Suprema Corte di Cassazione
S.U.P.
sentenza 29 luglio 2015, n. 33583
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Palermo confermava l’affermazione di responsabilità penale a carico di L.P.T. , M.G.B. e F.F. pronunciata, all’esito di giudizio abbreviato, con sentenza in data 18 luglio 2012, dal Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Palermo, in relazione a diversi episodi di estorsione, consumati avvalendosi della forza di intimidazione di “cosa nostra”, e segnatamente della famiglia mafiosa di Palermo-centro, ai danni di S.F. classe (…), amministratore unico della Sanfratello Costruzioni s.r.l.. Si era contestato a L.P. e M. di aver concorso, insieme a L.I.D. , separatamente giudicato con rito ordinario (nonché con L.P.G. e C.F. , deceduti), in una estorsione continuata, pluriaggravata commessa dal 2000 al dicembre 2008 in danno di S.F. cl. (…), costringendolo a versare in più rate la somma di 45 milioni di lire e poi di ulteriori 45.000 Euro per i diversi cantieri che la Sanfratello Costruzioni s.r.l. aveva attivi nel centro storico di (…); agendo L.P. come esecutore delle pretese estorsive e M. come esattore. Si era poi contestato a F.F. la tentata estorsione aggravata in danno dei soci della impresa Sanfratello Costruzioni s.r.l. commessa in epoca prossima al 2009, per aver invitato i medesimi “a mantenere gli impegni assunti” cioè a consegnare le somme pattuite in virtù della estorsione di cui sopra, presentandosi come persona autorizzata a riscuotere il denaro quando il L.P. era in carcere.
Il procedimento aveva tratto l’avvio dalle dichiarazioni accusatorie rese da S.F. cl. (…), che il 13 aprile 2010 si era recato spontaneamente alla polizia per denunciare di aver subito, fin dall’inizio della sua attività imprenditoriale (2000), imposizioni mafiose volte ad ottenere il “pizzo” indicando come responsabili di tali intimidazioni, oltre ad altri soggetti deceduti, appunto i predetti L.I.D. , L.P.T. (c.d. “(omissis) “), M.G.B. e F.F. .
S.F. cl. (…) rendeva dichiarazioni accusatorie alla polizia in data 13 e 15 aprile 2010, tra l’altro negando che tale G.A. avesse avuto un qualche ruolo nella vicenda estorsiva. Sentito come teste nel parallelo procedimento a carico del L.I. (celebrato con rito ordinario) ribadiva le accuse formulate e solo in occasione della terza audizione, interrogato quale parte civile dal proprio difensore, ammetteva il ruolo avuto dal G. nella vicenda.
Sulla base delle dichiarazioni accusatorie rese durante le indagini preliminari dalla persona offesa, riscontrate da quelle degli altri soci, Sa.Fr. cl. (…) e N.P. , dal contenuto di due “pizzini” rinvenuti nel covo dei Lo.Pi. e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Sp.Ma. e Nu.An. , il G.u.p. affermava la responsabilità degli imputati.
Previa rinnovazione dibattimentale volta ad acquisire i verbali di tutte le deposizioni testimoniali assunte nel parallelo procedimento a carico di L.I.D. , prodotti dalla difesa degli imputati, la Corte di appello confermava il giudizio di responsabilità, la sussistenza dell’aggravante ex art. 7 d.l. 152 del 1991 e la negazione delle attenuanti generiche. Quanto alla determinazione della pena, condannava L.P. , ritenuta la continuazione dei fatti per cui si procede con fatti pregressi indicati nell’ordinanza dell’8 aprile 2013, alla pena complessiva di anni 11 di reclusione ed Euro 4600 di multa. In relazione al M. , ritenuto sussistente il vincolo della continuazione con il fatto di cui alla sentenza della Corte di appello di Palermo del 18 novembre 1999, ridotta la pena inflitta dal primo giudice ed applicato l’aumento per la continuazione con la condanna inflitta con la sentenza citata, rideterminava la pena complessiva in anni sette di reclusione ed Euro 2500 di multa. Per quanto riguarda F. , ritenuto sussistente il vincolo della continuazione con i reati di cui alla sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo in data 5 dicembre 2011, aumentava la pena inflitta con tale condanna di un anno di reclusione e rideterminava la pena complessiva in anni nove, mesi otto di reclusione. Condannava gli imputati in solido al risarcimento del danno in favore delle parti civili quantificato in Euro 37.000 ciascuno in favore di S.F. classe (…) e s.f. classe (…) e in Euro 20.000 in favore di N.P. , nonché alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili.
La Corte riteneva utilizzabili sia le dichiarazioni rese dal S. in sede di denuncia, alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui le dichiarazioni indizianti indicate dall’art. 63, comma 1, cod. proc. pen. sono quelle rese da soggetto sentito come teste o come persona informata sui fatti, che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, e non quelle attraverso cui egli – come avvenuto nella specie – realizzi il fatto tipico di una determinata fattispecie di reato, quali il favoreggiamento personale, la falsa testimonianza o la calunnia; sia le dichiarazioni dibattimentali rese nel processo a carico del coimputato L.I. , al riguardo osservando che, in effetti, l’aver reso una dichiarazione idonea a configurare il delitto di favoreggiamento aveva comportato, in capo al S. “l’assunzione oggettiva” della qualità di soggetto indagato o indagabile, “secondo l’approccio in termini sostanziali” al problema indicato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246584: e ciò a prescindere dal fatto che tale circostanza fosse nota al Tribunale procedente e sussistendo tra l’estorsione ed il favoreggiamento un duplice collegamento probatorio ai sensi dell’art. 371, comma 2, lett. b), cod proc. pen.. Nonostante tale collegamento fosse esistente già al momento della deposizione dibattimentale, per la Corte territoriale risultava tuttavia decisivo il fatto che il S. aveva già reso dichiarazioni in precedenza: ciò escludeva la possibilità di applicare “le disposizioni di cui all’art. 210 cod. proc. pen. (che prevedono il diritto al silenzio, cioè l’avviso della facoltà di non rispondere), per l’espressa deroga ad esse prevista dal comma 6 del medesimo art. 210 cod. proc. pen., proprio nel caso in cui l’imputato di reato collegato abbia già reso in precedenza dichiarazioni contro l’imputato”. Pertanto la persona offesa doveva essere sentita come testimone assistito ai sensi dell’art. 197-bis cod. proc. pen., con le garanzie ivi contemplate “tutte rivolte a tutelare la sua posizione, fra le quali, però, non è previsto il diritto al silenzio. Ma della violazione delle regole che sovraintendono, ex art. 210 o 197-bis cod. proc. pen., all’audizione del testimone assistito o dell’imputato di reato connesso o collegato (prima fra tutte l’assistenza del difensore), si ritiene che possa dolersi il solo S. e non gli odierni imputati, che non hanno alcun interesse all’osservanza della disposizione violata, poiché essa tende a tutelare l’imputato o l’indagato nel procedimento connesso o collegato dal rischio inconsapevole di auto incriminarsi con le sue dichiarazioni rese sotto”. In tale prospettiva, le dichiarazioni del S. rese nel dibattimento a carico del coimputato L.I. dovevano ritenersi utilizzabili, sia pure con il regime valutativo previsto dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., espressamente richiamato per i testi assistiti dall’art. 197-bis, comma 6, dello stesso codice.
2. Hanno presentato ricorso per cassazione i difensori di tutti gli imputati.
2.1. Nell’interesse di L.P.T. l’avv. Antonio Turrisi, deduce:
2.1.1. Violazione di legge in relazione alla illegittima applicazione degli articoli 63, commi 1 e 2, 64, 197, 197-bis, 210 cod. proc. pen.. Ci si duole del mancato inquadramento de S.F. classe (…) come indagato in procedimento connesso. Tale qualifica, nella prospettazione difensiva, avrebbe dovuto essere riconosciuta al dichiarante sin dalle indagini preliminari, atteso che fin dalla denuncia del 13 aprile 2010 e dalle informazioni rese alla polizia giudiziaria il 15 aprile 2010 l’offeso aveva reiteratamente omesso di riferire che G.A. aveva mediato tra lui ed i vertici della famiglia mafiosa di Porta Nuova per il pagamento del “pizzo” in relazione all’attività dei cantieri edili della Sanfratello Costruzioni s.r.l.. Si rimarca che all’atto della denuncia alla polizia giudiziaria gli inquirenti avevano a disposizione tutti gli elementi per indagare il S. classe (…): in atti vi erano le dichiarazioni dei collaboratori Nu. e Sp. che dettagliavano i profili dell’estorsione per cui si procede e la partecipazione ad essa del G. , invece sempre negata dal S. . Il coinvolgimento del G. risultava inoltre dai “pizzini” ZD3 e G9 rinvenuti nel covo dei Lo Piccolo al momento del loro arresto avvenuto il 5 novembre 2007. Si richiama la giurisprudenza secondo cui l’accertamento della qualità del dichiarante è rimessa alla valutazione del giudice che a tale verifica deve procedere in termini sostanziali.
Quanto alle dichiarazioni rese dal medesimo S. in dibattimento, era un dato pacifico che costui, prima di tale escussione, pur in assenza di formale iscrizione nel registro degli indagati, doveva considerarsi soggetto indiziato di aver reso false dichiarazioni al pubblico ministero e di favoreggiamento aggravato ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991 per aver negato che il G. aveva partecipato alla denunciata estorsione. La sua posizione andava pertanto valutata ex art. 63, comma 2, cod. proc. pen. ed egli avrebbe dovuto essere esaminato con le forme dell’art. 210 nella qualità di imputato di reato connesso; non invece, come erroneamente sostenuto dalla Corte di appello, come teste assistito. In ogni caso mai S. , né prima degli interrogatori da parte della polizia giudiziaria né prima delle escussioni dibattimentali, aveva ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 64.
A sostegno della correttezza dell’inquadramento, il difensore evidenzia che il Tribunale di Palermo aveva assolto, all’esito del dibattimento, L.I.D. , accusato del medesimo reato contestato all’attuale ricorrente, avendo ritenuto che S. classe (…) doveva essere sentito fin dall’inizio come teste assistito, ed aveva ordinato la trasmissione di copia degli atti all’ufficio del Pubblico Ministero per procedere nei confronti del medesimo in relazione al reato di favoreggiamento personale aggravato dall’art. 7 d.l. 152 del 1991.
2.1.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli articoli 63, 197-bis, 210, 192, comma 3, cod. proc. pen sotto il profilo del giudizio di attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del medesimo S. . Si contesta, segnatamente, la violazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. e a sostegno della censura si evidenzia: a) l’assenza di spontaneità delle dichiarazioni accusatorie del S. : la denuncia iniziale non poteva ritenersi spontanea in quanto egli si era presentato alla p.g. dopo che i quotidiani locali avevano diffuso il contenuto dei c.d. “pizzini” sequestrati nel covo dei Lo Piccolo; la estorsione per cui si procede aveva avuto termine nel dicembre del 2008, ovvero un anno e quattro mesi prima della presentazione della denuncia che avveniva solo nell’aprile 2010, denuncia che evidentemente non poteva avere la finalità di porre fine all’estorsione, come contraddittoriamente affermato dai giudici di secondo grado; b) la reticenza sull’intervento del G. nell’estorsione, intervento che S. aveva negato tanto nel corso delle indagini preliminari, quanto nel corso del dibattimento celebrato nei confronti dell’imputato L.I. per ammetterlo solo nel corso della terza escussione dibattimentale e dopo aver ascoltato le deposizioni rese in tale procedimento dai collaboranti Nu. e Sp. che avevano riferito del coinvolgimento di G. nell’estorsione in danno della Sanfratello Costruzioni; si rimarcava che l’esame dibattimentale del S. reso nel corso dell’udienza del 24 settembre 2012 nel processo a carico del L.I. era stato interrotto perché lo stesso era indagabile per falsa testimonianza e, inoltre, aveva narrato di un suo coinvolgimento nella estorsione in danno di altro commerciante, tale I. ; c) la carente valutazione del fatto, allegato dalla difesa, che L.P. e S. , si conoscevano perché avevano avviato una trattativa per la compravendita di una villa di S. a (…), circostanza che giustificava il riconoscimento fotografico effettuato dal S. nei confronti del L.P. . Tale trattativa era avvenuta negli anni 2002-2003, cioè quando l’attività estorsiva sarebbe già stata in atto e già vi era intervenuto il L.P. , con la singolarità ed inverosimiglianza di credere, ove fosse vera la ricostruzione degli inquirenti, che potesse aver aderito a tale trattativa un soggetto nei cui confronti era già in atto attività estorsiva da parte dell’altro contraente; d) l’impossibilità che S. avesse pagato le rate del “pizzo” presso il bar (…) dato che l’esercizio in questione dal giugno del 2004 era stato posto sotto sequestro.
2.2. Il profilo della attendibilità intrinseca viene ribadito anche dal co-difensore del L.P. , avv. Raffaele Bonsignore, che sottolinea la necessità di una rigorosa e penetrante verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, specie ove, come nella specie, costituitasi parte civile e la necessità di opportuni riscontri; evidenzia, oltre ai profili già richiamati, la pesante interferenza sulla valutazione di attendibilità del S. , della reticenza dal medesimo serbata sul coinvolgimento del G. nell’estorsione per cui si procede: dopo aver sempre negato il coinvolgimento del G. , il S. , nell’udienza del 24 settembre 2012, aveva chiesto di essere nuovamente sentito nel parallelo procedimento e aveva ammesso che nella primavera del 2006 o 2007, avendo ricevuto degli avvertimenti nel cantiere della (…), si era ricolto al G. , il quale dopo qualche giorno lo aveva fatto incontrare al bar (omissis) con L.P.T. (il lungo) che gli aveva risolto tali problemi; si trattava di un elemento di tale rilevanza che non poteva essere giustificato nei termini di una valutazione frazionata delle sue dichiarazioni, come sostenuto dalla Corte territoriale. Inoltre si evidenzia che con i motivi di appello si era contestata la coerenza e costanza del racconto del S. circa le modalità dell’estorsione, sostenendosi che dalla lettura del “pizzino” catalogato ZD3 si evinceva non già che L.P.S. aveva impartito l’ordine di far pagare il pizzo al S. o di operare una riduzione a titolo di sconto, ma aveva ordinato a L.P.T. , “il lungo”, di farlo lavorare indisturbato. Questa circostanza non era stata valorizzata dai giudici territoriali che invece sostenevano che l’intermediazione del G. era finalizzata ad ottenere uno sconto sulle estorsione. Ci si doleva altresì dell’attendibilità dello Sp. che avrebbe reso dichiarazioni de relato non riscontrate da altri elementi. All’udienza del 18 giugno 2012, nel corso del dibattimento a carico del L.I. , lo Sp. aveva infatti dichiarato di avere fissato un appuntamento tra il L.P. da un lato e il G. e l’A. dall’altro, ma di non avere partecipato agli stessi, sicché gli esiti dell’incontro gli erano stati riferiti dal G. .
2.2.1. Si censura la omessa valutazione della sentenza emessa dal Tribunale di Palermo in data 15 ottobre 2012 con la quale L.I.D. , coimputato dello stesso reato come colui che nel 2000 ebbe a mettere in contatto S. con L.P.T. , è stato assolto dalla stessa imputazione qui contestata al L.P. proprio per la assoluta inattendibilità del S. .
2.2.2. Si lamenta la violazione dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. anche in riferimento alle dichiarazioni delle altre parti civili Sa.Fr. classe (…) e N.P. , portatori al pari di S. classe (…) di rilevanti interessi economici, parenti e soci del predetto, che avevano reso dichiarazioni in epoca successiva la denuncia di quest’ultimo e in larga parte de relato.
2.3. Gli avv.ti Tommaso De Lisi e Angelo Barone, nell’interesse di F. , deducono:
2.3.1. Violazione di legge in ordine all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da S. classe (…).
a) Si ribadiscono i motivi già proposti dalla difesa L.P. circa l’illegittimo inquadramento del S. come dichiarante semplice. Nella prospettazione difensiva le prime dichiarazioni del S. , quelle rese nelle indagini, erano inutilizzabili per violazione dell’art. 63, comma 2, cod. proc. pen in quanto il dichiarante era indiziato o indiziabile del reato di favoreggiamento aggravato in favore del G. . Lo stesso S. , presentandosi negli uffici di polizia, aveva ammesso la volontà di “chiarire” la sua posizione, con ciò mettendo in essere una excusatio non petita che rendeva chiaro come lo stesso – dopo che nel 2009 la stampa locale aveva pubblicato alcuni “pizzini” sequestrati a L.P.S. il 5 novembre 2007, attestanti che l’impresa edile Sanfratello era stata sottoposta ad estorsione anni prima e che in tale circostanza, nota anche ai pentiti, la trattativa si era conclusa con la mediazione di personaggi mafiosi intervenuti a favore dell’estorto – avesse percepito l’esigenza di disinnescare eventuali sospetti di connivenza; peraltro era del tutto contraddittorio ritenere che egli volesse far cessare le richieste estorsive dal momento che l’attività dell’impresa di costruzioni era cessata dal 2008, sicché nel 2010 non vi erano richieste estorsive da far cessare.
b) Con specifico riguardo alla attendibilità, si evidenzia come il criterio della scindibilità e valutazione frazionata, nato per la chiamata in correità, non poteva applicarsi in generale alla testimonianza semplice (quale era stata considerata quella resa in fase di indagine dal S. classe (…)) ed, in particolare, a quella di chi (come S. ) rivestiva la qualità di danneggiato, in quanto tale portatore di rilevanti interessi processuali ed extraprocessuali che impongono un rigorosissimo vaglio della attendibilità. Sempre con riferimento alla attendibilità, si rileva che il S. classe (…) non aveva effettuato dichiarazioni spontanee, ma era stato sottoposto ad un pressante interrogatorio mirante a far emergere le sue responsabilità.
c) Si evidenzia l’illogicità della motivazione nella parte in cui, da un lato, si valutava il S. credibile sotto il profilo intrinseco e, dall’altro, si ammetteva che lo stesso potesse avere negato il vero nel corso del parallelo dibattimento a carico del L.I. , sottolineandosi che in esso S. aveva ritrattato la dichiarazione falsa con ciò ammettendo di aver mentito.
2.3.2. Mancanza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
a) Si rileva come i due S. non potessero essere considerati fonti di prova autonoma in relazione alla condotta contestata al F. . Il Sa. classe (…) era infatti teste diretto, mentre il S. classe (…) era un teste de relato sicché le loro dichiarazioni non potevano essere reciprocamente confermative costituendo una “unica entità”.
b) Si contesta come l’accusa nei confronti del F. fosse espressa in motivazione con modalità congetturali in quanto non era mai stato spiegato dai testimoni in che modo lo stesso avesse posto in essere concretamente la condotta contestata. Il Sa. classe (…), richiamato dal S. classe (…), sosteneva infatti solo di avere “compreso” che il F. fosse persona che aveva contatti con “cosa nostra”, senza indicazioni di fatti determinati cui ancorare tale connessione.
2.3.3. Violazione di legge in relazione all’aggravante di cui all’articolo 628, terzo comma, n. 3, cod. pen..
Si evidenzia come nel capo di imputazione contestato al F. si facesse riferimento, al singolare, alla “aggravante” e non alle “aggravanti”, sicché era da ritenere che l’aggravante della minaccia posta in essere da parte dell’associazione mafiosa non fosse stata mai contestata al l’imputato. Si instava, conseguentemente, per l’annullamento senza rinvio della decisione impugnata, previa eliminazione dell’aumento di pena applicato per l’aggravante in parola.
2.3.4. Manifesta illogicità della motivazione in relazione all’omessa valutazione della prova documentale acquisita a discolpa.
Si contesta l’emarginazione valutativa di dati probatori rilevanti: la documentazione prodotta aveva evidenziato come i rapporti tra l’impresa S. e quella del F. erano regolarmente proseguiti fino all’estate del 2009: il che dimostrerebbe la inverosimiglianze di quanto affermato dalle parti offese circa l’asserita presa di distanza dal F. in coincidenza con il fatto di estorsione contestato.
2.3.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto.
Si evidenzia come F. non avesse mai preso parte alla estorsione di cui al capo a) e che era ipotizzabile nei suoi confronti, al più, il reato di favoreggiamento reale: il F. avrebbe posto in essere una condotta finalizzata esclusivamente a consentire agli autori della estorsione già consumata di conseguire in concreto il profitto.
2.3.6. Violazione della legge penale e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta esclusione della desistenza volontaria.
Si evidenzia come la condotta criminosa attribuita al ricorrente si sarebbe esaurita nel primo atto: nella prospettazione difensiva, non appena constatata la volontà della vittima di non mantenere gli impegni il F. avrebbe desistito; non era stato l’arresto del F. nel maggio 2009 ad impedire l’ulteriore sviluppo della condotta criminosa, ma un atto volontario; dagli atti emergeva che l’incontro tra il F. e la vittima risaliva a gennaio 2009: in considerazione del fatto che l’arresto interveniva solo a maggio dello stesso anno si rimarca come la dilatazione dei tempi sia compatibile con la ipotizzata scelta di desistenza.
2.4. L’avv. Raffaele Bonsignore, difensore del M. , contesta la valutazione dell’attendibilità intrinseca del S. classe (…) in coerenza alle doglianze espresse nei confronti della posizione del coimputato L.P. .
2.4.1. Con specifico riferimento alla posizione del M. si evidenzia che il S. aveva reso tre versioni differenti in quanto: a) in sede di denuncia aveva affermato di avere personalmente consegnato al M. in un paio di occasioni denaro in una busta presso il suo ufficio; b) nella deposizione del 15 aprile 2010 aveva affermato che più preciso avrebbe potuto essere Sa.Fr. classe (…); c) il 28 maggio 2012, nel dibattimento a carico di L.I. , aveva affermato di avere visto forse M. al bar insieme a L.P. e che, in un’occasione, avrebbe visto attraverso le telecamere del suo ufficio che un cugino avrebbe consegnato una busta al ricorrente.
2.4.2. Si contesta l’efficacia dimostrativa delle dichiarazioni di S.F. classe (…), che aveva reso dichiarazioni generiche e de relato, avendo riferito di aver appreso dai cugini che durante la detenzione di L.P.T. classe (…), “(omissis) “, un cugino di costui, che non aveva mai visto, avrebbe riscosso le rate del pizzo.
2.4.3. Con riguardo alle dichiarazioni rese da N.P. , si evidenzia che lo stesso aveva reso due versioni differenti: a) nella prima aveva riconosciuto fotograficamente in termini di probabilità il ricorrente; b) mentre nel dibattimento a carico di L.I. non aveva riconosciuto il M. .
2.4.4. Sempre con riguardo alle dichiarazioni di S.F. classe (…), si evidenzia la carenza di riscontri, non essendo idonei allo scopo le dichiarazioni del Nu. , le dichiarazioni del Sa. classe (…), ed il riconoscimento fotografico operato dal dichiarante. Nessuna delle dichiarazioni invocate a riscontro si presentava individualizzante: non quelle dei Nuccio in quanto generiche, non quelle del Sa. classe (…) in quanto de relato; non varrebbe allo scopo neanche il riconoscimento fotografico effettuato dal S. classe (…), dato che lo stesso aveva dichiarato di conoscere il L.P. a prescindere dall’episodio in contestazione.
3. La Seconda Sezione penale, cui era stata assegnato il procedimento, con ordinanza in data 2 dicembre 2014, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 cod. proc. pen., per la constatata esistenza di un contrasto giurisprudenziale sull’utilizzo delle dichiarazioni irritualmente assunte da chi riveste la qualifica di testimone assistito: qualifica che, si osservava, in linea con gli insegnamenti della sentenza Mills delle Sezioni Unite, spetta al giudice verificare in termini sostanziali, al di là quindi del riscontro di indici formali quali l’iscrizione nel registro delle notizie di reato, in relazione al momento in cui le dichiarazioni stesse vengono rese.
La concreta incidenza del problema sulla fattispecie in esame è stata limitata alle dichiarazioni rese in dibattimento dal S. classe (…), dal momento che, per quelle assunte in sede di indagini, è stato pienamente condiviso l’assunto della sentenza impugnata, fondato su un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la disciplina sulle dichiarazioni indizianti non trova applicazione laddove siano proprio queste ultime a concretare un fatto criminoso.
La questione dell’utilizzabilità della deposizione dibattimentale del S. nel processo a carico del L.I. , avvenuta senza l’assistenza del difensore e senza alcun previo avviso circa la possibilità di avvalersi del diritto al silenzio, è stata invece ritenuta “preliminare ed assorbente” rispetto agli altri motivi, dato che tali dichiarazioni hanno arricchito il quadro a suo tempo valutato in primo grado dal G.u.p., e che la natura contratta del giudizio abbreviato impone, per le necessarie verifiche di attendibilità, una valutazione contestuale di tutte le dichiarazioni rese dalla persona offesa e principale teste di accusa.
La Seconda Sezione ha osservato che lo statuto del dichiarante “coinvolto nel fatto” non si presenta unitario, potendosi distinguere una ipotesi di connessione c.d. “forte” (art. 12, comma 1, lett. a, cod. proc. pen.) e casi, tra cui rientra quello in esame, di connessione c.d. “debole” (artt. 12, comma 1, lett. e, e 371, comma 2, lett. b, cod. proc. pen.), casi questi ultimi caratterizzati da un collegamento meno intenso tra il fatto di cui il dichiarante è (o può essere) accusato e il fatto giudicando, con conseguente attenuazione delle garanzie riservate all’indagato-imputato di reato connesso; in questo caso infatti il diritto al silenzio non è assoluto, ma patisce una compressione ogni volta che, come stabilisce l’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., il dichiarante abbia reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato ed altresì, sempre sulla base della stessa norma, per scelta del dichiarante, ogni volta che questi scelga di rispondere in seguito all’avvertimento di cui all’art. 64, comma 1, lett. c), cod. proc. pen.. In ogni caso, i dichiaranti indagati per fatti collegati assumono lo statuto processuale del testimone assistito indicato dall’art. 197-bis cod. proc. pen..
Ad avviso della Sezione rimettente, nonostante il comma 2 dell’art. 197-bis cod. proc. pen. faccia riferimento ai soli soggetti che scelgano di rilasciare dichiarazioni in seguito all’avviso, potrebbe “ritenersi che il regime indicato si estenda anche ai dichiaranti che hanno perso il diritto al silenzio poiché hanno dichiarato in precedenza, secondo quanto prevede l’art. 210, comma 6, primo periodo, cod. proc. pen. (come nel caso che ci occupa, relativo alle dichiarazioni del S. classe (…))”: un regime che prevede l’assistenza del difensore e – attraverso l’inutilizzabilità relativa prevista dall’art. 197-bis, comma 5, cod. proc. pen. – il divieto di utilizzo contra se delle dichiarazioni, comunque soggette alla regola di valutazione di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen..
Tanto premesso, l’ordinanza di rimessione ha evidenziato che, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, si registrano tre diversi orientamenti, tutti sostenuti da una serie di pronunce depositate anche in epoca recente, quanto alla possibilità di utilizzo delle dichiarazioni rese dal soggetto indagato (o indagabile) per reato connesso o collegato non assistito dal difensore di fiducia, o non previamente avvisato ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen..
Il primo indirizzo ritiene senz’altro inutilizzabili le dichiarazioni in questione, interpretando il rinvio all’art. 64 cod. proc. pen., contenuto nell’art. 197-bis dello stesso codice, come comprensivo della sanzione di inutilizzabilità prevista dal comma 3-bis del predetto art. 64. Il secondo orientamento esclude la sussistenza di invalidità delle dichiarazioni, pur se assunte in modo irregolare, per la mancanza dell’avviso ex art. 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen., valorizzando il fatto che mentre l’art. 64 si riferisce al solo interrogatorio, ovvero ad un atto destinato per natura a svolgersi fuori dal contraddittorio, con una conseguente più rigorosa tutela dei diritti dei terzi eventualmente coinvolti nelle dichiarazioni rese dall’interrogato, gli artt. 197-bis e 210 si riferiscono ad esami destinati a svolgersi nel contraddittorio delle parti. In tale ottica, si è precisato che, anche a voler ritenere che il rinvio all’art. 64, contenuto nell’art. 197-bis, comporti l’obbligo dell’avviso, l’eventuale omissione non potrebbe comunque determinare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni, non essendo stata richiamata anche la sanzione prevista dal comma 3-bis dell’art. 64. Secondo il terzo indirizzo interpretativo, la conseguenza della mancata applicazione dell’art. 210 cod. proc. pen. non è l’inutilizzabilità delle dichiarazioni testimoniali rese, ma la nullità a regime intermedio della deposizione, dal momento che la legge non vieta l’esame dell’imputato connesso o collegato, bensì prescrive che esso avvenga secondo determinate formalità: nullità peraltro deducibile non dall’imputato del processo principale, ma solo dal dichiarante che vede violato il suo diritto alla difesa. Anche tale prospettiva, volta soprattutto a tutelare il dichiarante dalle dichiarazioni rese contra se, sottolinea il mancato richiamo della sanzione di inutilizzabilità di cui all’art. 64, comma 3-bis, cod. proc. pen..
La Seconda Sezione ha ricordato che la sentenza impugnata aveva conferito al S. la qualifica “sostanziale” di teste assistito ai sensi dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., avendo egli perso il diritto al silenzio per via delle dichiarazioni precedentemente rese; ed aveva aderito all’indirizzo secondo cui gli imputati non avevano diritto a dolersi della mancata applicazione delle norme di garanzia, previste ad esclusiva tutela del dichiarante. Tale percorso interpretativo, peraltro, era stato censurato dalle difese, secondo cui le dichiarazioni rese dal S. nel dibattimento a carico del L.I. erano da considerare radicalmente inutilizzabili.
In tale contesto, ed in presenza del contrasto giurisprudenziale rilevato, la Seconda Sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione “se la mancata applicazione – in sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede – delle disposizioni di cui all’art. 210 cod. proc. pen. relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, perché imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, determina inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione testimoniale”.
4. Il Primo Presidente, con decreto in data 23 dicembre 2014, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna pubblica udienza.
5. Con memoria recante la data del 18 marzo 2015, depositata il 19, il difensore di F. osserva che il contrasto segnalato dalla Sezione rimettente ha in realtà limitata incidenza sulla decisione del caso concreto dal momento che la produzione in giudizio degli atti del dibattimento parallelo a cura della stessa difesa degli imputati non era “destinata a provare il fatto in essa accertato (l’innocenza del L.I. ) ma la circostanza che vi è stata una valutazione sulla attendibilità delle fonti di accusa, che l’esito di tale valutazione ha determinato l’incriminazione di una di esse e che le dichiarazioni rese alla p.g. sono sfate ritenute inutilizzabili erga omnes”; era stato ben evidenziato l’interesse di F. , al pari degli altri imputati, a che fosse documentata l’inattendibilità di chi lo accusa e ciò avuto riguardo al significativo comportamento processuale tenuto in aula dal S. il quale, “incriminato” per favoreggiamento, si era dapprima avvalso della facoltà di non rispondere e poi aveva ritrattato le precedenti dichiarazioni; ribadisce che la sentenza di appello risulta compromessa dal’immotivato giudizio di attendibilità a favore del S. il cui mendacio e la cui reticenza sono storicamente certi anche se non punibili per la intervenuta ritrattazione e dalla omessa individuazione di riscontri specifici e individualizzanti relativi al F. .
6. Anche nell’interesse di L.P. e M. è stata presentata una memoria, recante la data del 20 marzo 2014 e depositata lo stesso giorno, con la quale si ribadisce l’interesse a contestare l’utilizzabilità delle dichiarazioni del S. in malam partem cioè quale conferma della tesi accusatoria. Sullo specifico quesito rimesso alle Sezioni Unite, la difesa aderisce alla tesi della sentenza impugnata secondo cui S. , avendo già reso in precedenza dichiarazioni etero-accusatorie, avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito senza però aver diritto all’avviso del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere, e ritiene pertanto utilizzabili le sue dichiarazioni; in ogni caso si sostiene che anche ove le Sezioni Unite aderissero al primo indirizzo richiamato dall’ordinanza di rimessione, quello che vuole trattarsi di una prova inutilizzabile, si dovrebbe comunque tenere conto delle dichiarazioni stesse dal momento che l’istituto della inutilizzabilità di cui all’art. 191 cod. proc. pen. è posto a garanzia delle posizioni difensive e colpisce le prove illegittimamente acquisite contro divieti di legge, quindi in danno del giudicabile vale a dire come prove a carico. Tale istituto, pertanto, in tutte le sue articolazioni (una delle quali è rappresentata dall’ipotesi prevista dall’art. 195, comma 1, cod. proc. pen.) non può essere applicato per ignorare un elemento di giudizio favorevole alla difesa che, invece, deve essere considerato e discusso secondo i canoni logico razionali propri alla funzione giurisdizionale.
Ove poi si escludesse l’utilizzabilità di tali dichiarazioni anche in bonam partem (cioè ai fini della verifica della attendibilità del S. classe (…), la sentenza impugnata dovrebbe comunque essere annullata per illogicità e mancanza di motivazione sulla attendibilità di S. , affidata a mere congetture, frutto di non consentita valutazione frazionata e prive di riscontri sia con riferimento all’imputato L.P. che all’imputato M..
Considerato in diritto
1. La complessa vicenda processuale che si è sviluppata nel presente procedimento offre alla Corte l’occasione di affrontare il tema della utilizzazione della prova dichiarativa laddove la stessa sia condizionata dalla possibile interferenza tra la qualità di imputato e teste in relazione al contenuto di quanto riferito dallo stesso dichiarante. Ma, ancora prima, impone di verificare quale sia la corretta veste giuridica del dichiarante che, proprio in virtù delle dichiarazioni rese, determini la insorgenza nei suoi confronti di elementi indizianti dei reati di false dichiarazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza, favoreggiamento e, calunnia. Dovendosi fin da ora precisare che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il reato di favoreggiamento comprende anche l’ipotesi di mendaci dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria (Sez. 6, n. 13086 del 28/11/2013, Zuber, Rv. 259497; Sez. 6, n. 28526 del 13/06/2013, Rv. 256064) e che la Corte costituzionale, con sentenza n. 75 del 2009, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art.384 cod. pen. nella parte in cui non esclude la punibilità anche in relazione a tale fattispecie criminosa.
1.1. S. classe (…), si era presentato alla Squadra Mobile di Palermo per denunciare le vessazioni subite ad opera di ambienti mafiosi dall’impresa di cui era amministratore nel corso di quasi un decennio; sentito dalla polizia giudiziaria come persona informata sui fatti (art. 351, comma 1, cod. proc. pen.) aveva omesso di riferire che anche tale G.A. aveva avuto un ruolo nella vicenda estorsiva che egli si accingeva a denunciare e che lo riguardava. Sulla base di tali dichiarazioni si esercitava l’azione penale nei confronti di numerosi imputati i cui procedimenti assumevano forme ed esiti diversi: quella del giudizio ordinario nei confronti di L.I.D. e di giudizio abbreviato nei confronti di L.P.T. e altri, cui si riferisce il presente ricorso.
1.2. Nel procedimento a carico di L.I. , la prova è stata assunta al dibattimento dove S. classe (…), citato come teste comune, ha reiterato le precedenti dichiarazioni rese alla p.g., anche in relazione al ruolo del G. . Solo alla terza udienza ha chiesto di essere nuovamente sentito ed ha ammesso la falsità di quanto in precedenza dichiarato in relazione a costui giustificandosi con l’affermazione che riteneva che non si trattasse di circostanze rilevanti e invocando l’affetto che nutriva per il fratello del G. che era stato per anni istruttore di equitazione di suo figlio. Avvisato di potersi astenere dal rispondere in ragione delle dichiarazioni autoindizianti rese, dichiarava di volersi avvalere della facoltà di non rispondere. Con la sentenza di assoluzione, il Tribunale ordinava la trasmissione degli atti all’ufficio del pubblico ministero per procedere contro di lui in relazione al reato di favoreggiamento. Alla pronuncia assolutoria il Tribunale perveniva ritenendo che le dichiarazioni rese a dibattimento da S. , ancora prima che inattendibili per le evidenti e gravi omissioni in cui il teste era incorso, erano inutilizzabili ex art. 63, comma 2, cod. proc. pen. in quanto rese da persona che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentita nella qualità di indagato: l’istruttoria dibattimentale aveva dimostrato che già da quando il S. aveva denunciato i fatti alla p.g. sussistevano ed erano nella disponibilità della p.g. prima e del p.m. poi, elementi per riscontrare il mendacio nelle sue dichiarazioni; secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione (Sez. U, n. 15208 del 21/04/2010, Mills) spettava al giudice verificare in termini sostanziali la veste del dichiarante e pertanto il Tribunale riteneva che sebbene non di fatto indagato ed iscritto nel relativo registro, S. avrebbe dovuto essere sentito con le garanzie previste per l’indagato di reato connesso, proprio in ragione delle gravi e consapevoli omissioni in merito al coinvolgimento di G.A. nella propria vicenda estorsiva, idonee a integrare il reato di cui all’art. 378 cod. pen..
1.3. Nel procedimento a carico di L.P. ed altri, celebrato come si è detto con rito abbreviato, il Tribunale perveniva alla affermazione di responsabilità degli imputati sulla base delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria dal S. , pienamente utilizzabili dovendo egli essere qualificato quale semplice denunciante, riscontrate da numerosi altri elementi.
Con gli appelli le difese degli imputati contestavano la attendibilità del S. e la stessa utilizzabilità delle sue dichiarazioni e chiedevano di acquisire i verbali di tutte le deposizioni testimoniali assunte nel procedimento contro L.I. , richiesta che veniva accolta.
Nel confermare la sentenza di condanna, la Corte di appello prendeva separatamente in esame i due gruppi di dichiarazioni del S. . Con riferimento al primo gruppo, quelle rese durante le indagini, la Corte ha rilevato che la posizione del S. , per quanto poteva risultare agli inquirenti dall’insieme del materiale a loro disposizione nell’aprile del 2010, era chiaramente interpretabile come quella di un imprenditore estorto da “cosa nostra”, che aveva cercato qualcuno nell’ambiente “per mettersi a posto”, secondo una regola comunemente nota agli addetti ai lavori; doveva perciò escludersi l’applicabilità dell’articolo 63, comma 2, cod. proc. pen., e cioè che il medesimo dovesse essere sentito fin dall’inizio della denuncia come imputato o indagato in reato connesso. Doveva escludersi altresì l’applicabilità dell’articolo 63, comma 1; infatti anche ammesso che nel corso della deposizione davanti alla p.g. si fosse evidenziata una situazione di possibile contrasto tra quanto riferiva S. e quanto già a conoscenza degli investigatori riguardo alla posizione di G. , rendendo così ipotizzabile un’ipotesi di favoreggiamento da parte di S. nei confronti del G. , era applicabile il consolidato principio fissato dalla Corte di cassazione secondo cui la disciplina relativa alle dichiarazioni indizianti rese da persona non imputata né sottoposta ad indagini non trova applicazione quando quelle dichiarazioni concretizzino esse stesse un fatto criminoso. Valutazione che – è opportuno subito precisare – è da questo Collegio condivisa, in quanto correttamente motivata dal giudice di merito sulla base delle risultanze probatorie e conforme a un consolidato principio di cui appresso si dirà.
Con riferimento al secondo gruppo di dichiarazioni, quelle rese al dibattimento, la Corte palermitana, pur riconducendole alla operatività degli articoli 64, 210 e 197-bis cod. proc. pen., riguardanti le dichiarazioni rese da soggetto che avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, le ha ritenute utilizzabili nonostante l’assenza delle garanzie stabilite dall’art. 210; si è considerato non necessario l’avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), dal momento che S. aveva già reso in precedenza dichiarazioni concernenti l’imputato; e si è rilevato che della mancanza di un difensore poteva dolersi il solo S. , mentre a ciò non erano legittimati gli imputati in quanto privi di interesse all’osservanza della norma che stabilisce l’assistenza difensiva in quanto volta a tutelare unicamente l’indagato o imputato in procedimento connesso o collegato dal rischio di autoincriminarsi con le dichiarazioni rese sotto giuramento.
2. È in relazione a tale valutazione, condivisa dalla Sezione rimettente, che il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite, per risolvere il quesito “se la mancata applicazione – in sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede – delle disposizioni di cui all’art. 210 cod. proc. pen. relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, perché imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, determina inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione testimoniale”, avendo la stessa Seconda Sezione avuto cura di precisare che la questione riguarda le ipotesi di c.d. connessione debole, cioè quelle ex art. 12, comma 1, lett. c), o 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen..
2.1. Esaminando la questione in via generale, e cioè a prescindere dalle precisazioni di cui in appresso sulla specifica situazione in esame, deve darsi atto della sussistenza nella giurisprudenza di legittimità di tre distinti orientamenti, tutti sostenuti da numerose pronunce spesso espressamente consapevoli delle opposte tesi, sulle conseguenze derivanti dalla mancata attribuzione della corretta qualifica soggettiva al “dichiarante coinvolto nel fatto”.
Secondo un primo orientamento, di cui fanno parte decisioni intervenute sia prima che dopo la sentenza Sez. U, De Simone, del 17/12/2009, la sanzione del mancato avviso ex art. 64, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. è l’inutilizzabilità della prova così assunta, salva la possibilità di rinnovare l’escussione con le forme corrette (ex aliis, Sez. 5, n. 39050 del 25/09/2007, Costanza, Rv. 238188; Sez. 6, n. 34171 del 04/07/2008, Mannina, Rv. 241464; Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv. 244462; Sez. 5, n. 3524 del 2013 dep. 2014, Guadalaxara; Sez. 5, n. 29227 del 27/05/2014, Cavaliere, Rv. 260320; Sez. 1, n. 52047 del 10/06/2014, Simone).
Il secondo orientamento (ex aliis, Sez. 3, n. 38748 del 11/06/2004, Mainiero, Rv. 229614; Sez. 1, n. 43187 del 16/10/2012, Di Noio, Rv. 253748; Sez. 6, n. 10282 del 22/01/2014, Romeo, Rv. 259267; Sez. 4, n. 36259 del 08/07/2014, Barisone; Sez. 5, n. 1200 del 18/09/2014, dep. 2015, Mancieri; Sez. 2, n. 5364 del 22/01/2015, Favella) ritiene invece che si verifichi una nullità a regime intermedio, come tale eccepibile solo dal diretto interessato e non dal’imputato; da un lato, si è posto in evidenza che la tesi della inutilizzabilità finisce per stravolgere la natura dell’istituto, il quale “tende a tutelare l’imputato o indagato nel procedimento connesso dal rischio che, deponendo nel processo principale come testimone obbligato a dire la verità, arrivi inconsapevolmente ad auto-incriminarsi per il reato connesso o collegato e, comunque, a deporre contro se stesso”; d’altro lato, si è sottolineato che la legge non vieta l’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato, ma semplicemente prescrive che esso sia assunto secondo determinate formalità, per derivarne che il mancato rispetto di queste ultime non da luogo ad un’ipotesi – sanzionata con l’inutilizzabilità dall’art. 191, comma 1, cod. proc. pen. – di prova assunta “in violazione dei divieti stabiliti dalla legge”, ma di nullità ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c), e 180 del codice di rito; nullità che non può essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità, né può essere eccepita dall’imputato, privo di interesse (art. 182 cod. proc. pen.); si è aggiunto che la tesi dell’inutilizzabilità non può essere condivisa anche perché l’art. 197-bis, comma 2, cod. proc. pen., si limita a richiamare, quale ipotesi di testimonianza assistita, l’art. 64, comma 3, lett. c), ma non anche il successivo comma 3-bis del predetto articolo, che prevede la sanzione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in mancanza dell’avvertimento di cui al comma 3.
Secondo il terzo orientamento (tra le altre, Sez. 2, n. 41052 del 25/10/2005, Piscopo, Rv. 232595; Sez. 5, n. 12976 del 31/01/2012, Monselles, Rv. 252317; Sez. 5, n. 41886 del 24/09/2013, Perri, Rv. 257839; Sez. 5, n. 46457 del 18/03/2014, Magliano; Sez. 1, n. 41745 del 23/09/2014, Ubaldini; Sez. 5, n. 51241 del 30/09/2014, Romano, Rv. 261733) le dichiarazioni assunte in modo irregolare al dibattimento da un soggetto indagato o indagabile per reato connesso o collegato non sono affatto viziate, ma pienamente utilizzabili; l’art. 210, comma 6, ad esse applicabili, richiama l’art. 197-bis, che nel richiamare a sua volta l’art. 64, comma 3, lett. c), può essere inteso come funzionale a limitare esclusivamente la possibilità di assumere come teste l’imputato solo su fatti altrui, senza che il richiamo debba essere necessariamente interpretato come comprensivo dell’avvertimento che assumerà l’ufficio di testimone salve le incompatibilità e le garanzie previste; avvertimento che, mentre ha un senso per l’interrogatorio, atto assunto fuori del contraddittorio che razionalmente legittima una maggiore attenzione del legislatore volta a tutelare i diritti dei terzi coinvolti nelle dichiarazioni rese dall’interrogato, non ha invece senso allorché l’imputato debba dichiarare, nella veste già dichiarata di testimone, su fatti esclusivamente altrui nella sede dibattimentale, dove la garanzia del contraddittorio è piena; tanto è vero che l’art. 210, comma 6, espressamente richiede che l’avviso sia fatto agli imputati che non abbiano reso in precedenza dichiarazioni erga alios.
3. Il Collegio ritiene di dovere senz’altro aderire al primo orientamento, potendosi al riguardo formulare le seguenti osservazioni.
La legge 1 marzo 2001, n. 63, attuativa della riforma costituzionale sul “giusto processo” ha, come è noto, rappresentato il punto di convergenza ed il tentativo di mediazione tra una serie di contrapposte visioni che avevano, da un lato, alimentato la nota giurisprudenza costituzionale degli anni ’90, attenta a rimarcare il valore essenziale delle acquisizioni processuali ed a circoscrivere il pericolo della dispersione dei mezzi di prova, e, dall’altro, indotto reazioni uguali e contrarie, scaturite nella altrettanto nota riforma dell’art. 111 Cost., ove i valori della oralità e del contraddittorio avevano ricevuto le “stimmate” di rango costituzionale.
In tale cornice, permeata, come è altrettanto noto, di significativi richiami ai principi dettati al riguardo dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, secondo la interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, il legislatore si è inserito dettando una complessa disciplina, attenta a ricomporre – o a cercare di ricomporre – le linee attraverso le quali pervenire ad una adeguata ponderazione di valori antagonisti, ridisciplinando, ab imis, i contorni delle varie figure soggettive dei dichiaranti.
L’attenzione ha finito così per concentrarsi su due, importanti versanti. Per un verso, infatti, si è inteso garantire al massimo il diritto al silenzio, in tutte quelle ipotesi in cui il dichiarante si sarebbe potuto trovare esposto al rischio di vedere compromessa la garanzia del nemo tenetur se detegere: principio di antica e consolidata tradizione che rinviene nello stesso diritto di difesa il proprio naturale fondamento. Sotto altro e contrapposto versante, si sono invece circoscritte le ipotesi di incompatibilità a testimoniare, allargando notevolmente la platea dei dichiaranti, variamente assistiti sul piano defensionale e dei diritti.
Imputato e testimone non figurano dunque più come soggetti concettualmente alternativi sul piano processuale, essendosi coniate – in un ordito davvero complesso – figure “intermedie”, fino a pervenire alla “confusione” soggettiva, nei casi in cui l’imputato, previamente avvisato a norma dell’art. 64, comma 3, lett. e), cod. proc. pen., è chiamato ad assumere la figura ed il ruolo del testimone su fatti che concernono la responsabilità di altri.
Pur non giungendosi alla possibilità, prevista in altri ordinamenti, di assumere la posizione del teste in causa propria con gli obblighi e le facoltà connesse, la distanza concettuale fra le posizioni dei dichiaranti si è venuta tuttavia non poco ad offuscare, creandosi la inedita figura del teste assistito, cioè del teste che è anche imputato (o imputabile) di reato connesso o collegato, la cui dichiarazione, per assumere la forma (art. 497 cod. proc. pen.) e il valore giuridico della testimonianza (sia pure con i limiti ex art. 192, comma 3, cod. proc. pen., richiamato dagli artt. 197-bis, comma 6, e 210, comma 6) non può che essere ancorata al presupposto della scelta dello stesso dichiarante di riferire circostanze relative alla responsabilità altrui, resa consapevole ed efficace dal sistema di avvisi previsti dall’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., e in particolare da quello ex lettera c), con le conseguenze stabilite dal comma 3 bis.
È dunque del tutto condivisibile quella giurisprudenza, confortata peraltro da autorevole e concorde Dottrina, che si è richiamata alla funzione centrale svolta nell’intero sistema dal previo avvertimento ex art. 64, comma 3, lett. c), per sottolineare la necessità che quest’ultimo preceda l’esame ex art. 210 in tutti i casi di “legame debole” in cui il soggetto non è stato previamente avvisato: non solo quindi se egli non ha “reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato” (come testualmente prevede il comma 6 dell’art. 210), ma anche se abbia deposto erga alios ma in modo non “garantito”, ovvero non preceduto dal richiamato avvertimento.
Si tratta di un orientamento che ha ricevuto l’avallo della Corte costituzionale già all’indomani dell’entrata in vigore della riforma (ord. n. 451 del 2002). Era stato sollevato il dubbio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 11 e 112 Cost., in relazione alla necessità di formulare l’avvertimento previsto dall’art. 210, comma 6, cod. proc. pen. circa la facoltà di non rispondere, anche alla persona imputata in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera e), ovvero di un reato collegato a norma dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen., che abbia in precedenza reso dichiarazioni sulla responsabilità di altri nella diversa qualità di persona informata sui fatti; situazione in tutto corrispondente a quella in cui, secondo la prospettazione dell’ordinanza di rimessione, si è venuto a trovare S. al momento della deposizione testimoniale. La Consulta ha escluso ogni dubbio di incostituzionalità osservando, tra l’altro, che le dichiarazioni erga alios assunte da una persona informata sui fatti non sono assimilabili a quelle rese in qualità di imputato di reato collegato, dal momento che solo in tale ultima ipotesi la persona, avendo ricevuto l’avviso ex art. 64, comma 3, lett. e), può determinarsi liberamente a rilasciare o meno dichiarazioni accusatorie, mentre la persona informata sui fatti ha l’obbligo di rispondere, secondo verità, alle domande rivoltele dal pubblico ministero, e, se rifiuta di rispondere o dichiara il falso, commette il reato di false informazioni, previsto e sanzionato dall’art. 371-bis cod. pen..
Successivamente (sent. n. 76 del 2003) il Giudice delle leggi ha osservato che con la riforma del 2001 il legislatore ha escluso l’incompatibilità con l’ufficio di testimone per gli imputati in procedimento connesso o di reato collegato a condizione che siano stati definitivamente giudicati (e sia perciò operante il divieto di bis in idem), ovvero a condizione che abbiano volontariamente assunto la veste di testimone (a seguito dell’avviso a norma dell’art. 64, comma 3, lettera e, cod. proc. pen.). Assunzione volontaria che non può che essere garantita dal’avviso ex art. 64, comma 3, lett. c.
Ed è ancora il caso di ricordare che la stessa Corte cost. (sent. n. 191 del 2003) ha ribadito la esigenza che anche in dibattimento siano dati gli avvertimenti previsti dall’art. 64.
Gli argomenti letterali e logici con i quali si sostengono le contrarie tesi, tra loro strettamente collegate e spesso indicate in via alternativa o subordinata, della nullità a regime intermedio o della piena utilizzabilità, non paiono convincenti.
La prima tesi si basa essenzialmente sulla valorizzazione del mancato richiamo negli artt. 210, comma 6, e 197-bis, comma 2, cod. proc. pen., all’art. 64, comma 3, lett. c); la seconda sul rilievo che l’art. 64, comma 3, lett. c), si riferisce all’interrogatorio, cioè ad un atto che per sua natura si svolge fuori del contraddittorio, per tale ragione trovando giustificazione il maggior rigore adoperato dal legislatore a tutela dei diritti dei terzi eventualmente coinvolti dalle dichiarazioni rese, laddove invece gli artt. 197-bis e 210, comma 6, riguardano esami, atti cioè che si svolgono in ambito già sufficientemente garantito dal contraddittorio.
Nel privilegiare una lettura atomistica delle norme, che prescinde dalla valutazione del sistema voluto dal legislatore, confermato dalle richiamate sentenze della Corte costituzionale, tali orientamenti trascurano di considerare che l’art. 64, comma 3-bis, stabilisce, tra l’altro, che la persona interrogata non ha ricevuto l’avvertimento di cui al comma 3, lett. c), non potrà assumere in ordine a fatti che concernono la responsabilità di altri, l’ufficio di testimone, in tal modo assumendo chiaramente una portata generale sulla estensione della incompatibilità a testimoniare, a prescindere dalla mancanza di esplicito rinvio da parte degli artt. 210, comma 6, e 197-bis, comma 2.
Si ritiene inoltre sussistente una nullità a regime intermedio che non è però specificatamente prevista dall’ordinamento, dal momento che l’art. 178, comma 3, lett. e), tutela il diritto di difesa dell’imputato e delle altre parti, non già quello del teste assistito; teste peraltro che essendo ampiamente protetto dalla garanzia della inutilizzabilità delle eventuali dichiarazioni rese contro di sé, non si vede quale interesse possa avere a dedurre tale nullità; laddove invece un tale evidente interesse è senza giustificazione negato all’imputato: al riguardo è opportuno richiamare il carattere relativo dell’inutilizzabilità patologica prevista dall’art. 64, comma 3-bis, lett. c), essendo le dichiarazioni utilizzabili nei confronti di chi le ha rese, ma non delle persone coinvolte; ciò che dimostra che la sanzione non è posta a tutela dell’interrogato, ma delle persone coinvolte dalle dichiarazioni, protette nel loro diritto “a non essere accusati da una persona che non è stata avvertita della responsabilità che scaturirà dalle sue dichiarazioni”.
Ma soprattutto si dimentica il tenore testuale dell’art. 197, comma 1, lett. a) e b), a norma del quale sono previsti precisi e generali divieti probatori, la cui violazione comporta necessariamente, anche nel caso del mancato avviso di cui si discute, l’inutilizzabilità ex art. 191 cod. proc. pen. delle dichiarazioni in tal modo acquisite.
Quanto poi alla tesi secondo cui l’avviso in questione non sarebbe neppure necessario essendo sufficiente la garanzia rappresentata dalla assunzione della prova in dibattimento, e cioè nel contradditorio delle parti, non è ben chiaro quale ne sia lo spazio applicativo in presenza dell’esplicita previsione contenuta nel comma 6 dell’art. 210 circa la necessità che coloro che non hanno in precedenza reso dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato, ricevano l’avvertimento in questione, potendo assumere l’ufficio di testimone solo se non si avvalgono della facoltà di non rispondere.
In conclusione, non può sussistere dubbio alcuno che, ove la eventuale violazione delle regole di assunzione probatoria incida sul terreno della stessa capacità a testimoniare, se ne deve dedurre la piena inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, giacché non si tratterebbe di affermazioni da “corroborare” perché promananti da soggetto “non terzo” rispetto all’oggetto ed al tema della deposizione, ma da persona per la quale sussiste un divieto ex lege di assumere la posizione e gli obblighi del testimone.
Devono pertanto enunciarsi i seguenti principi di diritto:
– “In sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., di imputato di reato connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., l’avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), deve essere dato non solo se il soggetto non ha reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato (come testualmente prevede il comma 6 dell’art. 210), ma anche se egli abbia già deposto erga alios senza aver ricevuto tale avvertimento”.
– “In sede di esame dibattimentale ai sensi dell’art. 210, comma 6, cod. proc. pen., di un imputato di reato connesso ex art. 12, comma 1, lett. c), o collegato ex art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., a quello per cui si procede, il mancato avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen., determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale”.
4. La specifica situazione all’esame della Corte, impone alcune ulteriori riflessioni dovendosi affrontare il problema, cui si accennava all’inizio, di cosa debba intendersi per imputato di reato connesso o collegato a quello per il quale si procede, in riferimento alla posizione del testimone che, proprio in virtù delle dichiarazioni rese, abbia determinato la insorgenza, nei suoi confronti, di elementi indizianti del reato di false informazioni al pubblico ministero, o di favoreggiamento o di calunnia: vale a dire, di reati che trovano fondamento proprio nel tessuto dichiarativo della persona che deve assumere la veste di testimone nel procedimento cui quelle dichiarazioni pertengono sul piano probatorio, o al quale, comunque, appaiono probatoriamente collegate. Il quesito cui occorre dare risposta è, in altri termini, se il reato che consiste in dichiarazioni versate nel processo possa determinare, in capo al dichiarante, l’insorgenza di una posizione di incompatibilità rispetto al munus di testimone.
Ebbene, la giurisprudenza di legittimità, qui condivisa, si è più volte espressa in senso negativo, con particolare riferimento alla portata da annettere alle dichiarazioni “indizianti” di cui all’art. 63 cod. proc. pen.. Si è infatti osservato che le dichiarazioni “indizianti” evocate dal comma 1 di tale articolo sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli fatti da cui emerga una sua responsabilità penale, e non quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato (ad es. calunnia, falsa testimonianza o favoreggiamento personale). Detta norma di garanzia, infatti, è ispirata al principio nemo tenetur se detegere, che salvaguarda la persona che abbia commesso un reato, e non quella che debba ancora commettere il reato (in questi termini, Sez. 6, n. 21116 del 31/03/2004, Turturici, Rv. 229024; nello stesso senso, ex plurimis, Sez.6, n. 33836 del 13/05/2008, Pandico, Rv. 240790; Sez.2, n. 36284 del 09/07/2009, Pietrosanto, Rv. 245597; Sez. 3, n. 8634 del 18/09/2014, M., Rv. 262511).
Inoltre, come è stato puntualizzato dalla giurisprudenza, in base al principio di conservazione degli atti e della regola ad esso connessa del tempus regit actum, le dichiarazioni del soggetto che rivestiva ancora e soltanto lo status di persona informata sui fatti sono legittimamente utilizzabili, nulla rilevando in contrario la circostanza che il dichiarante abbia successivamente assunto condizione di indagato/imputato (Sez. 2, n. 38621 del 09/10/2007, Di Fazio, Rv. 238222).
L’assunto si caratterizza per due aspetti. Un primo rilievo è che, già da un punto di vista concettuale, l’incompatibilità a svolgere una determinata funzione è caratteristica o qualità normativamente predefinita, che deve necessariamente precedere gli atti che caratterizzano quella funzione: non si può “divenire” incompatibili proprio a causa della funzione che si è legittimati a svolgere in quanto con essa compatibili. Affermare il contrario suonerebbe come una vera e propria petizione di principio. Il soggetto che ha assunto la veste formale e sostanziale della persona informata sui fatti o del testimone, può, infatti, sicuramente andare incontro a cause di incompatibilità a svolgere quest’ultimo ruolo processuale, ove l’esercizio della relativa funzione perduri: ma ciò, sempre in dipendenza di cause esterne ai fatti o alle condotte che integrano i momenti in cui l’esercizio della funzione si esprime. Se il testimone diviene indagato quale concorrente nel reato cui la testimonianza si riferisce, o per altro reato ad esso connesso o collegato e ciò non sia una diretta conseguenza della sua testimonianza, è ovvio che si “incrini” la relativa investitura soggettiva e che debba conseguentemente mutare lo status di dichiarante. Ma ove il testimone non sia chiamato a rispondere di fatti diversi da quelli che integrano il tessuto delle sue stesse dichiarazioni, allora scompare il profilo di una ipotetica incompatibilità, per venire ad emersione soltanto il ben diverso aspetto della attendibilità: resta ferma, infatti, la capacità a testimoniare, con tutti i doveri corrispondenti, mentre si apre la valutazione giurisdizionale del narrato, senza alcuna limitazione legale dei relativi criteri di apprezzamento, posto che la regola della corroboration, evocata come necessaria per le varie figure indicate dall’art. 192, commi 3 e 4, e dall’art. 197-bis cod. proc. pen., non ha ragion d’essere nei confronti del testimone “terzo” rispetto al fatto su cui è chiamato a rispondere secondo verità, a prescindere da qualsiasi fattore che ne possa affievolire la credibilità.
Un secondo profilo che può desumersi dall’orientamento giurisprudenziale di cui si è detto è che l’accertamento relativo alla veridicità di una fonte di prova – ad esempio, per stare alla vicenda oggetto dell’odierno scrutinio, la verifica se un teste abbia o meno mentito o sottaciuto una determinata circostanza – non differisce dalla valutazione della relativa congruenza probatoria, nel senso che la dichiarazione ritenuta falsa non diverge, concettualmente, dalla prova ritenuta inconferente agli effetti dimostrativi del factum probandum: e ciò, dunque, anche nelle ipotesi in cui possa essere addirittura ipotizzarle uno specifico reato di “falso” dedotto da quelle dichiarazioni.
Le procedure incidentali di falso, infatti, non trovano ingresso nel processo penale, così come sono venute meno le pregiudiziali penali, secondo una linea tesa a riaffermare l’autonomia di ogni singola giurisdizione, privilegiando gli accertamenti incidenter tantum (art. 2 cod. proc. pen.) piuttosto che fare ricorso – salvo che per le questioni di stato (art. 3 cod. proc. pen.) – a paralizzanti arresti, con devoluzione degli incidenti al giudice competente per la causa “pregiudicante”.
Tutto ciò, d’altra parte, trova significativa eco nelle profonde differenze che è possibile cogliere tra il codice vigente e quello abrogato, proprio in tema di dichiarazioni testimoniali sospettate di falsità. A prescindere, infatti, dalla già segnalata soppressione delle pregiudiziali penali che determinavano, a norma dell’art. 18 del codice del 1930, la sospensione del procedimento pregiudicato sino alla pronuncia della sentenza irrevocabile di quello pregiudicante, l’art. 458 del medesimo codice sanciva una serie di regole che determinavano la immediata azionabilità del reato di falsa testimonianza, perizia o interpretazione, con l’arresto “del colpevole” e la instaurazione, ove possibile, del giudizio immediato. Il giudizio principale, poi, proseguiva soltanto nella ipotesi in cui il giudice avesse ritenuto non necessario attendere il giudizio sulla falsa testimonianza, giacché, ove fosse risultato impossibile procedere al giudizio immediato e fosse risultato necessario attendere il giudizio sulla falsità, il dibattimento doveva essere rinviato. L’ampio concetto di connessione tracciato dal codice abrogato, rendeva poi scontata la incompatibilità dell’imputato di falsa testimonianza a continuare a rivestire, a norma dell’art. 348, ultimo comma, la qualità di testimone nel processo principale.
Ben diverso, invece, lo scenario tracciato dal codice vigente. Non soltanto, infatti, è stata testualmente esclusa la possibilità di procedere all’arresto del testimone in udienza per reati concernenti il contenuto della deposizione (art. 476, comma 2), ma è previsto che, ove nel corso dell’esame testimoniale la persona renda dichiarazioni “contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite” (i connotati, dunque, di inattendibilità, e non di falsità in sé), il giudice proceda ai necessari avvertimenti; solo nel caso di rifiuto indebito di testimonianza si provvede alla immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge. è, poi, soltanto alla conclusione della fase processuale in cui il testimone ha prestato il suo ufficio che il giudice, “ove ravvisi indizi del reato previsto dall’art. 372 del codice penale” (quando, dunque, la funzione è esaurita ed è possibile lo scrutinio circa la sussistenza di “indizi” di falsa testimonianza), informa il pubblico ministero trasmettendogli i relativi atti (art. 207 cod. proc. pen.).
Una sequenza, quindi, che avvalora la fondatezza della tesi che esclude dalla portata applicativa delle dichiarazioni indizianti di cui all’art. 63 cod. proc. pen. (con tutto quel che ne consegue agli effetti che qui interessano) proprio quelle che si riferiscono alle ipotesi di falsità “processuali” che traggono origine dalle dichiarazioni stesse. Va pertanto qui ribadito che in tema di valutazione della testimonianza, il sistema introdotto dal codice di rito separa nettamente la valutazione della testimonianza ai fini della decisione del processo in cui è stata resa e la persecuzione penale del testimone che abbia eventualmente deposto il falso, attribuendo al giudice il solo compito di informare il p.m. della notizia di reato, quando ne ravvisi gli estremi in sede di valutazione complessiva del materiale probatorio raccolto. Ne consegue che la deposizione dibattimentale del teste, pur se falsa, rimane parte integrante del processo in cui è stata resa e costituisce prova ivi utilizzabile e valutabile in relazione all’altro materiale probatorio legittimamente acquisito, anche sulla base del meccanismo disciplinato ai sensi dell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 18065 del 23/11/2011, Accetta, Rv. 252531; nel medesimo senso, Sez. 5, n. 19313 del 28/01/2013, Marino, Rv. 255635).
5. A conferma di tale soluzione possono altresì formularsi le seguenti osservazioni.
Deve tenersi presente la necessità, ai fini di un corretto funzionamento del sistema processuale, di una delimitazione certa e stabile delle posizioni rivestite dai principali soggetti che vi partecipano. Specie dopo che si è riconosciuto al giudice il potere di verificare in termini sostanziali l’attribuibilità al dichiarante della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni vengono rese, secondo un percorso interpretativo che ha condotto alla più volte citata sentenza delle Sez. U, n. 15208 del 21/04/2014, Mills, è necessaria una solida definizione dei parametri di riferimento onde evitare una opinabilità di apprezzamenti diversi, che essendo collegata alla inutilizzabilità della prova può emergere in qualunque stato e grado del procedimento o anche in procedimenti diversi, come in effetti avvenuto nel presente caso, che rischia di compromettere il corretto funzionamento del processo. Da un primo punto di vista, può essere utile ricordare che proprio la sentenza Mills ha ritenuto di dover collegare la possibilità del giudice di apprezzare autonomamente, ora per allora e sempre che siano disponibili elementi di fatto idonei a consentire un tale giudizio, la qualità sostanziale di indagato alla condizione della mancanza per il reato di corruzione in atti giudiziari oggetto di quel procedimento, di una scriminante analoga a quella prevista dall’art. 384, secondo comma, cod. pen., per il reato di falsa testimonianza; implicitamente affermando dunque che ove di falsa testimonianza (o di altro reato per cui opera la scriminante) si fosse trattato, la veste di. testimone doveva ritenersi correttamente attribuita. Il tema delle scriminanti risulta dunque centrale nell’ambito dei delitti dichiarativi contro l’attività giudiziaria, costituendo, da un lato, attuazione del principio nemo tenetur se detegere, e rappresentando, dall’altro, un evidente elemento di incertezza sulla valutazione del comportamento tenuto dal dichiarante. Come noto, per tutte le ipotesi di falsa testimonianza e di favoreggiamento l’art. 384, secondo comma, cod. pen., stabilisce la non punibilità di chi non avrebbe dovuto essere assunto come teste, trovandosi in situazione di incompatibilità; inoltre il primo comma dello stesso articolo prevede una speciale causa di non punibilità per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento alla libertà personale o all’onore, e la giurisprudenza di questa Corte ha interpretato estensivamente tale previsione nel senso che non integra il reato di falsa testimonianza la dichiarazione non veritiera resa da persona che non possa essere sentita come testimone o abbia facoltà di astenersi dal testimoniare, ma non ne sia stata avvertita, nulla rilevando le finalità e i motivi che l’abbiano indotta a dichiarare il falso che possono anche consistere nel fine di evitare un’accusa penale ovvero un procedimento disciplinare a proprio carico (Sez. U, n. 7208 del 29/11/2007, Genovese, Rv. 238384; Sez. 3, n. 45444 del 25/06/2014, Maccioni, Rv. 260744). Una ulteriore causa di non punibilità è poi prevista dall’art. 376 con la ritrattazione.
D’altro lato con la medesima sentenza n. 15208 del 2014, le Sezioni Unite hanno ancorato a precisi e stringenti requisiti la possibilità di sindacato successivo; è stato infatti ribadita, come già in precedenza affermato da Sez. U, Fruci e Morea, la necessità che il giudice che procede all’assunzione della prova sia a conoscenza già prima dell’esame o dell’escussione di elementi già sussistenti in quel momento qualificabili quali indizi non equivoci di reità; ed è stato altresì espressamente rilevato che il giudice “per potere applicare la norma di cui all’art. 210 cod. proc. pen., deve essere messo in condizione di conoscere la situazione di incapacità a testimoniare o di incompatibilità, le quali, quindi, se non risultano dagli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento, devono essere dedotte dalla parte esaminata o comunque da colui che chiede l’audizione della persona imputata o indagata in un procedimento connesso o collegato”.
Anche sulla base di tali indicazioni è difficile condividere la tesi per cui il giudice del dibattimento, davanti al quale S. classe ’54 era stato chiamato a deporre come teste ordinario, potesse essere in condizione di valutarne, a priori, una diversa posizione processuale derivante da atti delle indagini preliminari.
6. Venendo al procedimento in esame, da quanto sopra detto deriva che il materiale probatorio utilizzato dalla Corte di Palermo si sottrae a censure di inutilizzabilità, ferma restando tuttavia la necessità di un rinnovato rigoroso esame delle dichiarazioni rese da S. prima alla p.g. e poi al Tribunale, tenuto conto della seria ipoteca che è stata posta sulla sua attendibilità nel momento in cui nel procedimento L.I. gli atti sono stati rimessi alla Procura della Repubblica per le valutazioni di competenza.
Ciò che fa difetto nella valutazione operata dalla Corte territoriale, è la disamina dei peculiari profili che hanno caratterizzato il “fatto processuale” relativo al contenuto delle diverse dichiarazioni rese dal S. a proposito delle condotte criminose che si sono realizzate in suo danno e che lo hanno visto inizialmente reticente sulla posizione del G. . Le ordinarie cautele con le quali deve essere riguardata la posizione della vittima del reato costituitasi parte civile – posizione, questa, che aveva assunto il S. nel procedimento a carico del L.I. – e che sono state poste a fulcro di numerose pronunce di questa Corte, devono essere infatti, ulteriormente specificate proprio nelle ipotesi in cui la vittima del reato abbia – per le più varie ragioni – non sinceramente descritto il ruolo svolto dai singoli partecipi, o ne abbia volutamente pretermesso alcuno, secondo una scelta favoreggiatrice, poi ritrattata nel corso dello stesso giudizio. In tale ipotesi, infatti, occorre verificare se tale temporanea insincerità esaurisca i propri effetti, sul piano della attendibilità della complessiva narrazione della vicenda, all’interno dei rapporti soggettivi tra dichiarante e soggetto favorito o se, al contrario, proietti conseguenze dirette anche sulla posizione degli altri soggetti indicati come autori dei fatti o sulla stessa natura e portata della vicenda narrata. È infatti legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa, purché il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta per intero la stessa credibilità del dichiarante ovvero non infici la plausibilità delle altre parti del racconto (Sez. 6, n. 20037 del 19/03/2014, L, Rv. 260160).
I giudici del merito, in altri termini, si sarebbero dovuti particolarmente impegnare nel verificare se la omessa indicazione del G. potesse considerarsi profilo probatoriamente “scindibile” rispetto alla restante parte del narrato, vuoi sotto il profilo soggettivo – concernente la posizione ed il ruolo dei restanti soggetti chiamati in causa – vuoi sul versante oggettivo, concernente la natura, le modalità e la concatenazione storica dei fatti descritti.
Questa Corte, infatti, ha in più occasioni avuto modo di puntualizzare che le dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine – si è sottolineato – è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l’esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, Pirajno, Rv. 261730).
Tanto più, dunque, simili cautele e la possibilità di effettuare una valutazione frazionata del narrato si impongono ove sia la stessa persona offesa, costituita parte civile, ad aver introdotto nel contesto delle proprie dichiarazioni profili di reticenza o di mendacio, poi ritrattati.
7. Si impone, in conclusione, l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per nuova valutazione della attendibilità del S. classe (…) alla luce dei principi innanzi indicati, rimanendo assorbiti i restanti motivi di ricorso.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.
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