Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 9 aprile 2015, n. 7093
Svolgimento del processo
1. Il 16.6.1986, durante una lezione di equitazione, la sig.a Z.M. cadde dal cavallo che montava e patì lesioni personali.
Nel 1989, per ottenere il risarcimento del conseguente danno, convenne dinanzi al Tribunale di Treviso il gestore della scuola di equitazione dell’annesso maneggio (sig. B.D. ) e l’istruttore di equitazione (sig. G.L. ).
2. Dopo quattordici anni di giudizio il Tribunale di Treviso, con sentenza 12.6.2003 n. 1570, accolse la domanda nei confronti di B.D. , rigettandola nei confronti di G.L. .
3. La sentenza venne appellata sia da B.D. , il quale riteneva erronea l’affermazione della propria responsabilità; sia da Z.M. , la quale riteneva erronea per difetto la stima del danno.
La Corte d’appello di Venezia, con sentenza 9.6.2010 n. 1276, rigetto l’appello di B.D. ed accolse quello di Z.M. .
Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d’appello ritenne che:
(a) B.D. dovesse rispondere dei danni causati dall’animale di sua proprietà ai sensi dell’art. 2052 c.c.;
(b) tale presunzione può essere vinta solo dalla prova del caso fortuito;
(c) nella specie Z.M. era caduta dopo che l’animale da lei montato si era imbizzarrito, e tale circostanza non costituisce un caso fortuito.
4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da B.D. , sulla base di due motivi. Ha resistito con controricorso Z.M. .
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c.. Si assume violato l’art. 2052 c.c..
Deduce il ricorrente che al gestore del maneggio, nel caso di danni causati dagli animali, deve applicarsi la presunzione di cui all’art. 2050 c.c., e non quella di cui all’art. 2052 c.c..
L’applicabilità al gestore del maneggio della presunzione di cui all’art. 2052 c.c. sarebbe erronea per due ragioni:
– sia perché tale norma fa riferimento ai soli danni causati dall’animale a persone che accidentalmente vengano in contatto con esso, mentre nel caso della scuola di equitazione il contatto tra animale e persona è voluto e non accidentale;
– sia perché l’equitazione è uno sport, e chi accetta di praticarla accetta per ciò solo il rischio d’una caduta dalla groppa dell’animale montato.
Dall’applicabilità all’attività di maneggio della presunzione di cui all’art. 2050 c.c. discende che il gestore, per liberarsi dalla presunzione di colpa, deve provare solo di avere adottato tutte le cautele necessarie: nella specie prova adeguatamente fornita.
Avrebbe pertanto errato la Corte d’appello, conclude il ricorrente, nell’applicare la più rigorosa previsione di cui all’art. 2052 c.c..
1.2. Il motivo è inammissibile, per due distinte ed indipendenti ragioni.
1.3. La prima ragione è che con esso si censura, quale vizio di violazione di legge, un tipico accertamento di merito.
Il giudice chiamato a stabilire se sussista la responsabilità civile del gestore d’una scuola d’equitazione, deve innanzitutto stabilire se tale attività possa qualificarsi “pericolosa” ai sensi dell’art. 2050 c.c.: in caso affermativo l’assoggetterà alle previsioni di tale norma; in caso negativo valuterà se sia applicabile la diversa presunzione di responsabilità prevista dall’art. 2052 c.c..
Tuttavia lo stabilire se una attività sia da reputare “pericolosa” ai sensi dell’art. 2050 c.c., al fine di sottoporre chi la esercita alla presunzione prevista da quella norma, è un accertamento di fatto, non una valutazione in diritto. “Pericolosa”, ex art. 2050 c.c., è infatti l’attività potenzialmente causativa di danno non solo per la sua natura, ma anche per la natura dei mezzi adoperati. Esistono dunque attività pericolose di per sé, ed attività svolte in modo pericoloso, cioè pericolose in relazione al caso concreto: e per queste ultime l’accertamento della “pericolosità” non può che essere compiuto dal giudice di merito tenendo conto di tutte le specificità della fattispecie, con accertamento sottratto al sindacato di legittimità. La gestione d’una scuola d’equitazione può essere in concreto pericolosa, ma può anche non esserlo: tale requisito non sussiste in astratto, ma va accertato in concreto in base alle modalità con cui viene impartito l’insegnamento, alle caratteristiche degli animali impiegati ed alla qualità degli allievi (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 14747 del 17/10/2002, in motivazione).
Questa Corte ha da molto tempo suggerito, al riguardo, una massima di esperienza quale criterio orientativo per la soluzione dei casi pratici: ovvero quella consistente nel presumere che, di norma, impartire lezioni di equitazione a fanciulli o principianti comporta pericoli che non sussistono quando gli allievi sono esperti; con la conseguenza che la prima attività (impartire lezioni a principianti) sarebbe pericolosa, la seconda (impartire lezioni ad esperti) non lo sarebbe (Sez. 3, Sentenza n. 5664 del 09/03/2010, Rv. 611747; Sez. 3, Sentenza n. 16637 del 19/06/2008, Rv. 603826).
Deve tuttavia essere ben chiaro che quella appena indicata non è una regula iuris, ma una mera massima d’esperienza, basata sull’id quod plerumque accidit: sicché non viola l’art. 2050 c.c. il giudice di merito che, motivando, ritenesse nel caso concreto pericolosa l’attività di insegnamento dell’equitazione impartita ad allievi esperti, ovvero ritenesse non pericoloso l’insegnamento dell’equitazione a fanciulli.
In questo senso si espresse questa Corte nella sentenza capostipite del relativo orientamento, allorché affermò che “lo stabilire se l’attività di maneggio sia da qualificarsi pericolosa per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati deve (…) ritenersi affidata al prudente apprezzamento del giudice del merito, secondo nozioni che rientrano nella comune esperienza relativa alla disciplina della scuola di equitazione” (sono parole di Sez. 3, Sentenza n. 1380 del 11/02/1994, Rv. 485278, in motivazione).
Se dunque l’accertamento della “pericolosità” d’una scuola d’equitazione costituisce un accertamento de facto, è evidente che la relativa vantazione compiuta dal giudice di merito potrà semmai essere censurata per vizio di motivazione, ma non certo per violazione di legge, vizio inconcepibile rispetto ad un accertamento fattuale.
1.4. Vi è poi, come accennato, una seconda ragione di inammissibilità del primo motivo di ricorso, rappresentata dal difetto di interesse ex art. 100 c.p.c..
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe errato nell’assoggettare la responsabilità del gestore d’una scuola di equitazione alla presunzione di cui all’art. 2052 c.c. (danno da animali) invece che a quella di cui all’art. 2050 c.c. (esercizio di attività pericolosa).
Spiega il proprio interesse a far valere tale errore deducendo che dalla presunzione di cui all’art. 2050 c.c. ci si può liberare dimostrando di avere adottato le opportune cautele nello svolgimento dell’attività; dalla presunzione di cui all’art. 2052 c.c. invece ci si può liberare solo dimostrando il caso fortuito.
Questa affermazione non è esatta, e nel caso di specie la Corte d’appello non sarebbe potuta pervenire a conclusioni diverse nemmeno se avesse applicato l’art. 2050 c.c.. Di qui il difetto di interesse del ricorrente.
1.5. La regola generale secondo cui chi invoca in giudizio il risarcimento del danno ha l’onere di provare la colpa del responsabile è in molti casi attenuata od esclusa dal legislatore, allo scopo di assicurare – per ragioni di politica legislativa – maggior tutela alla vittima dell’illecito o al partner contrattuale di un contraente inadempiente.
L’attenuazione del generale onere della prova può tuttavia avvenire con due gradi diversi di intensità, cui corrispondono inversamente altrettanti livelli crescenti del contenuto della prova liberatoria gravante sul responsabile.
1.5.1. In taluni casi, la legge solleva il danneggiato dall’onere di provare la colpa del responsabile (presunzione di colpa). È l’ipotesi di cui all’art. 1218 c.c., a norma del quale “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
La “causa non imputabile” è un dato meramente negativo, consistente nell’assenza di colpa: ciò vuoi dire che il debitore, quando sia gravato da una presunzione di colpa siffatta, se ne può liberare semplicemente dimostrando di non essere stato negligente, ovvero di avere adottato le cautele che la legge, il contratto o la comune prudenza di cui all’art. 1176 c.c. rendevano da lui esigibili.
1.5.2. In altri casi la legge, fermo restando l’esonero del danneggiato dal dovere provare la colpa del responsabile, addossa a quest’ultimo un onere probatorio più rigoroso, consistente nel dovere provare il fatto positivo, estraneo alla sua sfera di azione, che ha costituito la causa esclusiva del danno (presunzione di responsabilità).
Ricorrendo tale ipotesi, al convenuto nel giudizio di danno per andare esente da responsabilità non basterà dimostrare di avere tenuto una condotta diligente, ma sarà necessario dimostrare che il danno è dovuto ad una causa oggettiva a lui estranea.
1.6. La responsabilità del proprietario dell’animale per i danni da questo causati è da tempo inquadrata sia da questa Corte, sia dalla dottrina pressoché unanime, tra le ipotesi di responsabilità presunta, non tra quelle di colpa presunta.
Si tratta di un orientamento millenario, risalente all’istituto dell’actio de pauperie contemplata dal diritto romano classico, dal quale non esistono ragioni per discostarsi.
Secondo questo orientamento, la presunzione di responsabilità per danno causato da animali può essere superata esclusivamente qualora il proprietario o colui che si serve dell’animale provi il caso fortuito, inteso quale fattore concreto del tutto estraneo alla sua condotta. Da ciò si è tratta la conseguenza che non può attribuirsi efficacia liberatoria alla semplice prova dell’uso della normale diligenza nella custodia dell’animale stesso o della mansuetudine di questo, essendo, e che è irrilevante che il danno sia stato causato da impulsi interni imprevedibili o inevitabili della bestia (Sez. 3, Sentenza n. 75 del 06/01/1983, Rv. 424871; Sez. 3, Sentenza n. 778 del 05/02/1979, Rv. 396959).
L’animale, infatti, sensu caret: e l’imprevedibilità dei suoi comportamenti non può per ciò costituire un caso fortuito, costituendo anzi una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio.
1.7. La responsabilità dell’esercente attività pericolosa (art. 2050 c.c.) ha dato invece luogo a maggiori discussioni in dottrina, e ad una significativa evoluzione della giurisprudenza di questa Corte.
Secondo l’orientamento più antico, l’art. 2050 c.c. prevedrebbe una mera presunzione di colpa, con la conseguenza che l’esercente l’attività pericolosa si libera da responsabilità fornendo la prova di avere tenuto una condotta diligente, e non è necessario che fornisca anche la prova del caso fortuito. Più di recente tuttavia, si è affermato che la responsabilità di cui all’art. 2050 c.c. ha natura oggettiva: essa pertanto sussiste sulla base del solo nesso di causalità, a prescindere da qualsiasi rimprovero in termini di colpa che possa essere mosso all’esercente l’attività stessa (Sez. 3, Sentenza n. 26516 del 17/12/2009, Rv. 610473, ove si afferma che “la responsabilità di cui all’art. 2050 c.c. ha natura oggettiva, e sussiste sulla base del solo nesso di causalità, a prescindere da qualsiasi rimprovero in termini di colpa che possa essere mosso all’esercente l’attività stessa”; nello stesso senso Sez. 3, Sentenza n. 8457 del 04/05/2004, Rv. 572599).
1.8. Ora, nel caso di specie il ricorrente assume che, se la Corte d’appello avesse inquadrato la fattispecie nell’ipotesi di “attività pericolosa”, egli avrebbe evitto la condanna, avendo dimostrato nel giudizio di merito di avere tenuto una condotta negligente sia nella scelta dell’animale da mettere a disposizione dell’allieva, sia nella scelta dell’istruttore.
E tuttavia, poiché come detto anche quella di cui all’art. 2050 c.c. è una presunzione di responsabilità al pari di quella prevista dall’art. 2052 c.c., essa può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa. Pertanto all’esercente l’attività pericolosa non basta, per evitare la condanna, la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l’evento dannoso, “di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere in modo certo il nesso causale tra l’attività pericolosa e l’evento, e non già quando costituisca elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l’insorgenza a causa delle inidoneità delle misure preventive adottate” (così, testualmente, Sez. 3, Sentenza n. 12307 del 04/12/1998, Rv. 521400; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 4710 del 29/04/1991, Rv. 471901).
Nel caso di specie è lo stesso ricorrente ad allegare come dall’istruttoria fosse emerso che l’animale assegnato a Z.M. , se pure di norma tranquillo, “in qualche occasione si era dimostrato un po’ nervoso”; e non vi è dubbio che assegnare ad un allievo non esperto un animale potenzialmente nervoso è condotta inidonea alla prevenzione del rischio.
Da tutto ciò consegue che la Corte d’appello, quand’anche avesse applicato alla fattispecie la presunzione di cui all’art. 2050 c.c., non sarebbe potuta pervenire a conclusioni diverse da quelle effettivamente raggiunte, circa l’assenza di prova liberatoria. Di qui il difetto di interesse del ricorrente ad chiedere la cassazione della sentenza d’appello, per emendare un errore che – se emendato – non comporterebbe affatto l’accoglimento della sua eccezione.
1.9. Deve soggiungersi, per completezza, che nessuno dei due argomenti in iure spesi dal ricorrente è idoneo a vincere la sistemazione data alla materia dalla giurisprudenza di questa Corte, e tratteggiata nei pp. precedenti.
Secondo il ricorrente, sarebbe erroneo applicare all’attività del gestore di maneggio la presunzione di cui all’art. 2052 c.c.: sia perché tale norma disciplina solo i casi in cui il contatto tra animale e danneggiato è accidentale; sia perché chi frequenta una scuola di maneggio accetta il rischio di cadute.
1.9.1. L’argomento dell'”accidentalità” (pag. 8 del ricorso) è irrilevante.
L’art. 2052 c.c. si fonda sul principio cujus commoda, ejus et incommoda, in virtù del quale chi usa l’animale per un proprio interesse (anche non patrimoniale) deve rispondere dei danni da esso causati. Che l’animale venga a contatto col danneggiato accidentalmente o per volontà del proprietario o di terzi è dunque elemento del tutto estraneo alla fattispecie, che non figura nella lettera della legge, e che non potrebbe essere introdotto dall’interprete, a pena di snaturare il fondamento logico della norma.
1.9.2. Del pari irrilevante è l’argomento secondo cui, costituendo l’equitazione un’attività sportiva, chi la pratica accetta il rischio di cadute.
Lo svolgimento volontario di attività sportiva comporta l’esposizione volontaria dell’atleta al rischio intrinseco connesso alla disciplina praticata. L’accettazione del rischio da parte dell’atleta o dell’allievo non esclude tuttavia la responsabilità dell’organizzatore della gara o dell’istruttore sportivo. Quest’ultima permarrà intatta in tutti i casi in cui l’organizzatore o l’istruttore abbiano violato le regole poste a salvaguardia dell’incolumità degli allievi (colpa specifica), ovvero le regole di comune prudenza e diligenza (colpa generica: così Sez. 3, Sentenza n. 21664 del 08/11/2005, Rv. 584983; Sez. 3, Sentenza n. 5136 del 03/04/2003, Rv. 561764; Sez. 3, Sentenza n. 2414 del 10/07/1968, Rv. 334800).
Ora, se l’accettazione del rischio da parte dell’atleta non esclude la responsabilità dell’istruttore o della scuola nei casi di colpa concretamente accertata, a fortiori non la potrà escludere nei casi di responsabilità presunta dalla legge.
Sicché, quando a carico della scuola sportiva sia configurabile una ipotesi di responsabilità aggravata (ad es., ex art. 2048, 2050, 2051 o, come nella specie, 2052 c.c.), la volontaria esposizione al rischio da parte dell’atleta diventa del tutto irrilevante, salvo che non integri gli estremi della condotta colposa di cui all’art. 1227, comma 1, c.c..
Il principio appena enunciato è stato già affermato da questa Corte proprio in tema di responsabilità del gestore di maneggio: in quel caso, chiamata a valutare la correttezza della decisione di merito che aveva ritenuto di escludere la responsabilità del gestore per il fatto che l’allievo cavallerizzo avesse “accettato il rischio” di danni alla persona, questa Corte osservò “la vantazione della Corte territoriale, secondo la quale esiste un margine di rischio, ineliminabile, che chi frequenta un maneggio, accetta preventivamente, non può trovare spazio nella disciplina in esame, dovendosi unicamente verificare se il titolare della attività pericolosa abbia in concreto fornito la prova liberatoria prevista dall’ultima parte dell’art. 2050 c.c.” (sono parole di Sez. 3, Sentenza n. 17216 del 22.7.2010, non massimata; va da sé che, in ragione di quanto già esposto, il medesimo principio troverà applicazione quando il gestore sia gravato dalla presunzione di cui all’art. 2052 c.c.).
2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c..
La censura è così sintetizzabile:
(a) secondo la Corte d’appello, il gestore d’una scuola d’equitazione è soggetto alla presunzione di responsabilità di cui all’art. 2050 c.c., quando l’insegnamento è impartito a principianti; ed alla diversa presunzione di cui all’art. 2052 c.c. quando l’insegnamento è impartito ad allievi già esperti. Nel caso di specie, la Corte d’appello ha ritenuto Z.M. una allieva “esperta”, ma l’ha fatto sulla base di una motivazione insufficiente e contraddittoria: insufficiente, perché contrastante con le prove raccolte; contraddittoria, perché la Corte d’appello ha da un Iato affermato che la danneggiata era una allieva già avanzata, e dall’altro che “non era esperta”.
2.2. Il motivo è infondato.
La contraddittorietà della motivazione ravvisata dal ricorrente in realtà non sussiste.
Il vizio logico di contraddittorietà va infatti valutato non già estrapolando dal testo della sentenza singoli brani o parole, ma valutando nel complesso la coerenza e la logicità dell’argomentazione.
Nel caso di specie, il senso delle affermazioni di cui a pag, 8 della sentenza impugnata: la Corte d’appello intende dire che Z.M. , al momento dell’infortunio, aveva già superato la primissima fase di istruzione, e pertanto non poteva considerarsi più una principiante. In questo contesto semantico, la proposizione concessiva “pur non essendo esperta” ha con evidenza un senso logico più ristretto di quello sintattico, e sta a significare che l’allieva non era ancora una professionista, ma nello stesso tempo non era più una principiante.
2.3. Nemmeno sussiste il vizio di insufficienza della motivazione: la Corte ha A ritenuto che non potesse ritenersi “principiante” un allievo che, dopo nove v lezioni, inizi a cavalcare un animale non più tenuto alla corda dall’istruttore: e questa è una vantazione squisitamente di merito, non incoerente, non illogica e non censurabile in sede di legittimità.
3. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’alt. 385, comma 1, c.p.c..
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
-) rigetta il ricorso;
-) condanna B.D. alla rifusione in favore di Z.M. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano nella somma di Euro 2.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A. ed accessori di legge.
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