SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I
SENTENZA 23 aprile 2015, n. 16991
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 27 novembre 2012 il Tribunale di Civitavecchia ha dichiarato P.A.C. responsabile del reato di tentato omicidio in danno di D.M. , che aveva attinto più volte all’addome e al torace con un coltello, provocandogli ferite multiple da punta e taglio, con compromissione delle funzioni vitali e successiva sottoposizione a intervento chirurgico (capo A), e del reato di porto ingiustificato di coltello (capo B), unificati per continuazione, e l’aveva condannato alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione, previa concessione delle attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. in ragione della somma offerta a titolo di risarcimento dei danni, accettata dalla persona offesa.
2. La Corte di appello di Roma, con sentenza del 9 luglio 2013, in parziale riforma della sentenza di primo grado, che ha confermato nel resto, ha concesso all’imputato anche l’attenuante della provocazione di cui all’art. 62 n. 2 cod. pen., rideterminando la pena in anni tre e mesi uno di reclusione e modificando il carico delle pene accessorie.
3. Il fatto, commesso il 4 aprile 2012 in Cerveteri, era stato ricostruito, nei termini di cui alla imputazione, dal primo Giudice, e riscontrato dalla Corte di merito, sulla scorta degli apporti dichiarativi di D.M. , persona offesa, che aveva riferito di essersi trovato la sera del fatto in una strada di Cerveteri insieme all’imputato, con il quale avevano bevuto birra; un litigio, correlato a uno schiaffo che l’imputato gli aveva rinfacciato di avere ricevuto anni prima, era degenerato; egli aveva dato uno schiaffo all’imputato, che aveva estratto un coltello dalla tasca colpendolo almeno tre volte e dandosi alla fuga; egli lo aveva, quindi, seguito, accorgendosi di essere stato accoltellato solo quando aveva sentito “il caldo” sul lato sinistro e il sangue che iniziava a scorrere, e si era fermato, poiché non riusciva più a camminare, vicino a un’autovettura, dove era stato soccorso da B.F. , da lui invitato ad avvertire i Carabinieri dicendo loro di essere andato al pronto soccorso.
3.1. Secondo la Corte di merito, tale ricostruzione dell’accaduto non era smentita dalle dichiarazioni dei testi B.F. e V.A. , poiché detti testi avevano confermato il litigio iniziale tra l’imputato e la persona offesa, l’inseguimento del primo da parte della seconda e di altri, l’intervento di B. presso la persona offesa ferita, che era appoggiata a un’autovettura, mentre l’imputato scappava.
Tali testimonianze erano ritenute dimostrative della infondatezza dell’assunto difensivo, alla cui stregua l’imputato aveva colpito per difendersi la persona offesa che lo aveva inseguito e raggiunto contrariamente a quanto dichiarato dalla stessa senza essere smentito dai testi, richiamati dall’imputato appellante, e sulla base della considerazione logica che la persona offesa, le cui dichiarazioni erano apparse come volte a ridimensionare l’accaduto, non avrebbe avuto motivo di negare di essere stata accoltellata dopo l’inseguimento dell’imputato da parte sua.
Né era risultato che quest’ultimo, come da lui dichiarato, aveva chiamato i Carabinieri, né, secondo la Corte, era inverosimile che delle ferite occorsele la persona offesa si fosse accorta solo in un secondo momento.
3.2. Il fatto era qualificato in termini di tentato omicidio, avendo riguardo all’arma da taglio usata, alle modalità del suo utilizzo tali da rendere profonda la penetrazione nell’addome e perforare l’ansa intestinale, alla reiterazione dei colpi che avevano riguardato anche la schiena, e alla sede delle lesioni, e tenuto conto dell’atteggiarsi della volontà omicida, così espressa, quale dolo alternativo per l’indifferenza rispetto a essa del ferimento o della morte della vittima.
Anche la prospettata ricorrenza delle esimenti della legittima difesa, dello stato di necessità e dell’eccesso colposo era valutata negativamente, poiché l’imputato, che non aveva riportato alcuna lesione, avrebbe potuto allontanarsi senza dover ricorrere all’accoltellamento della disarmata persona offesa, la cui condotta era invece valutata al fine della concessione dell’attenuante della provocazione.
3.3. Mancava, quanto al reato di cui al capo B), la prova della legittimità del porto del coltello in relazione al lavoro di giardiniere svolto dall’imputato, considerata anche l’ora tarda del fatto. Né poteva qualificarsi di lieve entità il porto di un coltello effettivamente usato per il tentato omicidio pure ascritto.
4. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per mezzo del suo difensore avv. Sandro Lungarini, chiedendone l’annullamento sulla base di tre motivi, alla cui illustrazione ha fatto precedere la diffusa descrizione delle censure mosse con i motivi di appello e delle ragioni della decisione.
4.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), ed e), cod. proc. pen., violazione e/o erronea applicazione dell’art. 4, comma 3, legge n. 110 del 1975 e dell’art. 80 del relativo regolamento, e mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione.
Secondo il ricorrente, la Corte di appello non ha considerato, omettendo di motivare al riguardo, che l’oggetto utilizzato era uno strumento c.d. multiuso, che egli, incensurato, utilizzava per il suo lavoro di giardiniere e per altro fine “corretto e tranquillo” secondo la sua destinazione, come l’apertura delle bottiglie, senza essere predestinato all’offesa della persona, con conseguente erronea, contraddittoria e illogica esclusione della legittimità del suo porto e dell’attenuante di cui all’art. 4, comma 3, legge n.110 del 1975.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), ed e), cod. proc. pen., inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 575-582 cod. pen. e 52, 54 e 55 cod. pen. e contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione, e, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., violazione degli artt. 431, 493 n. 3, 495 n. 4, 496 e segg. cod. proc. pen..
Secondo il ricorrente, la Corte, dando rilievo a riferimenti valutativi di un teste, ammesso solo a fini oggettivi, non ha considerato le risultanze documentali afferenti alle lesioni patite dalla persona offesa, che né avevano comportato un suo ricovero di emergenza né l’avevano esposta a rischi gravi, né avevano evidenziato finalità omicide, con conseguente necessaria diversa qualificazione come lesioni personali del fatto contestato al capo A quale tentato omicidio.
La motivazione resa è inoltre del tutto viziata, poiché, ad avviso del ricorrente, la Corte di appello non ha tenuto conto che egli, già in precedenza, era stato picchiato ingiustamente e che, nella specie, vi erano altre persone che volevano prenderlo, ed egli si è difeso con l’arnese multiuso personale quando è stato preso e picchiato di nuovo, né ha considerato, nella valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, che alla stessa, che aveva riferito di non essersi neppure accorta del suo ferimento, è stato contestato di non avere detto di avere inferto il primo colpo. Né si è considerato che i testi B. e V. non hanno riferito in merito a coltellate, hanno parlato del suo inseguimento da parte della persona offesa e di altri tre o quattro ragazzi, e, senza null’altro vedere entrambi, il teste B. ha precisato di avere visto la persona offesa ferita appoggiata a un’autovettura.
Tali emergenze probatorie rendono chiara, secondo il ricorrente, l’erroneità dell’affermazione della Corte di appello che la persona offesa non sia riuscita a raggiungerlo, dovendo invece ritenersi che il colpo qualificato come più violento, da nessuno visto e del quale neppure si è accorta la persona offesa, sia stato certamente inferto dopo l’inseguimento posto in essere dalla stessa insieme ad altri.
In tal modo, le esimenti invocate erano sussistenti, dovendo in particolare ravvisarsi la sua reazione legittima in presenza del pericolo attuale di un’aggressione ingiusta e della rappresentazione di una punizione grave che stava per essergli data.
4.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), e) ed e), cod. proc. pen., violazione dell’art. 597 n. 3 cod. proc. pen. e mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione, in dipendenza dell’operata reformatio in peius in presenza del suo solo appello.
Il Tribunale era partito dalla pena base di anni ventuno, ridotta di quasi un terzo fino a quindici anni per l’avvenuto risarcimento del danno, di un terzo fino a dieci anni per le attenuanti generiche e di due terzi fino ad anni tre e mesi quattro per il tentativo, poi aumentata di mesi due a titolo di continuazione.
La Corte di appello, invece, partendo dalla pena base per il tentativo di anni sette e mesi sei di reclusione, ha aggravato la pena base rispetto a quella determinata con “scaletta diversa” dal primo Giudice, e, riducendo di un terzo la pena per l’attenuante del risarcimento e per le attenuanti generiche, ha ridotto la pena così determinata di soli quattro mesi per l’attenuante della provocazione.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo, che attiene alla contestata sussistenza della contravvenzione di cui all’art. 4 legge n. 110 del 1975 per la opposta legittimità del porto dello strumento c.d. multiuso, è infondato.
1.1. Si osserva in diritto che, a norma dell’art. 704 cod. pen., “agli effetti delle disposizioni precedenti, per armi si intendono: 1) quelle indicate al n. 1 del capoverso dell’art. 585; 2) le bombe, qualsiasi macchina o involucro contenente materie esplodenti e i gas asfissianti o accecanti”.
Il contenuto di tale norma, integrato dal riferimento al richiamato n. 1 del capoverso dell’art. 585 cod. pen., alla cui stregua per armi si intendono “quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona”, corrisponde alla nozione di arma di cui all’art. 30 r.d. n. 773 del 1931 (T.U.L.P.S.), il cui regolamento r.d. n. 635 del 1940 precisa all’art. 45, che, per gli effetti dell’art. 30 della legge, sono considerati armi gli strumenti da punta e da taglio, la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona, come pugnali, stiletti e simili (comma 1), e che, agli stessi effetti, non sono invece considerati armi gli strumenti da punta e da taglio che, pur potendo, occasionalmente servire all’offesa, hanno una specifica e diversa destinazione, come gli strumenti da lavoro, quelli destinati a uso domestico, agricolo, scientifico, sportivo, industriale e simili (comma 2).
1.1.1. Questa Corte, in coerente lettura di tali disposizioni normative, ha più volte affermato che, in tema di reati concernenti le armi, per arma in senso proprio deve intendersi quella la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona, e che rientrano in tale categoria, secondo l’art. 30 T.U.L.P.S. e l’art. 45 comma primo, del relativo regolamento, sia le armi da sparo sia quelle cosiddette bianche, mentre (tra le altre, Sez. 1, n. 11687del 18/10/1982, dep. 06/12/1982, Pineda, n. 156531; Sez. 1, n. 7199 del 12/05/1994, dep. 17/06/1994, Sciortino, Rv. 199811) non sono da ritenersi armi, e non è quindi loro applicabile, in caso di detenzione o porto, la relativa disciplina, quegli strumenti, che, pur avendo una specifica diversa destinazione (domestica, agricola, scientifica, sportiva, industriale e simili), possono tuttavia servire occasionalmente all’offesa personale, ed essere ritenuti strumenti atti a offendere, secondo le indicazioni date dall’art. 4 legge n. 110 del 1975.
Delle armi proprie in genere è vietata la detenzione non previamente denunciata all’autorità di pubblica sicurezza (tra le altre, Sez. 1, n. 1629 del 12/12/1985, dep. 22/02/1986, Di Donato, Rv. 171969; Sez. 1, n. 7949 del 14/03/1985, dep. 08/08/1986, Vaporieri, Rv. 173483); delle armi improprie è vietato solo il porto (tra le altre, Sez. 1, n. 9971 del 24/09/1984, dep. 14/11/1984, Catavotello, Rv. 166648; Sez. 1, n. 8852 del 19/05/1993, dep. 28/09/1993, P.M. in proc. Casali, Rv. 197008), non anche la detenzione (tra le altre, Sez. 1, n. 3377 del 22/02/1995, dep. 28/03/1995, P.M. in proc. Scalmana, Rv. 200698).
1.1.2. Sotto concorrente profilo, si rileva, inoltre, che questa Corte ha, da tempo, anche affermato che, in tema di reati concernenti le armi, l’art. 80 del predetto regolamento n. 635 del 1940, che collegava la liceità del porto alle misure delle lame nei coltelli, forbici e strumenti da punta e taglio, era strumentale al secondo comma dell’art. 42 T.U.L.P.S., i cui primi due commi sono stati abrogati (trascinando con sé anche la norma regolamentare) dall’art. 4 legge n. 110 del 1975, che non pone più distinzione fondata sulla lunghezza delle lame e rende configurabile la contravvenzione per porto senza giustificato motivo di strumenti da punta e da taglio atti a offendere, a prescindere dalla lunghezza della lama (Sez. 1, n. 450 del 19/05/1993, dep. 14/07/1993, P.M. in proc. Arditi, Rv. 195503).
In forza di tale principio, costantemente richiamato dalla giurisprudenza successiva di legittimità, nella categoria degli strumenti da punta e da taglio atti a offendere, svincolata del tutto dall’elencazione contenuta nell’art. 80 citato, vanno compresi, oltre a armi “indirette” specificamente indicate, anche tutti quegli strumenti, anche di uso comune e privo di apparente idoneità all’offesa, che prima erano esclusi e il cui porto era in ogni caso consentito, prevedendo soltanto l’art. 4 l’accertamento in concreto della potenziale utilizzabilità dell’oggetto in rapporto alle sue caratteristiche, nelle circostanze spaziotemporali dell’azione, per l’offesa alla persona (tra le altre, Sez. 5, n. 4405 del 05/12/2008, dep. 02/02/2009, P.G. in proc. Ramaj, Rv. 242617; Sez. 5, n. 27768 del 15/04/2010, dep. 16/07/2010, P.G. in proc. Casco, Rv. 247888; Sez. 6, n. 46428 del 19/07/2011, dep. 17/11/2011, Di Gati, Rv. 250986; Sez. 5, n. 47504 del 24/09/2012, dep. 06/12/2012, P.G. in proc. Baciu, Rv. 254082; Sez. 5, n. 49517 del 21/11/2013, dep. 09/12/2013, P.M. in proc. R., Rv. 257758).
1.2. Nella specie, la Corte di appello ha rilevato, in coerente applicazione del quadro normativo vigente e dei principi che ne fissano l’interpretazione, che il dedotto porto legittimo del coltello è rimasto non provato, non essendo risultato che il ricorrente ne avesse necessità per il dedotto lavoro di giardiniere anche considerando che lo portava addosso in tarda serata, alla luce dell’operato intervento della pattuglia dei Carabinieri a seguito di richiesta delle ore 22.40.
Tali considerazioni, che hanno fondato la confermata integrazione del reato ascritto, esenti da vizi giuridici e congruenti ai dati fattuali ed esaustive, resistono alle prospettazioni del ricorrente, che, rappresentando il carattere multiuso dello strumento (contestato come non rinvenuto e del quale deduce di avere dato prova con la produzione del materiale fotografico) e il suo possibile uso “corretto e tranquillo” e astenendosi dal fornire alcuna giustificazione del suo possesso nel luogo e nell’ora oggetto di contestazione, oppone la legittimità del porto e, in vista di un diverso risultato in diritto, una richiesta di generica rilettura della vicenda e di riesame delle acquisizioni probatorie, non consentita in sede di legittimità.
1.3. Né ha alcuna fondatezza la doglianza che attiene al contestato diniego (1 dell’attenuante del caso di lieve entità, prevista dall’art. 4, comma 3, ultima parte, legge n. 110 del 1975.
1.3.1. Al fine della configurabilità di tale attenuante, che, per costante riaffermato orientamento di questa Corte (tra le altre Sez. 1, n. 37080 del 11/10/2011, dep. 14/10/2011, Scarcella, Rv. 250817; Sez. 1, n. 12915 del 01/03/2012, dep. 05/04/2012, P.G. in proc. Corso, Rv. 252272; Sez. 1, n. 46264 del 08/11/2012, dep. 28/11/2012, Visendi, Rv. 253968) si applica a tutte le armi improprie indicate nel detto art. 4, comma 2, deve tenersi conto delle modalità del fatto, e quindi anche dell’uso effettivo dello strumento per cagionare lesioni e della personalità del reo, che possono dare un particolare significato al fatto obiettivo del porto ingiustificato (tra le altre, Sez. 1, n. 12239 del 23/09/1986, dep. 30/10/1986, Santini, Rv. 174187; Sez. 1, n. 11156 del 12/11/1996, dep. 24/12/1996, Stuto, Rv. 206426; Sez. 5, n. 40396 del 03/07/2012, dep. 15/10/2012, P.G. in proc. Zanatta, Rv. 254554; Sez. 1, n. 26270 del 27/03/2013, dep. 17/06/2013, Pietrafesa, Rv. 255827) in una valutazione complessiva del fatto-reato, che rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e sfugge al sindacato di legittimità, se logicamente coerente e congrua (Sez. 1, n. 5435 del 20/03/1992 dep. 09/05/1992, P.G. in proc. Lavalle, Rv. 190312; Sez. 1, n. 1290 del 06/10/1993, dep. 04/02/1994, Capriota, Rv. 197240; Sez. 1, n. 7927 del 02/07/1997, dep. 19/08/1997, Martino, Rv. 208266).
1.3.2. Il difetto dei presupposti per l’applicabilità della chiesta attenuante è stato logicamente correlato nella specie alle modalità del fatto, essendovi stato l’uso effettivo del coltello nel tentato omicidio ascritto, mentre il ricorrente, contrapponendo il suo stato di incensuratezza e giustificando la condotta tenuta in replica a un’aggressione ingiusta, invoca una mera non consentita rivalutazione di merito.
2. Priva di alcun pregio è anche la censura sviluppata con il secondo motivo in ordine alla contestata qualificazione giuridica del fatto, ascritto al capo A), quale tentato omicidio, invece che in termini di lesioni volontarie, ed è specificamente riferita alla dedotta valorizzazione delle dichiarazioni del teste Di Nicola che ha operato la persona offesa, illegittimamente apprezzate nei suoi riferimenti valutativi, e alla omessa considerazione delle risultanze documentali relative alle lesioni patite dalla stessa, che non ne avevano comportato il ricovero di emergenza né rischi gravi, e non indicavano “finalità e rilievi omicidiari”.
2.1. Deve premettersi in diritto che, per aversi il reato tentato, l’art. 56 cod. pen. richiede la commissione di atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un reato. È, quindi, elemento strutturale oggettivo del tentativo, insieme alla direzione non equivoca degli atti, l’idoneità degli stessi, dovendosi intendere per tali quelli dotati di una effettiva e concreta potenzialità lesiva per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, alla luce di una valutazione prognostica compiuta ex post (e quindi postuma), con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare, che non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti (tra le altre, Sez. 1, n. 3185 del 10/02/2000, dep. 15/03/2000, Stabile, Rv. 215511; Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, dep. 21/10/2008, Di Salvo, Rv. 241339; Sez. 1, n. 32851 del 10/06/2013, dep. 29/07/2013, Ciancio Cateno, Rv. 256991), e quindi tenendosi conto con giudizio ex ante, nella prospettiva del bene protetto, delle circostanze in cui ha operato l’agente e delle modalità dell’azione (tra le altre, Sez. 6, n. 27323 del 20/05/2008, dep. 04/07/2008, P., Rv. 240736; Sez. 1, n. 19511 del 15/01/2010, dep. 24/05/2010, Basco e altri, Rv. 247197; Sez. 1, n. 27918 del 04/03/2010, dep. 19/07/2010, Resa e altri, Rv. 248305).
Questa Corte ha anche ripetutamente affermato che, al fine della qualificazione del fatto quale lesione personale o quale tentato omicidio, si deve aver riguardo al diverso atteggiamento psicologico dell’agente e alla diversa potenzialità dell’azione lesiva. Se nel primo reato la carica offensiva dell’azione si esaurisce nell’evento prodotto, nel secondo vi è un quid pluris che tende ed è idoneo a causare un evento più grave di quello realizzato in danno dello stesso bene giuridico o di uno superiore, riguardante lo stesso soggetto passivo, che non si realizza per ragioni estranee alla volontà dell’agente (tra le altre, Sez. 1, n. 1950 del 20/05/1987, dep. 15/02/1988, Incamicia, Rv. 177610; Sez. 1, n. 35174 del 23/06/2009, dep. 11/09/2009, M., Rv. 245204; Sez. 1, n. 37516 del 22/09/2010, dep. 20/10/2010, Bisotti, Rv. 248550).
Con riferimento particolare all’elemento psicologico del dolo, riguardo al reato di tentato omicidio, è costante l’orientamento alla cui stregua la figura di reato prevista dall’art. 56 cod. pen., che ha come suo presupposto il compimento di atti finalizzati (“diretti in modo non equivoco”) alla commissione di un delitto, non ricomprende quelle condotte rispetto alle quali un evento delittuoso si prospetta come accadimento possibile o probabile non preso in diretta considerazione dall’agente, che accetta il rischio del suo verificarsi (c.d. dolo eventuale) (tra le altre, Sez. 1, n. 5849 del 18/01/2006, dep. 15/02/2006, Taddei, Rv. 234069; Sez. 1, n. 44995 del 14/11/2007, dep. 04/12/2007, Strimaitis e altro, Rv. 238705; Sez. 1, n. 25114 del 31/03/2010, dep. 02/07/2010, Vismara, Rv. 247707; Sez. 6, n. 14342 del 20/03/2012, dep. 16/04/2012, R., Rv. 252565), ricomprendendo invece gli atti rispetto ai quali l’evento specificamente richiesto per la realizzazione della fattispecie delittuosa di riferimento si pone come inequivoco epilogo della direzione della condotta, accettato dall’agente che prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (c.d. dolo diretto alternativo), o specificamente voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale o perseguito come scopo finale (c.d. dolo diretto intenzionale) (tra le altre, Sez. U, n. 748 del 12/10/1993, dep. 25/01/1994, Cassata, Rv. 195804; Sez. 1, n. 10431 del 30/10/1997, dep. 17/11/1997, Angelini, Rv. 208932; Sez. 6, n. 8745 del 01/06/2000, dep. 02/08/2000, P.G. in proc. Spitella e altro, Rv. 217559; Sez. 1, n. 27620 del 24/05/2007, dep. 12/07/2007, Mastrovito, Rv. 237022; Sez. 1, n. 12594 del 29/01/2008, dep. 27/03/2008, Li e altri, Rv. 240275; Sez. 1, n. 11521 del 25/02/2009, dep. 16/03/2009, D’Alessandro, Rv. 243487).
È evidente che il giudice non può entrare nella psiche dell’uomo, al fine di valutare l’esistenza del dolo omicida e di verificare se l’evento sia stato escluso o sia stato visto dall’agente come possibile, come probabile o come certa conseguenza diretta della sua azione, e che deve, quindi, attenersi a una indagine sintomatica, e cioè agli elementi fattuali indicativi all’esterno della volontà omicida dell’agente.
La prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, deve essere, in particolare, desunta attraverso un procedimento inferenziale, analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario, da fatti esterni o certi, aventi un sicuro valore sintomatico, e in particolare da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei a esprimere il fine perseguito dall’agente secondo l’id quod plerumque accidit, quali esemplificativamente il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi (tra le altre, Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, citata; Sez. 1, n. 5029 del 16/12/2008, citata; Sez. 1, n. 37516 del 22/09/2010, citata; Sez. 1, n. 30466 del 07/07/2011, dep. 01/08/2011, Miletta e altro, Rv. 251014; Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, dep. 14/08/2013, Polisi, Rv. 257208).
2.2. La Corte di merito, in coerenza con tali condivisi principi, ha dato esaustivo conto, con argomentazioni sintetiche ma logicamente coordinate e con richiami non incongrui ai dati fattuali esaminati, delle ragioni giustificative della
conferma delle valutazioni svolte dal primo Giudice, che aveva già posto in debito risalto i dati probatori acquisiti e ritenuto l’infondatezza degli assunti difensivi volti a escludere l’intento omicida.
Facendo logico riferimento agli elementi sintomatici, tratti dall’analisi delle modalità della condotta tenuta dal ricorrente e dalla svolta ricostruzione della vicenda, la Corte ha, in particolare, individuato, con ragionevole apprezzamento ex ante di tutti gli elementi circostanziali del fatto, la idoneità degli atti a causare la morte e la sussistenza della volontà omicida, ragionevolmente ritenuta esteriorizzata e rappresentata dalla reiterazione dei colpi inferti con il coltello, dalle parti corporee attinte (schiena, addome e colon), dalla forza della penetrazione del colpo nell’addome (con perforazione di un’ansa intestinale e fuoriuscita del contenuto e con rischio di peritonite settica in mancanza di pronto intervento), e, con coerente approccio probatorio, ha valorizzato tali circostanze oggettive come univocamente sintomatiche del dolo omicida, quantomeno nella forma alternativa della indifferente volizione del ferimento o della morte della vittima.
2.3. Tali valutazioni resistono alle doglianze difensive.
Il ricorrente, infatti, mentre genericamente lamenta l’erronea applicazione della normativa che attiene al tentato omicidio e reclama la qualificazione del fatto come lesioni personali, oppone – sotto l’aspetto della contestazione della congruenza logica della decisione e della completezza della valutazione delle risultanze probatorie- deduzioni e osservazioni che, non coordinate con i passaggi argomentativi della sentenza, introducono non deducibili, e come tali inammissibili, digressioni in valutazioni di merito circa la conformazione delle ferite e si pongono, soprattutto, in una erronea prospettiva di analisi del reato contestato e attribuito.
Esse, infatti, sostenendo la non gravità delle lesioni e dei rischi corsi dalla persona offesa, riferiscono infondatamente a un giudizio concreto ex post la valutazione della idoneità degli atti, mentre la prognosi postuma deve essere riferita all’adeguatezza causale della condotta in rapporto alla lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice e, quindi, alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione e apprezzata in concreto ex ante, senza essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti, dovendo diversamente l’azione ritenersi sempre inidonea, per non aver conseguito l’evento.
3. Anche la censura che attiene al diniego della legittima difesa e dello stato di necessità, contestato sotto il duplice profilo della incorsa violazione di legge e della contraddittoria e illogica valutazione da parte della Corte del merito delle circostanze tratte dagli acquisiti elementi probatori, è infondata.
3.1. La Corte di merito, esattamente interpretando il fondamento normativo delle invocate esimenti, ha proceduto, con specifica analisi della situazione fattuale, a verificare se nella fattispecie esaminata fossero sussistenti i requisiti per ritenere scriminata la condotta ascritta al ricorrente.
In tale analisi la Corte ha coerentemente ripercorso i dati fattuali tratti dalle dichiarazioni della persona offesa (sintetizzate sub 3 del “ritenuto in fatto”), in correlazione critica con le ragioni opposte dall’imputato nel suo atto di appello, rimarcando che le dichiarazioni dei testi B. e V. , dallo stesso richiamati (sintetizzate sub 3.1. del “ritenuto in fatto”) non smentivano tale ricostruzione, confermando al contrario la infondatezza dell’assunto difensivo.
L’apprezzamento della vicenda sostanziale si è, quindi, correttamente appuntato, nella delibazione dei presupposti delle reclamate esimenti, sul rilievo che l’imputato ha colpito per tre volte con un coltello la persona offesa, che, non armata, gli aveva dato uno schiaffo senza procurargli lesioni, e, datosi alla fuga, non è stato raggiunto dalla stessa che aveva tentato di inseguirlo, ma si era dovuta fermare quando si era accorta di essere stata accoltellata e di non riuscire a camminare, venendo soccorsa dal teste B. .
3.2. La scansione temporale dei momenti della vicenda, ragionevolmente coordinata, è stata, pertanto, coerentemente inserita nel discorso giustificativo della decisione a dimostrazione della non ravvisabilità dell’attualità di un pericolo per il ricorrente, che poteva allontanarsi dal luogo senza la necessità di infierire con il coltello sulla persona offesa, la cui aggressione, attuata senza armi, non lo aveva leso ed era rimasta limitata allo schiaffo iniziale in mancanza di successivo incontro-scontro con lo stesso ricorrente, non raggiunto né ulteriormente aggredito.
3.3. Tale compendio argomentativo, che, esente da vizi logici e giuridici, supporta senza vuoti argomentativi la decisione finale che la condotta volontaria dell’agente, attuata negli indicati termini, ha superato i confini dell’agire discriminato, assorbendo i rilievi relativi all’eccesso colposo, resiste alle censure difensive.
Il ricorrente, invero, che genericamente lamenta la violazione delle norme che disciplinano sul piano sostanziale i reclamati istituti, oppone, sotto l’aspetto della contestazione della congruenza logica della decisione e della completezza ed esattezza della valutazione delle circostanze concrete della fattispecie, rilievi che, in diffuso dissenso rispetto all’articolato discorso motivazionale espresso dalla Corte di appello (quanto all’analisi dei dati oggettivi e dichiarativi, emersi e disponibili) e alle risposte, né meramente assertive né prive di plausibilità logica, rese ad analoghe deduzioni già sostenute e discusse in sede di merito (quanto alle modalità delle azioni e all’apprezzamento delle dichiarazioni della persona offesa e dei testi), sono volte a impegnare questa Corte in una inammissibile diversa lettura e analisi valutativa degli elementi di conoscenza apportati ai Giudici di merito dal materiale probatorio del processo.
4. Anche il terzo motivo è destituito di fondamento.
4.1. Secondo la tesi del ricorrente, la sentenza impugnata è incorsa nella violazione del divieto della reformatio in peius nella operata rideterminazione della pena, per avere, seguendo una “scaletta diversa” rispetto a quella adottata in primo grado, aggravato la sua posizione e contenuto quantitativamente la riduzione della pena per la concessa attenuante della provocazione.
In particolare, rispetto alla decisione del Tribunale, che aveva ridotto di quasi un terzo la pena base di anni ventuno di reclusione fino a quindici anni per la concessa attenuante del risarcimento del danno, di un terzo detta pena fino a dieci anni per le riconosciute attenuanti generiche e di ulteriori due terzi la pena così determinata fino ad anni tre e mesi quattro per il tentativo, con l’aumento finale di mesi due per la continuazione, la Corte di appello ha ridotto la pena base di anni ventuno di reclusione fino ad anni sette e mesi sei (applicando una riduzione inferiore a due terzi) per il tentativo, ha poi applicato una prima riduzione di un terzo fino ad anni cinque per le attenuanti generiche e una seconda riduzione di un terzo fino ad anni tre e mesi quattro per l’attenuante del risarcimento del danno, ha quindi ridotto la pena nella misura di mesi quattro (determinata avendo riguardo alla entità della provocazione, alla gravità del fatto e alla personalità del ricorrente) fino ad anni tre per la provocazione, con l’aumento finale di mesi uno per la continuazione.
4.2. Contrariamente alla tesi del ricorrente, tale calcolo, che ha fissato la pena -antecedente alla ulteriore, congruamente motivata e, come tale non sindacabile, riduzione per effetto dell’attenuante della provocazione riconosciuta con la decisione di appello – in anni tre e mesi quattro di reclusione, corrispondente a quella cui era pervenuto il primo Giudice, non costituisce una violazione del predetto principio, non ravvisabile quando interviene, come verificatosi nella specie, una sostanziale compensazione interna, corrispondendo alla minore riduzione della pena per il tentativo (inferiore a due terzi) una maggiore riduzione della stessa per le attenuanti generiche (pari a un terzo), senza alcuna incidenza, in presenza di identici fattori intermedi, sul risultato finale.
5. Il ricorso, in presenza di motivi in parte infondati e in parte inammissibili, deve essere, conclusivamente, rigettato.
Segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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