Suprema Corte di Cassazione
sezioni unite
sentenza 10 luglio 2015, n. 14477
Svolgimento del processo
A seguito di un esposto dell’Avvocato S.F.M., pervenuto l’11 ottobre 2006, innanzi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina, si radicava, a carico dell’Avvocato G.D., procedimento disciplinare, con la contestazione di addebiti riconducibili al disposto degli artt. 5, 6, 8, 14, 22 e 60 del Codice Deontologico Forense, nonché violativi del dovere, derivante dall’art. 12 del RDL n.1578/1933, di adempiere al ministero Forense “con dignità e decoro”.
Detto procedimento, nel contraddittorio dell’incolpato, che si difendeva, giustificando il proprio operato, veniva definito dal Consiglio adito, con provvedimento disciplinare del 28 aprile 2010, con il quale, riconosciuta la responsabilità del professionista per l’addebito di cui all’art. 22 citato, veniva allo stesso inflitta la sanzione dell’avvertimento.
L’Avvocato G. impugnava il citato provvedimento, censurandolo sulla base di quattro mezzi, che, però, venivano rigettati dall’adito Consiglio Nazionale Forense, con la decisione in epigrafe indicata ed in questa sede impugnata.
Il medesimo professionista ha, quindi, proposto il ricorso per cassazione di che trattasi, affidandolo a più mezzi.
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Messina e le altre parti intimate, non hanno svolto difese in questa sede.
Motivi della decisione
La decisione in questa sede impugnata, è pervenuta alle rassegnate conclusioni, opinando per l’infondatezza delle formulate censure.
Il Consiglio Nazionale Forense, ha disatteso il primo mezzo, con il quale l’incolpato eccepiva la nullità dell’addebito, per mancanza della necessaria specificità, rilevando che, il vizio inficiante sussiste solo quando vi è assoluta incertezza sui fatti oggetto di contestazione, mentre nel caso i fatti addebitati erano sufficientemente specifici e non equivoci, tant’è che avevano consentito all’incolpato di approntare le proprie difese.
Il medesimo Consiglio ha, poi, disatteso il secondo motivo, con il quale l’Avvocato G., analizzando le espressioni utilizzate nella lettera inviata al Collega il 09.10.2006, ne escludeva la lesività rivendicandone il corretto uso nell’esercizio dell’attività difensiva, rilevando che l’avere attribuito al Collega una condotta artificiosa e contraria a principi di correttezza e lealtà nello svolgimento dell’attività, costituiva un vulnus per la persona e la figura professionale del professionista.
Il terzo motivo, con il quale l’Avvocato G. lamentava il difetto di motivazione, per non avere il Consiglio dell’Ordine preso in esame ed ammesso i mezzi istruttori richiesti, è stato, del pari rigettato, nella considerazione della relativa irrilevanza per essere già stata acquisita prova documentale, nonché notando la genericità ed irrilevanza delle articolate circostanze.
Il quarto ed ultimo motivo, concernente l’archiviazione dell’esposto presentato dall’Avvocato G. contro l’Avvocato S., è stato, infine, dichiarato inammissibile, non risultando contenere censure riguardanti la decisione in esame.
La sentenza impugnata e come innanzi motivata è stata aggredita criticamente dall’Avvocato G. sotto plurimi profili.
Con il primo si denuncia eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento della causa tipica dell’interesse pubblico per cui lo stesso è stato conferito.
Si sostiene l’abnorme uso dei poteri del Consiglio, con acritica adesione alla tesi prospettata dall’Avvocato S..
Il Collegio ritiene che la doglianza sia da dichiarare inammissibile, per genericità, impingendo nel condiviso principio, secondo cui “Il giudizio di Cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi del ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.” (Cass. 25332/2014, n. 19959/2014, n. 21165/2013).
Alla stregua di tale principio, il mezzo di che trattasi non risulta scrutinabile, stante che lo stesso offre una critica generica della decisione del C.N.F. e non ne investe specificamente la ratio decidendi, la quale ha considerato fondato l’addebito mosso al ricorrente, sul presupposto di avere verificato la sussistenza in atti della prova del relativo fondamento.
Peraltro, con la doglianza non vengono esternate le ragioni per le quali la valutazione degli scritti, operata dal Giudice del disciplinare, risultando del tutto inconciliabile con le caratteristiche della fattispecie, concreterebbe un concreto sviamento di potere del giudice disciplinare (Cass.SS.UU. n.15873/2013) ovvero travalicherebbe i limiti della ragionevolezza (Cass.SS.UU. n.19075/2012). Con il secondo mezzo, si censura la decisione di appello ai sensi dell’art. 111 della Costituzione. Si deduce che la richiesta di ammissione della prova testimoniale è stata disattesa “senza fornire alcuna motivazione”, e quindi con abuso del proprio potere discrezionale e che, d’altronde, l’integrazione motivazionale operata dal CNF, non può essere considerata legittima.
Si deduce, poi, che nelle more del giudizio l’art. 22, che ha giustificato l’addebito, è stato abrogato dall’art. 65 u.i. della Legge n.247/2012, il quale ha, espressamente, previsto l’applicazione delle relative disposizioni “ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore se più favorevoli per l’incolpato”.
Si deduce, infine, la violazione del secondo comma dell’art. 111 della Costituzione, alla cui stregua il giudizio si sarebbe dovuto svolgere “nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”.
Le citate doglianze, delle quali pur si colgono profili di inammissibilità per la relativa genericità, nella misura in cui sono sottese a denunciare carenze motivazionali della decisione impugnata, vanno esaminate, tenendo conto della data di deposito della decisione impugnata e, quindi, della normativa vigente ed applicabile ratione temporis.
Infatti, le censure, pur proposte con ricorso notificato il 18/20 dicembre 2014, non tengono conto del nuovo testo dell’art. 360 n. 5 c.p.c., quale risultante in esito alla riforma introdotta dal D.L. 22 giugno 2012 n.83, convertito con modificazioni dalla Legge 07 agosto 2012 n. 134.
In vero, trattandosi di sentenza depositata il 10 novembre 2014, cioè dopo l’entrata in vigore della precitata novella, la quale, ha introdotto una disciplina più stringente, che ha compresso la possibilità della denuncia dei vizi di motivazione, deve ritenersi che l’intervento della Corte di Cassazione è consentito solo nei casi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
Il cambiamento operato dalla novella è stato, infatti, netto, dal momento che dal previgente testo del n.ro 5 dell’art. 360 c.p.c., è stato eliminato non solo il riferimento alla “insufficienza” ed alla “contraddittorietà”, ma addirittura la stessa parola “motivazione”.
Si è per ciò ritenuto che la nuova previsione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., legittimi solo la censura per “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, non essendo più consentita la formulazione di censure per il vizio di “insufficiente” o “contraddittorietà” della motivazione. Né a diverso opinamento può pervenirsi nella considerazione che la censura potrebbe trovare ingresso, dando prevalenza all’aspetto sostanziale più che a quello letterale e formale della rubrica e quindi prescindendo dalla inidoneità della formulazione, ostandovi l’evidente prospettiva della novella, introdotta dal Legislatore proprio al fine di ridurre l’area del sindacato di legittimità sui “fatti”, escludendo in radice la deducibilità di vizi della logica argomentazione (illogicità o contraddittorietà), che non si traducano nella totale incomprensibilità dell’argomentare.
In buona sostanza, ciò che rileva, in base alla nuova previsione, è solo l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, cioè la pretermissione di quei dati materiali, già acquisiti e dibattuti nel processo, aventi portata idonea a determinare direttamente un diverso esito del giudizio. I limiti di censura, connessi al nuovo testo dell’art.360 n.5 cpc, risultano, peraltro, fissati da questa Corte che, in recenti pronunce ha avuto modo di fissare il principio, secondo cui “La riformulazione dell’art. 360 n. 5 cpc, deve essere interpretata come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Il nuovo testo dell’art. 360 n. 5 cpc, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. SS.UU. n. 19881/2014 n. 8053/2014, n. 11025/2014).
Alla stregua delle precedenti considerazioni, le censure con le quali vengono denunciate carenze motivazionali della decisione in esame, vanno dichiarate inammissibili.
Rileva, altresì, il Collegio che l’impugnata sentenza, ha preso in considerazione, esaminandoli e valutandoli, quegli elementi (espressioni utilizzate dall’avvocato G. nella lettera inviata all’avvocato S.), ritenuti rilevanti per la decisione del caso concreto ed all’esito, è pervenuta ad un decisum di segno opposto a quello prospettato dal ricorrente. Ciò ha fatto, ritenendo che le espressioni utilizzate nel contesto della citata lettera, sul piano deontologico erano a ritenersi rilevanti, stante che sia l’uso del termine “risibile”, sia pure l’affermazione “tentativo di stravolgere la situazione di fatto e di diritto”, possedevano una “valenza sicuramente offensiva e/o disdicevole”, lasciando intendere che all’avvocato S. veniva attribuito “un maldestro comportamento di palese scorrettezza deputato a paralizzare con una postuma iniziativa di carattere stragiudiziale”, l’intrapreso procedimento di sfratto, avviato dall’avvocato G. nei confronti del cliente dell’avvocato S. .
Rileva, ancora, il Collegio che, per consolidato orientamento della Corte (Cass. SS.UU. n.27689/2005, 27172/2006, n. 8615/2009, n.28813/2011), anche alla stregua del pregresso orientamento giurisprudenziale, in tema di procedimento disciplinare, alle Sezioni Unite della S.C. non sarebbe stato possibile sindacare, sul piano del merito, le valutazioni del giudice disciplinare, dovendo la Corte medesima limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità’, sulla adeguatezza e sulla assenza di vizi logici della motivazione che sorregge la decisione finale. Le prospettate doglianze, peraltro generiche, non possono, quindi, trovare utile ingresso, concernendo elementi che il Giudice di merito, nel proprio percorso decisionale potrebbe avere diversamente valutato, ovvero non avrebbe considerato, perché ritenute, anche implicitamente, recessive e/o ininfluenti, rispetto agli elementi probatori, invece, positivamente individuati, ritenuti decisivi ed utilizzati ai fini decisori.
Ha dedotto il ricorrente che, nel caso, i Giudici di appello, in violazione dell’art. 111 della Costituzione, non avrebbero assolto l’onere motivazionale, in relazione alla mancata ammissione della chiesta prova testimoniale, omettendo l’acquisizione e la valutazione di elementi rilevanti e decisivi a fini decisori, ma non ha indicato il medesimo ricorrente le circostanze fattuali ed i concreti elementi pretermessi, la cui acquisizione avrebbe determinato un diverso esito del giudizio e, nemmeno, ha operato la indispensabile valutazione comparativa con gli elementi valorizzati dal CNF e posti a base della decisione impugnata, al fine di coglierne la prevalenza e l’indispensabile decisività.
Nel caso, dunque, non solo la motivazione esiste e risulta congrua ma, oltretutto, il ricorrente, con i vari profili di censura, pur denunciando formalmente il difetto di motivazione ex art. 111 Costituzione, – il quale al VI comma prescrive che “Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”, – in buona sostanza, non svolge argomentazioni critiche idonee ad incrinare il tessuto argomentativo dell’impugnata sentenza, limitandosi a prospettare, genericamente, un abusivo esercizio del potere discrezionale del CNF nella mancata ammissione della prova testimoniale, per avere rigettato, immotivatamente, la richiesta dei mezzi istruttori.
Rileva, ancora, il Collegio che la decisione impugnata ha, argomentatamente, disatteso le doglianze formulate dall’odierno ricorrente, opinando, condivisibilmente, che la fondatezza dell’addebito trovava riscontro probatorio in atti, segnatamente, nella “prova documentale” e nella “lettera posta a base dell’esposto” (pag. 9 terz’ultimo rigo sentenza) e che ciò determinava “l’assoluta irrilevanza ed ininfluenza della prova testimoniale”, peraltro, genericamente richiesta e su circostanze prive di interesse ai fini del giudizio.
Con il ricorso per Cassazione, l’Avvocato G. ha, pure, dedotto che il fatto addebitato non sarebbe più previsto come illecito disciplinare dal codice deontologico, entrato in vigore nelle more del giudizio, vigente ed applicabile, per espressa previsione di legge, anche alla fattispecie. Si deduce che l’art. 22 del previgente codice deontologico, sulla cui base è stato formulato l’addebito ed irrogata la sanzione, sarebbe stato soppresso dall’art. 65 u.i. del nuovo codice deontologico, approvato con Legge n.247/2012, contenente l’esplicita previsione di applicazione “anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevole per l’incolpato”.
Rileva, al riguardo, il Collegio che la normativa sopravvenuta, giusta previsione del comma 5, dell’art.65 della Legge n. 247 del 31 dicembre 2012, ha rimandato all’entrata in vigore dell’emanando codice deontologico, la cessazione di efficacia delle norme previgenti, prevedendone, espressamente, l’applicabilità anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, “se più favorevoli per l’incolpato”.
Rileva, altresì, che il detto codice deontologico è stato approvato in data 31.01.2014, pubblicato nella G.U. n.241 del 16.10.2014 ed entrato in vigore il 15 dicembre 2014.
Ciò stante, nel caso, stante l’espressa previsione, contenuta nella richiamata disposizione di legge (Cass. SS.UU. n.15120/2013), di applicazione delle disposizioni, ove più favorevoli per l’incolpato, del nuovo codice deontologico, ai procedimenti disciplinari in corso alla data della sua entrata in vigore, contenuta nell’art.65 precitato, non è dubbio che occorre indagare nella normativa sopravvenuta, al fine di verificare se la stessa abbia introdotto disposizioni, che, come dedotto dal ricorrente, abbiano escluso la rilevanza disciplinare della condotta addebitata, o che risultino, comunque, “più favorevoli per l’incolpato”.
L’indagine conferma la rilevanza disciplinare della fattispecie, anche alla stregua del nuovo codice deontologico e, segnatamente, del combinato disposto degli artt. 19, 20 e 42.
Le citate disposizioni, infatti, dopo avere disposto (art. 19), che “L’avvocato deve mantenere nei confronti dei colleghi e delle istituzioni forensi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà” ed avere precisato (art.20) che la violazione di tale dovere costituisce illecito disciplinare perseguibile nelle ipotesi previste nei titoli II, III, IV e V, all’art. 42 del titolo III citato, ha espressamente previsto, al comma 1 che “L’avvocato non deve esprimere apprezzamenti denigratori sull’attività professionale di un collega” e sancito, al comma 3, che “La violazione del dovere dei divieti di cui ai precedenti commi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento”.
Risultando, dunque, la fattispecie disciplinarmente rilevante e sanzionata con l’avvertimento, sia alla stregua della normativa previgente sia pure di quella sopravvenuta ed in atto in vigore, la richiesta applicazione dello ius superveniens, va disattesa.
Conclusivamente, il ricorso va rigettato.
Nulla va disposto per le spese del giudizio, in assenza dei relativi presupposti.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del dpr n.115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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