sua condotta, nonostante il mutamento dei costumi e le condizioni dei minore, ritenuto “persona debole” solo dall’opinione meramente soggettiva dei giudicante. Si è dunque fuori, oltre che dal vizio di violazione di legge, anche dal vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., il quale sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di fatti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, rientrando la valutazione degli elementi di prova e l’apprezzamento dei fatti nelle prerogative tipiche del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112; Cass., 6 marzo 2008, n. 6064).
11. Tali principi valgono anche, in tema di licenziamento disciplinare, con riguardo al giudizio sulla gravità della condotta e sulla proporzionalità della sanzione inflitta. In proposito, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci, affermando che, per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare (v. Cass., 2 marzo 2011, n. 5095 e, da ultimo, Cass. 26 aprile 2012, n. 6498).
12. Anche il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso è istituzionalmente rimesso al giudice di merito e si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto ex art. 2119 c.c. (Cass., 10 dicembre 2007, n. 25743).
13. Si è peraltro affermato (a partire da Cass., 22 ottobre 1998, n. 10514, e, a seguire, fra le altre, Cass. 29 aprile 2004, n. 8254; Cass. 6498/2012 cit. e Cass.,12 dicembre 2012, n. 22798) che la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Quindi ulteriormente precisato (Cass. 4 maggio 2005, n. 9266) che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma ed. elastica) compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale.
14. Nella specie, la sentenza impugnata è del tutto rispettosa dei principi di diritto su enunciati: la Corte territoriale ha invero compiutamente illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto gravemente lesiva del vincolo fiduciario esistente tra lavoratore e datore di lavoro la condotta tenuta dall’odierno ricorrente, in considerazione dell’indubbio contenuto osceno del video, come descritto dal teste M.A., dello stato di minorazione, in ragione dell’età e della disabilità, del ragazzo cui era stato mostrato e delle reazioni che gli aveva procurato, al punto che il ragazzo era ritornato sull’episodio nei giorni seguenti, riferendolo ad altri operatori ed ai suoi genitori, che avevano quindi chiesto spiegazioni al comune committente del servizio di trasposto affidato in appalto alla T.V. s.r.l.
15. Quanto al giudizio sul contenuto osceno del video, se è vero che la Corte non si è attardata in analisi sociologiche sul mutamento dei costumi prodotto dall’uso di internet e dal dilagare della pornografia, è altrettanto vero che la valutazione sull’oscenità – e quindi sulla gravità della condotta – è stata strettamente correlata alle condizioni soggettive della persona a cui il video è stato esibito, e costituite non solo dalla minore età ma anche dai deficit psichici da cui il ragazzo era affetto, certamente noti al lavoratore, proprio in ragione delle mansioni affidategli e della natura del servizio commissionato alla società datrice di lavoro dal Comune di Venezia. Questa stretta correlazione rende la condotta tenuta dal lavoratore certamente riprovevole secondo il costume e la coscienza sociali, sicché correttamente la Corte l’ha valutata grave ed idonea a ledere il vincolo fiduciario, non essendo peraltro decisiva al riguardo l’assenza di precedenti disciplinari.
16. Quanto all’ulteriore profilo della possibilità di essere adibito ad altra mansione, la questione oltre ad apparire irrilevante ai fini di causa, non è stata oggetto di alcuna valutazione da parte della corte territoriale, sicché la stessa è nuova e come tale inammissibile.
17. Il ricorso deve essere dunque rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate € 100,00 per esborsi e € 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali e accessori di legge.
Leave a Reply