CASSAZIONE

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 15 maggio 2015, n. 20314

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 6 dicembre 2012, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Torino dei 4 aprile 2011 appellata dal pubblico ministero e dall’imputato, la Corte d’appello di Torino ha riconosciuto a M.G. il beneficio della non menzione, confermando nel resto la condanna del medesimo alla pena di un anno di reclusione, con sospensione condizionale della pena, per il reato ex art. 373 cod. pen. di cui al capo 3) (riqualificata in detti termini, già dal primo giudice, l’originaria contestazione ex artt. 110, 117 e 479 cod. pen.), fatto commesso il 13 aprile ed il 20 luglio 2005.

A sostegno di tali conclusioni, la Corte territoriale ha evidenziato:

– che la riqualificazione del fatto operata dal primo giudice ai sensi dell’art. 373 cod. pen. (commesso con asseverazione della perizia in data 10 giugno 2005) è corretta in virtù dell’espresso richiamo a detta norma contenuto negli artt. 2465 e 2343, comma 2, cod. civ.;

– che la fattispecie di cui all’art. 373 cod. pen. è da ritenere speciale rispetto a quella prevista dall’art. 479 cod. pen.;

– che M.G. – quale revisore perito estimatore e soggetto estraneo sia ai trasferimento a P.G. delle quote della Ediltava S.a.s., sia all’atto con cui detta società veniva trasformata in S.r.l. – ha formato un atto ideologicamente falso sotto un duplice profilo, in quanto compiuto da un soggetto diverso dall’imputato previa istruttoria svolta da altri nonché ideologicamente falso nel contenuto, dal momento che il valore attribuito alla società (pari a 30.000 euro) costituiva il frutto, non di un’attività ricognitiva e valutativa compiuta dal perito, bensì di una deliberazione assunta a tavolino da altri (segnatamente da P.G:, D.I.e C.F.), sulla base di un valore predeterminato e coincidente con il prezzo di cessione delle quote della società, già indicato nella relazione redatta da P. nel 2004, relativa alla stima della società ‘Sirco di R.L.C.’, e come ammesso da P. stesso;

– che tale ricostruzione dei fatti è stata, nella sostanza, confermata dallo stesso M.G. nelle dichiarazioni spontanee al pubblico ministero in data 26 ottobre 2009 – allorché ha affermato di essersi limitato a leggere superficialmente la perizia di stima, che riteneva essere destinata a risolvere problematiche di natura fiscale dei suoi clienti, ed a sottoscriverla, fidandosi della serietà professionale nel P. -, versione ribadita nell’interrogatorio del 13 aprile 2010 e poi parzialmente modificata nell’interrogatorio nel corso dei giudizio abbreviato, nel tentativo – stimato dalla Corte territoriale vano – di ridimensionare le prime dichiarazioni ammissive;

– che non ricorrono i presupposti per riqualificare il reato ai sensi dell’art. 64, comma 2, cod. proc. civ., atteso che nella specie non sono ravvisabili i presupposti della colpa grave, avendo M. affermato, contrariamente al vero, di avere svolto attività ricognitive e valutative mai compiute e di aver redatto un elaborato in realtà proveniente dal P., con una condotta evidentemente sostenuta da dolo diretto.

Avverso il provvedimento ha presentato ricorso l’Avv. Maria Grazia Cavallo, difensore di fiducia di M.G., e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi.

2.1. Violazione di legge penale in relazione agli artt. 125, comma 3, 533, 545 e 546, comma 1 lett. e) cod. proc. pen. e

2.2. vizio di motivazione, riferiti:

– agli artt. 373, 479 e 49, comma 2, cod. pen., – agli artt. 373, 479 e 15 cod. pen.,

– agli artt. 373 e 479 cod. pen., in relazione al divieto di analogia in malam partem,

– agli artt. 13, 25, comma 2, e 27, comma 2, Cost. – agli artt. 530 e 533 cod. proc. pen.,

– all’art. 117 cod. pen.,

– agli artt. 2500, 2500-ter, 2343, 2463, 2465 cod. civ. e 64 cod. proc. civ. Rileva il ricorrente che, ai fini della trasformazione di una società di persone in una società di capitali, è sufficiente che il valore dei capitale sociale della società trasformanda sia superiore a 10.000 euro, di tal che la perizia di stima prevista dall’art. 2500-ter cod. civ. ha il mero scopo di attestare l’esistenza di tale capitale sociale minimo. Nella specie, nella perizia asseverata davanti al notaio, M. si è attenuto a criteri prudenziali ed ha stimato il valore netto della società trasformanda come non inferiore a 30.000 euro, sicché in tale parte la perizia asseverata deve ritenersi vera. Sotto diverso profilo, il ricorrente evidenzia come il falso sia in ogni caso da ritenere innocuo e rifluente nel reato impossibile in quanto privo di offensività, dal momento che la perizia ex art. 2500-ter cod. civ. funzionale alla trasformazione sociale non ha valenza probatoria nella parte mendace, che è limitata al minimum del capitale sociale che consente la trasformazione da società di persone in società a responsabilità limitata, cioè 10.000 euro. In subordine, il ricorrente evidenzia come, nel caso in oggetto, sia comunque ravvisabile la fattispecie prevista dall’art. 64 cod. proc. civ., e non quella ritenuta in sentenza in forza di un’applicazione secondo analogia in malam partem, in quanto, dal combinato disposto degli artt. 2500­ter, 2343, comma 2, 2465 cod. civ. e 64 cod. proc. civ., si evince che in caso di perizia infedele deve trovare applicazione quest’ultima disposizione, mentre la responsabilità prevista per il perito nominato dall’autorità giudiziaria è applicabile all’esperto estimatore richiesto dall’art. 2500-ter cod. civ. soltanto nel caso in cui la società di persone si trasformi in S.p.A. o S.a.p.A., atteso che, solo in tali casi, è prevista la nomina da parte dell’autorità giudiziaria, elemento fondante la responsabilità ai sensi dell’art. 373 cod. pen.

2.3. Intervenuta estinzione del reato per prescrizione, essendo il fatto stato commesso in data 10 giugno 2005.

2.4. Nei motivi nuovi di ricorso ad integrazione depositati in data 12 febbraio 2015, il ricorrente eccepisce la violazione di legge penale in relazione agli artt. 125, comma 3, 533, 545 e 546, comma 1 lett. e) cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione, riferiti:

– agli artt. 373, 479, 49, 62, 69, 133 cod. pen., – agli artt. 530 e 533 cod. proc. pen.,

– agli artt. 2500, 2500-ter, 2343, 2463, 2465 cod. civ. e 64 cod. proc. civ. in relazione al difetto dell’elemento soggettivo, atteso che, da un lato, M. ha ammesso di avere firmato la perizia disposta da altri, dall’altro lato, P. ha dichiarato essere dispiaciuto di avere coinvolto l’imputato, il quale aveva fatto affidamento sull’amico, sicchè nella specie non si può parlare di dolo, ma semmai di colpa.

2.5. Violazione di legge penale in relazione agli artt. 125, comma 3, 533, 545 e 546, comma 1 lett. e) cod. proc. pen. e vizio di motivazione, per avere la Corte travisato il contenuto di diversi elementi probatori, quali: le dichiarazioni spontanee e l’interrogatorio di M., le memorie prodotte ai sensi dell’art. 121 cod. proc. pen. il 27 ottobre 2009 e 13 aprile 2010, gli interrogatori di P. ed il confronto fra M., P. e Ceraolo.

In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile. L’Avv. Maria Grazia Cavallo, per M.G., ha insistito per l’accoglimento dei ricorso e, quindi, in via subordinata, per la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

 Considerato in diritto

II ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Sotto un primo profilo, mette conto evidenziare come tutti i motivi di ricorso si risolvano nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e non si confrontino con le puntuali risposte fornite dalla Corte territoriale in merito alle specifiche doglianze mosse nell’atto d’appello. Già questo basterebbe a dichiarare l’inammissibilità del ricorso per difetto di specificità, laddove, secondo i consolidati principi espressi da questa Corte di legittimità, i motivi costituenti mera replica di quelli già dedotti in appello risultano soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Cass. Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arpone e altri, Rv. 243838).

Ad ogni buon conto, le doglianze mosse dal ricorrente si palesano manifestamente infondate.

In linea generale, non può non rilevarsi come la Corte territoriale, nel confermare la condanna di primo grado, abbia esplicitato le ragioni per le quali nella specie si debba ritenere integrata nei confronti dell’imputato la fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 373 cod. pen., con argomentazioni adeguate e congrue, perché aderenti alle risultanze delle prove assunte nell’istruttoria dibattimentale nonchè conformi a logica e diritto, in quanto tali insindacabili in questa Sede.

Quanto al primo motivo, all’evidenza privi di fondamento risultano gli eccepiti violazione di legge e vizio di motivazione in merito alla qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 373 cod. pen.

4.1. Sotto un primo aspetto, va posto in luce come la fattispecie di falsa perizia sia stata condivisibilmente ritenuta dai giudici di merito speciale rispetto a quella di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico. Muovono in tal senso: a) lo specifico bene giuridico tutelato dal reato ex art. 373 cod. pen., che viene tradizionalmente individuato nella sincerità e nella completezza delle prestazioni cui sono tenuti il perito e l’interprete al fine di garantire il buon funzionamento dell’attività giudiziaria; b) la precisa qualifica del soggetto attivo – íd est il perito, l’interprete ovvero i soggetti ad essi equiparati dalla legge, come appunto il consulente giurato ex art. 2500-ter cod. civ. (sul punto si veda anche oltre) -; c) la particolare connotazione delle modalità attuative della falsità ideologica in senso lato commessa da tali ausiliari del giudice, che si realizza – per il perito e dunque anche per il consulente – nel dare pareri mendaci ovvero nell’affermare fatti non conformi al vero. Elementi tutti che contraddistinguono il delitto previsto e punito dall’art. 373 cod. pen. per requisiti propri e caratteristici, che assolvono appunto ad una funzione specializzante rispetto alla più ampia cornice della fattispecie incriminatrice dell’art. 479 cod. pen.

4.2. Manifestamente infondata è anche la deduzione secondo la quale la sussunzione del caso de quo nella fattispecie di cui all’art. 373 cod. pen. si traduce in un’applicazione analogica in malam partem, non consentita in ambito penale.

Ed invero, l’applicazione della indicata norma non costituisce il frutto di una non consentita operazione ermeneutica dei decidenti di merito, ma discende dalla piana lettura del dato normativo ed, in particolare, dai rinvii espressi contenuti negli artt. 2500-ter, comma 2, 2465, comma 3, 2343, comma 2, del codice civile e nell’art. 64 del codice di procedura civile.

Ricostruendo l’iter tracciato dai plurimi rimandi contenuti nelle disposizioni sopra ricordate, va evidenziato che l’art. 2500-ter, comma 2, cod. civ. (Trasformazione di società di persone) prevede che, ai fini della trasformazione di una società di persone in società di capitali, ‘il capitale della società risultante dalla trasformazione deve essere determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo e deve risultare da relazione di stima redatta a norma (dell’art. 2343 o,) nel caso di società a responsabilità limitata, dell’art. 2465’. L’art. 2465, comma 1, cod. civ. (Stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti, dispone che ‘Chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare la relazione giurata di un revisore legale o di una società di revisione legali iscritti nell’apposito registro. La relazione, che deve contenere la descrizione dei beni o crediti conferiti, l’indicazione dei criteri di valutazione adottati e l’attestazione che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale soprapprezzo, deve essere allegata all’atto costitutivo’ ed, al comma 3, dispone ‘Nei casi previsti dai precedenti commi si applicano il secondo comma dell’art. 2343 ed il quarto e quinto comma dell’art. 2343-bis’. Il richiamato art. art. 2343 (Stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti), al comma 2, dispone che ‘L’esperto risponde dei danni causati alla società, ai soci e ai terzi. Si applicano le disposizioni dell’art. 64 del codice di procedura civile’, norma – quest’ultima – che appunto recita che ‘Si applicano al consulente tecnico le disposizioni del cod. pen. relative ai periti’, fra queste pacificamente inclusa anche quella contenuta nell’art. 373 cod. pen. in tema di falsa perizia o interpretazione.

Erra dunque il ricorrente nell’addebitare alla Corte territoriale – che pure ha svolto considerazioni in tutto conformi al quadro normativo sopra delineato – una violazione di legge laddove ha ritenuto applicabile l’art. 373 cod. pen. nonostante la mancanza di una formale nomina del consulente tecnico da parte dell’autorità giudiziaria, risultando detta fattispecie incriminatrice ravvisabile – si ribadisce – a prescindere dalla nomina del consulente tecnico da parte del giudice, in virtù di una precisa volontà legislativa, espressa nel percorso tracciato dagli espliciti rinvii normativi sopra ricordati.

4.3. Del tutto immune da vizi di logica come da errori di diritto è la motivazione del provvedimento in verifica nella parte in cui si è esclusa la ricorrenza dei presupposti del cosiddetto falso innocuo.

Assume il ricorrente che la falsità commessa da M. nella stima del capitale sociale è penalmente inoffensiva in quanto la consulenza richiesta dall’art. 2500-ter cod. civ. ai fini della trasformazione sociale ha una rilevanza probatoria limitata alla stima del valore del capitale sociale non inferiore a 10.000 euro, costituente soglia minima per la trasformazione societaria stessa. Ne discende che l’avere l’imputato asseverato il valore dei capitale della società (in 30.000 euro) per difetto rispetto al valore reale non può ritenersi lesivo dell’interesse protetto dall’art. 2500-ter e presidiato dall’incriminazione in oggetto, in quanto esso si limita a garantire che la trasformazione societaria avvenga in presenza dei requisiti di legge (e segnatamente quello concernente il valore non inferiore a 10.000 euro del capitale sociale), di tal che detto bene non risulta offeso qualora il valore reale del capitale – seppure attestato in misura inferiore al vero – sia in effetti superiore a detta soglia.

La tesi è suggestiva ma palesemente illogica ed errata in diritto.

Giova in primo luogo precisare che – contrariamente all’assunto difensivo – M., asseverando innanzi al notaio la consulenza in effetti stilata da altri e senza compiere alcuna istruttoria allo scopo di accertare il valore reale del capitale, non si è limitato ad attestare che il capitale aveva un valore ‘non inferiore a 10.000 euro’ – che appunto costituisce il minimum per la trasformazione sociale -, ma ha attestato che il capitale della società aveva un valore di 30.000 euro, quando esso era in effetti di gran lunga superiore.

Ciò premesso, come si è già evidenziato nel ripercorrere il quadro normativo di riferimento, ai fini della trasformazione della società di persone in una società di capitale, il legislatore ha richiesto che il valore del capitale della società risultante dalla trasformazione sia ‘determinato sulla base dei valori attuali degli elementi dell’attivo e del passivo’ e sia accertato con una relazione di stima giurata. Secondo il limpido dettato normativo, la relazione di stima è volta ad accertare l’attuale ed effettivo valore delle attività e passività dell’azienda e deve essere stilata seguendo una specifica procedura – appunto giurata -, segnatamente mediante asseverazione da parte dell’esperto, dinanzi al Cancelliere di un ufficio giudiziario ovvero dinanzi ad un notaio (come appunto nel caso di specie), della veridicità del contenuto dell’elaborato recante in calce la formula del giuramento di ‘aver bene e fedelmente adempiuto all’incarico affidatogli al solo scopo di far conoscere la verità’. Con tale giuramento il professionista dichiara formalmente davanti al pubblico ufficiale di avere assolto all’incarico valutativo con scienza e coscienza e garantisce la piena fedeltà al vero dell’elaborazione, assoggettandosi alle conseguenze di legge in caso di consulenza infedele.

Risulta pertanto evidente come il falso ideologico commesso dal consulente nella valutazione del capitale aziendale non possa ritenersi innocuo laddove l’infedeltà rappresentativa concerna, non aspetti marginali e secondari dell’accertamento richiesto, bensì proprio il fulcro dell’attività valutativa, avente quale specifico oggetto la stima dei patrimonio sociale. Opinando come suggerisce il ricorrente, si dovrebbe ritenere che qualunque relazione giurata che sottostimi in modo artatamente falso il reale valore del capitale, a condizione che il valore reale ed effettivo del capitale sia di almeno diecimila euro, debba ritenersi innocua, con ciò vanificando il contenuto fideifacente dell’atto che si connette espressamente alla stima degli elementi attivi e passivi della società.

Il ricorrente incorre dunque in un evidente strabismo logico-giuridico laddove confonde il bene tutelato dalla fattispecie incriminatrice ad avere perizie e consulenze giurate affidabili così da non pregiudicare il corretto esercizio dell’amministrazione della giustizia e l’affidamento della collettività nell’attendibilità dei relativi accertamenti e giudizi, con il valore minimo del capitale richiesto per la trasformazione societaria, che non costituisce all’evidenza il bene giuridico tutelato dalla norma. La circostanza che la trasformazione di una società di persone in una società di capitali presupponga che il capitale sociale abbia un valore superiore all’indicato limite, non rende irrilevante la stima inveritiera del capitale aziendale che sia in effetti superiore a detta soglia minima, in quanto il risultato di tale stima è destinato a cristallizzarsi nell’atto di trasformazione e su di esso può fare affidamento la generalità dei consociati, in particolare coloro i quali sono destinati ad interfacciarsi con ‘nuova’ realtà imprenditoriale (soci, fornitori, investitori e istituti di credito).

4.4. Per il resto, la Corte territoriale ha bene argomentato la sussistenza dei presupposti del falso ideologico laddove ha evidenziato che M. ha compiuto un atto ideologicamente falso sotto un duplice profilo, sia perché formato da un soggetto diverso dal consulente e sulla base di un’istruttoria compiuta da altri; sia perché ideologicamente falso nel contenuto, dal momento che il valore attribuito alla società (pari a 30.000 euro) costituiva il frutto, non di un’attività ricognitiva e valutativa compiuta dal perito, bensì di una determinazione assunta a tavolino da altri (P.G., D.I. e C.F.), sulla base di un valore predeterminato e coincidente con il prezzo di cessione delle quote della società, e non rispondente al vero.

Altrettanto palese è l’infondatezza del motivo concernente la dedotta insussistenza del dolo.

Ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 373 cod. pen. è invero richiesto il dolo generico in termini di coscienza e volontà di non di formare un atto valutativo in termini non aderenti al vero, elemento soggettivo che non pare seriamente revocabile in dubbio laddove M. ha ammesso di avere firmato la perizia disposta da altri all’esito di un’attività istruttoria e valutativa dal medesimo non eseguita, con ciò confessando di avere consapevolmente voluto formare un atto ideologicamente falso quanto a provenienza e contenuto.

Il quinto motivo è inammissibile in quanto si sviluppa solo sul piano del merito, laddove il ricorrente si duole della valutazione compiuta dai decidenti di merito delle risultanze probatorie raccolte nella istruttoria dibattimentale e dunque ne sollecita una diversa lettura. Esula, infatti, dai poteri della Corte di legittimità quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata, in via esclusiva, al giudice di merito, senza che possa integrare un vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa – e per il ricorrente più adeguata – valutazione delle risultanze processuali (ex plurimis Cass. Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 2, n. 23419 del 23/05/2007, Rv. 236893).

A fronte della plausibile ricostruzione della vicenda, come descritta in narrativa, e dei precisi riferimenti probatori operati dal giudice di merito, in questa Sede non è ammessa alcuna incursione nelle risultanze processuali per giungere a diverse ipotesi ricostruttive dei fatti, dovendosi la Corte di legittimità limitare a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal giudice di merito per verificarne la completezza e l’insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (ex plurimis Cass. Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

Stante l’inammissibilità del ricorso, non v’è materia per la dedotta estinzione del reato per prescrizione.

Dalla declaratoria di inammissibilità dei ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al pagamento della somma a favore della Cassa della Ammende, che si ritiene congruo fissare nella misura di 1000 euro.

 

 P.Q.M.

 dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000 in favore della Cassa delle Ammende.

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