SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III
SENTENZA 12 marzo 2015, n. 10487
Considerato in diritto
- Il ricorso è solo parzialmente fondato.
3.1. – Il primo motivo di doglianza – con cui si deduce la nullità delle sentenze di primo e secondo grado ex art. 522 cod. proc. pen., essendo stata effettuata una modificazione del capo 1 bis dell’imputazione non consentita nel giudizio abbreviato – è manifestamente infondato.
Dalla prospettazione difensiva emerge, infatti, che non vi è stata alcuna modificazione dell’imputazione o contestazione suppletiva, ma semplicemente una diversa qualificazione giuridica del fatto, che è ben possibile anche nel giudizio abbreviato. Infatti – secondo quanto riportato dalla stessa difesa – il capo 1 bis dell’imputazione si riferiva originariamente ad una condotta, qualificata in termini di tentativo, diretta a costringere e indurre un minore a compiere o subire atti sessuali, posta in essere attraverso contatti e tramite telefonate, sms, inviti al minore a raggiungere in parrocchia, anche in orari scolastici, oltre che con toccamenti e abbracci. Ma dalla stessa descrizione dei fatti contenuta nell’imputazione – che non è mutata all’esito della richiesta di riqualificazione formulata dal pubblico ministero in sede di giudizio abbreviato – emerge con chiarezza che gli stessi integrano una violenza sessuale consumata, perché consistono in toccamenti e abbracci effettivamente posti in essere e non in semplici tentativi diretti in tal senso. E le modalità repentine attraverso le quali i toccamenti e gli abbracci si sono realizzati integrano senza dubbio la violenza: secondo l’univoca giurisprudenza di questa Corte, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 609 bis cod. pen., non è necessaria una violenza che ponga il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre una resistenza, essendo sufficiente che l’azione si compia in modo insidiosamente rapido, tanto da superare la volontà contraria del soggetto passivo (ex plurimis; sez. 3, 27 gennaio 2004, n. 6945, rv. 228493; sez. 3, 15 giugno 2010, n. 27273, rv. 247932; sez. 3, 26 settembre 2013 n. 42871, rv. 256915).
Tale essendo la situazione di fatto, Corte d’appello ha correttamente richiamato l’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., il quale, nel consentire l’appello del pubblico ministero contro la sentenza di condanna nei casi di modificazione del titolo di reato, espressamente ammette che una tale modificazione possa esservi legittimamente nel corso del giudizio abbreviato. E la modificazione del titolo del reato è concetto del tutto diverso rispetto alla modificazione dell’imputazione, perché solo quest’ultima consiste in un mutamento degli elementi essenziali del reato (in tal senso, Cass. pen., sez. 4, 14 febbraio 2007, n 12259): ciò che conta è che sia consentita alla difesa un’ampia possibilità di interlocuzione sulla nuova qualificazione del fatto; interlocuzione che deve ritenersi adeguatamente assicurata sia quando la riqualificazione venga operata dal giudice di primo grado nella sentenza pronunciata all’esito del giudizio abbreviato, sia, a maggior ragione, quando la stessa è sollecitata dal pubblico ministero all’apertura del giudizio. In entrambi i casi, infatti, l’imputato è posto nelle condizioni di interloquire sulla stessa: nel primo, con i motivi di appello, con i quali possono essere richieste la rivalutazione della sentenza di primo grado e l’acquisizione di integrazioni probatorie utili a smentirne il fondamento (sez. 6, 14 febbraio 2012, n. 10093); nel secondo, già durante lo svolgimento del giudizio abbreviato in primo grado. E ciò è quanto è avvenuto nel caso di specie se nel corso del giudizio di primo grado, sia con l’appello proposto nell’interesse dell’imputato, attraverso il quale questi ha proposto una rilettura dei fatti e della loro qualificazione giuridica, poi riproposta anche in sede di legittimità (vedi supra 2.2. e infra 3.2.).
3.2. – Il secondo motivo di ricorso – con cui si lamentano l’erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen. e la mancanza di motivazione in relazione al reato di cui al capo 1 bis dell’imputazione – è inammissibile, perché sostanzialmente diretto ad ottenere da questa Corte una rivalutazione nel merito della responsabilità penale; rivalutazione preclusa in sede di legittimità. Il ricorrente concentra infatti le sue critiche essenzialmente su due rilievi, già ampiamente analizzati e disattesi nelle sentenze di primo e secondo grado: a) la pretesa mancata valutazione dell’attitudine degli atti posti in essere dall’imputato (pacche sul sedere, abbracci, una carezza sul ginocchio nel corso di una confessione) ad integrare, sul piano oggettivo, gli atti sessuali di cui all’art. 609 bis cod. pen.; b) l’erronea valutazione del tenore sessuale degli sms inviati e del loro collegamento con gli atti materiali posti in essere.
A fronte del tentativo della difesa – rinnovato con il ricorso per cassazione – di parcellizzare i vari elementi della condotta per escluderne la valenza indiziaria, la Corte d’appello correttamente ribadisce che gli atti posti in essere dall’imputato assumono connotazione sessuale proprio nel contesto complessivo, che emerge dal tenore inequivocabilmente sessuale delle sue conversazioni, dei suoi inviti, dei suoi sms. Si tratta, del resto, di atti che anche oggettivamente appaiono riconducibili alla fattispecie astratta di cui all’art. 609 bis cod. pen., perché attingono direttamente zone erogene del corpo (sedere, ginocchia, petto, collo, orecchio), e sono posti in essere in contesti non scherzosi o goliardici, ma espressamente connotati in senso sessuale dallo stesso imputato. E il contesto nel quale gli atti sono stati posti in essere è analiticamente descritto dai giudici di primo e secondo grado: in particolare, la Corte d’appello specifica sul punto che: a) le espressioni utilizzate dall’imputato avevano tenore erotico ed erano state più volte ripetute dallo stesso, in alcuni casi accompagnate da bestemmie o inviti a trasgressioni di carattere blasfemo; b) l’imputato aveva descritto ad A. , il soggetto destinatario delle sue confidenze, sia l’attrazione sessuale che provava per la persona offesa, sia gli atti sessuali posti in essere; c) lo stesso imputato aveva specificato le difficoltà che stava incontrando nel superare le resistenze del giovane e nell’evitare il controllo della madre di quest’ultimo; d) il minore era stato espressamente invitato dall’imputato ad incontri sessuali e a visitare insieme siti Internet pornografici; e) degli atti non emerge nessuna prova della pretesa mancanza della capacità di intendere e di volere dell’imputato nel momento in cui inviava al suo interlocutore minorenne messaggi a sfondo sessuale; f) la persona offesa (il cui narrato trova conferma negli ampi riscontri evidenziati alle pagine 67-75 della sentenza impugnata) aveva avuto fastidio per gli approcci dell’imputato e per gli atti concreti da questo posti in essere, subiti come invasioni della sfera sessuale.
3.3. – Inammissibile è anche il terzo motivo di doglianza, con cui si lamentano l’erronea applicazione dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, nonché la manifesta illogicità e la mancanza della motivazione in relazione all’offerta a terzi di cocaina.
3.3.1. – Si tratta, infatti, di una doglianza basata su una prospettazione meramente alternativa rispetto a quella fatta propria dai giudici di merito, oltre che del tutto indimostrata, secondo la quale gli acquisti di stupefacente da parte dei soggetti con cui l’imputato parlava sarebbero avvenuti direttamente dal fornitore, senza l’intermediazione dell’imputato stesso. La disponibilità dello stupefacente in capo all’imputato è, invece, pacifica, perché lo stesso vi fa riferimento più volte. E in tale contesto, le domande rivolte agli interlocutori avevano la natura di chiari approcci sessuali destinati alla consumazione di rapporti accompagnati dall’assunzione dello stupefacente fornito dall’imputato. In alcuni casi, inoltre, lo stupefacente era proposto dall’imputato come corrispettivo per rapporti sessuali, così integrandosi pienamente -come già osservato – il reato di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Correttamente, dunque, la Corte d’appello ritiene inverosimile la ricostruzione difensiva, secondo cui le offerte di stupefacente non avevano il requisito della serietà perché in alcuni casi erano irrealizzabili e in altri casi erano semplicemente riferite ad informazioni su gusti o preferenze di soggetti con i quali l’imputato era in contatto via chat, relativamente all’ipotetico consumo di stupefacenti. Il consumo di stupefacenti al quale l’imputato invitava i suoi interlocutori era, infatti, del tutto concreto e reale (pagg. 75-80 della sentenza impugnata).
3.3.2. – Quanto alla pena irrogata per il reato continuato di cui al capo 2 dell’imputazione, deve rilevarsi che la stessa supera i limiti massimi attualmente vigenti. Si tratta infatti della fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che all’epoca della pronuncia della sentenza impugnata costituiva una circostanza attenuante e non una autonoma ipotesi di reato. In primo grado era stata ritenuta l’equivalenza tra tale attenuante e l’aggravante di cui all’art. 80, comma 1, lettera a), dello stesso d.P.R.; era stata considerata una pena base di anni 6 di reclusione ed Euro 27.000,00 di multa aumentata di mesi 2 di reclusione ed Euro 2000,00 di multa per ogni episodio in continuazione, giungendo alla pena di anni 7 di reclusione e Euro 39.000,00 di multa, diminuita per il rito alla pena finale di anni 4 e mesi 8 di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa. Le pene base prese in considerazione sono dunque – come anticipato – superiori ai massimi edittali: la fattispecie – che costituisce reato autonomo – è attualmente punita, in forza della più favorevole disciplina attualmente vigente, introdotta dall’art. 1, comma 24-ter, lettera a), del d.l. n. 36 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 79 del 2014, con le pene massime di quattro anni di reclusione ed Euro 10.329,00 di multa.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Genova, in relazione alla pena per il reato di cui al capo 2 dell’imputazione.
3.4. – Il quarto motivo di impugnazione è parzialmente fondato.
3.4.1. – La qualificazione del fatto di cui al capo 5 dell’imputazione ai sensi degli artt. 56 e 600 bis, primo comma, cod. pen., fatta propria dai giudici di primo e secondo grado, nel senso del tentativo di induzione alla prostituzione, non risulta corretta, alla luce di quanto chiarito dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza 19 dicembre 2013, n. 16207, rv. 258757. Con tale pronuncia si è superato un precedente contrasto interpretativo, affermando che la condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona di età compresa tra i quattordici ed i diciotto anni ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al comma secondo e non di quella di cui al comma primo dell’art. 600 bis cod. pen.. E la diversa condotta di induzione alla prostituzione minorile, di cui al comma primo dello stesso articolo, può riguardare anche l’attività di mercimonio esercitata nei confronti di un solo soggetto, purché terzo rispetto all’induttore. In altri termini, si è evidenziato che l’induzione, per essere tale, deve essere diretta a fare si che il minore abbia rapporti sessuali con un soggetto diverso dall’induttore, perché altrimenti si risolve nel compimento di rapporti sessuali con minorenne in cambio di denaro o altra utilità economica.
Stando al capo di imputazione fatto proprio dai giudici di merito, in cui si fa riferimento all’offerta di denaro o utilità economiche da parte dell’imputato al minore per convincerlo a compiere con lui atti sessuali poi non effettivamente compiuti, deve, in conclusione, rilevarsi che la stessa deve essere sussunta nell’ipotesi di reato di cui agli artt. 56 e 600 bis, secondo comma, cod. pen., con la conseguenza che la sentenza deve essere sul punto annullata, per la rideterminazione della pena.
3.4.2. – Venendo alla fattispecie concreta, deve rilevarsi che – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa – la motivazione della sentenza impugnata risulta pienamente logica e coerente quanto all’esclusione della desistenza volontaria dell’imputato dalla condotta, ai sensi dell’art. 56, comma 3, cod. pen.. La Corte d’appello precisa, infatti (pagg. 88-91) che il minorenne persona offesa ha riferito che l’imputato aveva disdetto l’appuntamento precedentemente fissato a fini sessuali semplicemente affermando di non poter venire, senza che emergesse in alcun modo la volontarietà della sua desistenza. Dal suo comportamento complessivo si desumeva, anzi, la perdurante intenzione dell’imputato di realizzare i suoi scopi, perché lo stesso non aveva rinunciato all’incontro ma l’aveva semplicemente rimandato e lo aveva fatto per una serie di contrattempi del tutto estranei alla sua volontà (analiticamente descritti alla pag. 91 la sentenza impugnata). E questa Corte ha più volte precisato che, in tema di desistenza dal delitto, la volontarietà non deve essere intesa come spontaneità, per cui la scelta di non proseguire nell’azione criminosa deve essere non necessitata, ma operata in una situazione di libertà interiore, indipendente da fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell’agente (ex multis, sez. 2, 29 gennaio 2014, n. 7036, rv. 258791; sez. 2, 5 aprile 2013, n. 18385, rv. 255919).
Quanto all’idoneità degli atti commessi dall’imputato alla commissione del reato, deve parimenti richiamarsi la motivazione della sentenza impugnata, la quale si sofferma analiticamente su tale aspetto (pagg. 91-93), specificando che erano stati concordati i luoghi, i prezzi e le modalità dei rapporti sessuali che avrebbero dovuto essere consumati. L’imputato aveva, del resto, piena conoscenza della minore età della persona offesa, della quale era stato informato da A. , il soggetto che fungeva inizialmente da intermediario fra i due (pag. 88 della sentenza impugnata).
3.5. – Il quinto motivo di doglianza – con cui si lamentano l’erronea applicazione dell’art. 81 cod. pen. e la carenza e manifesta illogicità della motivazione quanto al mancato riconoscimento del vincolo della continuazione fra i fatti oggetti dei capi 2, 3 e 5 dell’imputazione – è fondato.
Effettivamente la Corte d’appello si è limitata, sul punto, a valorizzare il lasso temporale tra le contestazioni, senza rilevare che il soggetto cessionario della sostanza stupefacente era sempre lo stesso e che identiche erano le modalità dell’offerta. Inoltre la stessa Corte non ha preso in considerazione il fatto che il minorenne della cui prostituzione l’imputato intendeva avvantaggiarsi era stato avvicinato proprio con la prospettiva dell’assunzione di cocaina. Né la circostanza che gli altri episodi di cessione di cocaina non siano connessi con la prostituzione minorile è di per sé sufficiente ad escludere l’invocata continuazione. Più in particolare, la motivazione della sentenza appare contraddittoria agli ultimi due capoversi di pag. 93, laddove si afferma, da un lato, che la prostituzione del minore E. non è connessa alle cessioni di stupefacenti, perché queste ultime non sono in generale collegate a episodi di prostituzione minorile, e si afferma, dall’altro lato, che l’offerta di stupefacente a E. è stata correttamente posta in continuazione con le altre offerte di stupefacenti.
- La sentenza impugnata deve essere dunque annullata, con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Genova, in relazione alla continuazione, perché proceda a nuovo giudizio sul punto tenendo conto dei rilievi appena sopra svolte e procedendo alla rideterminazione della pena in relazione alla continuazione eventualmente sussistente, oltre che in conseguenza della rideterminazione della pena per il reato di cui al capo 2 e per il reato di cui al capo 5, a seguito della sua riqualificazione ai sensi degli artt. 56 e 600 bis, secondo comma, cod. pen.. Il ricorso deve essere rigettato nel resto.
P.Q.M.
Riqualificato il reato di cui al capo 5 dell’imputazione ai sensi degli artt. 56 e 600 bis, secondo comma, cod. pen., annulla la sentenza impugnata limitatamente alla continuazione e alla determinazione della pena, e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Genova. Rigetta nel resto il ricorso.
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