Cassazione 10

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 20 marzo 2015, n. 5590

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6940/2012 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), in proprio e come eredi di (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

GESTIONE LIQUIDATORE EX USSL/(OMISSIS) NOVARA, in persona del Dott. (OMISSIS), Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera Ospedale Maggiore della Carita’ di (OMISSIS) anche nella sua veste di Commissario Liquidatore della Gestione Liquidatoria della ex USSL (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;

(OMISSIS) SPA, in virtu’ di fusione per incorporazione di (OMISSIS) SPA e (OMISSIS) SPA, in (OMISSIS) SPA, che ha assunto la nuova denominazione (OMISSIS) SPA, in persona del procuratore speciale dell’amministratore delegato pro tempore, Avv. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1213/2011 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 13/09/2011, R.G.N. 1573/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/11/2014 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS);

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilita’ in subordine rigetto.

I FATTI

Nel (OMISSIS) (OMISSIS), i suoi fratelli (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e (OMISSIS) e la madre (OMISSIS) convennero in giudizio dinanzi al Tribunale di Novara la Gestione Liquidatoria dell’ex U.S.S.L. n. (OMISSIS) di Novara e l’Azienda Ospedaliera Ospedale (OMISSIS) per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti dallo (OMISSIS) e dai suoi familiari per i gravi postumi invalidanti riportati dallo stesso a causa della erronea e negligente esecuzione di un intervento chirurgico cui lo (OMISSIS) si era sottoposto presso l’ospedale di (OMISSIS), e della carente sorveglianza postoperatoria.

Esposero che (OMISSIS) era stato coinvolto nel (OMISSIS), all’eta’ di quindici anni, in un grave incidente motociclistico, ed aveva subito un importante trauma cranio encefalico; dopo l’incidente aveva avuto un buon recupero neurologico ma nel (OMISSIS), accusando degli irrigidimenti muscolari agli arti inferiori che gli causavano difficolta’ di deambulazione, si rivolse all’Ospedale di (OMISSIS) per accertamenti. Gli esami svolti accertarono la presenza di idrocefalo e di siringomielia da malformazione di Arnold/Chiari e venne consigliato ed eseguito presso l’ospedale di (OMISSIS) un delicato intervento chirurgico di decompressione sub-occipitale e laminectomia delle prime vertebre cervicali, che comporto’ l’apertura della calotta cranica e l’asportazione di una sezione vertebrale.

Tre giorni dopo l’intervento, il paziente, collocato per il decorso post-operatorio in un letto privo di protezioni e sponde benche’ avesse problemi di incontrollata mobilita’ degli arti, cadde dal letto, riporto’ un trauma cranico ed una emorragia cerebrale tanto che dovette essere trasferito in rianimazione.

Alla dimissione, il paziente presentava un quadro clinico peggiorato rispetto all’ingresso: era comparso un deficit ai nervi cranici inferiori, prima inesistente, che causava strabismo nonche’ disturbi della parola e del gusto e si era verificato un deciso peggioramento del deficit sensitivo motorio agli arti inferiori tanto che egli non fu piu’ in grado di deambulare da solo e di mantenere la stazione eretta. Gli attori riconducevano alla caduta dal letto la causa diretta del deficit verificatosi a carico dei nervi cranici, e le attribuivano una incidenza causale negativa sul possibile esito migliorativo dell’intervento.

La situazione dello (OMISSIS) progressivamente peggiorava, tanto che nel 2003, all’inizio della causa, egli era ormai totalmente tetraparetico, gravemente disartrico e bisognoso di assistenza continua perche’ impossibilitato a compiere alcun gesto della vita quotidiana.

Nel 2005 lo (OMISSIS) decedeva e la causa veniva proseguita dai suoi familiari anche come suoi successori. Nel giudizio di primo grado la Gestione Liquidatoria della ex

U.S.S.L. (OMISSIS) di Novara chiamava in causa la (OMISSIS).

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Novara nel 2007 preliminarmente dichiaro’ la carenza di legittimazione passiva della l’Azienda Ospedaliera (OMISSIS), quindi dichiaro’ prescritti i diritti degli attori azionati iure proprio nei confronti della Gestione Liquidatoria, e rigetto’ per infondatezza della domanda le domande risarcito rie proposte iure successionis.

La Corte d’Appello di Torino nel 2011 a seguito dell’appello proposto dagli attuali ricorrenti sostanzialmente teneva ferma la sentenza di primo grado (disponendo la compensazione delle spese di primo grado nei confronti della Azienda ospedaliera), confermando l’intervenuta prescrizione dei diritti azionati iure proprio e respingendo per il resto come infondata la domanda degli attori. La corte in particolare escludeva che il peggioramento del paziente fosse imputabile ai sanitari sotto il profilo della imperizia o inesattezza nell’esecuzione dell’intervento chirurgico ed anche sotto il profilo della mancanza ai doveri di protezione del paziente e riteneva provata l’intervenuta raccolta di un idoneo consenso informato.

(OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) in proprio e quali eredi di (OMISSIS), propongono ricorso per cassazione articolato in dieci motivi nei confronti della Gestione Liquidatoria dell’ex U.S.S.L. (OMISSIS) di Novara e di (OMISSIS) s.p.a. per la cassazione della sentenza n. 1213 del 2011 della Corte d’Appello di Torino, notificata il 18.1.2012.

Resistono la Gestione Liquidatoria dell’ex U.S.S.L. (OMISSIS) di Novara e (OMISSIS) s.p.a. con controricorso.

Sia i ricorrenti che la Gestione Liquidatoria hanno depositato memorie.

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

I familiari ed eredi del defunto (OMISSIS) criticano radicalmente la sentenza impugnata proponendo dieci motivi di ricorso.

I primi motivi sono volti a segnalare i vizi della sentenza laddove ha negato la responsabilita’ della struttura sanitaria nell’aggravamento delle condizioni del giovane (OMISSIS) sia in relazione all’esito non positivo dell’intervento chirurgico sullo stesso eseguito, sia per non aver tenuto in alcun conto l’efficienza causale peggiorativa delle condizioni del paziente riconducibile alla collocazione dello stesso in un letto, privo di sponde, inadatto ad un paziente che avesse un problema di controllo sulla mobilita’ degli arti, e alle conseguenze della caduta dal letto.

Con il primo motivo di ricorso, in particolare, denunciano la violazione e falsa applicazione delle regole sulla ripartizione degli oneri probatori in materia di responsabilita’ professionale medica e in ordine alla irrilevanza della distinzione tra interventi di facile e difficile esecuzione, ovvero degli articoli 2697, 1218 e 2236 c.c..

Segnalano come la corte d’appello sia caduta in un errore di diritto laddove, ritenuto che l’intervento eseguito sullo (OMISSIS) fosse di non facile esecuzione, ha affermato, quanto alla ripartizione degli oneri probatori, che mentre nel caso di insuccesso di interventi di facile esecuzione “grava sul medico l’onere di fornire la prova di aver eseguito la prestazione con diligenza e che l’evento peggiorativo lamentato dal partente e’ stato provocato da un fatto imprevisto ed imprevedibile”, nel caso invece di interventi implicanti la soluzione di problemi particolarmente complessi, quale, incontestatamente, l’intervento al cranio subito dallo (OMISSIS), “la responsabilita’ del medico e’ limitata al caso in cui il paziente dimostri la configurabilita’ nel comportamento del medico di dolo o colpa grave” (p. 18 della sentenza impugnata).

La corte d’appello ha cioe’ affermato che, in caso di interventi tecnici di particolare difficolta’ con esito peggiorativo per il paziente, sia il paziente stesso a dover provare il dolo o la colpa grave del medico, per vedere affermata la responsabilita’ sua o della struttura sanitaria.

Il secondo motivo di ricorso e’ strettamente legato al primo, in quanto i ricorrenti contestano sempre la corretta applicazione da parte della corte territoriale delle regole sulla ripartizione dell’onere probatorio in campo di responsabilita’ medica, questa volta in relazione all’oggetto e al contenuto della prova liberatoria dell’assenza di colpa incombente sul sanitario.

Sostengono che la corte d’appello, dopo aver affermato, conformemente alla risultanze della c.t.u., che l’intervento chirurgico di decompressione occipito-cervicale era l’unico intervento terapeutico possibile data la situazione del paziente, e che era un intervento di elevata difficolta’, abbia escluso l’inadempimento dei sanitari non essendo stata accertata l’esistenza di errori loro addebitabili nell’esecuzione dell’intervento, senza tener conto dell’indubbio ed obiettivo aggravamento dopo l’intervento delle condizioni cliniche del paziente, che, recatosi in ospedale con problemi di deambulazione ma comunque camminando autonomamente, ne era uscito impossibilitato a mantenere la stazione eretta e a camminare senza l’ausilio della sedia a rotelle, e con un serie di disturbi ai nervi motori del viso e ai centri del gusto e del linguaggio che in precedenza non aveva mai avuto.

Sostengono i ricorrenti che per andare esente da responsabilita’ la Gestione Liquidatoria avrebbe dovuto in realta’ provare la non imputabilita’ alla struttura ospedaliera dell’indubbio aggravamento delle condizioni dello (OMISSIS), ovvero che tale aggravamento fosse dovuto ad un evento imprevisto ed imprevedibile identificando tale causa esterna liberatoria della responsabilita’. I ricorrenti evidenziano che diversamente opinando si verrebbe a ribaltare sul paziente l’onere di provare la colpa del sanitario, in violazione dei principi di diritto affermati tre le altre da Cass. n. 8826 del 2007.

Richiamano la consulenza tecnica eseguita, attestante che tale tipo di intervento da come esito un miglioramento nei due terzi dei casi, mentre nel restante terzo dei casi l’esito e’ l’inalterazione, ovvero le condizioni del paziente rimangono sostanzialmente invariate mentre tra gli esiti non esiste neppure a livello statistico, come conseguenza “normale” dell’intervento, il deciso peggioramento riportato dallo (OMISSIS).

Entrambi i motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto affrontano i temi, strettamente collegati, della ripartizione dell’onere probatorio in tema di responsabilita’ medica e del contenuto della prova liberatoria a carico del medico o della struttura sanitaria all’interno della quale questi abbia prestato la sua opera, sono fondati e vanno accolti.

L’affermazione sopra riportata contenuta nella sentenza di appello si pone in contrasto con i piu’ recenti arresti di questa Corte in tema di ripartizione dell’onere probatorio in caso di responsabilita’ medica, in cui si e’ affermato:

– che la natura facile o difficile della prestazione non incide sulla ripartizione dell’onere probatorio ma rileva solo sul piano del grado di colpa del professionista (nel senso che per gli interventi piu’ complessi il professionista puo’ essere esente da responsabilita’ ove sia incorso in colpa lieve) ma non rileva affatto sul piano della ripartizione degli oneri probatori. A questo proposito, la Corte ha recentemente espresso il seguente principio di diritto: “In tema di responsabilita’ civile derivante da attivita’ medico-chirurgica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratta ed allegare l’inadempimento del professionista, restando a carico dell’obbligato l’onere di provare l’esatto adempimento, con la conseguenza che la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficolta’ non vale come criterio di ripartizione dell’onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, spettando, al sanitario la prova della particolare difficolta’ della prestazione, in conformita’ con il principio di generale “favor” per il creditore danneggiato cui l’ordinamento e’ informato” (Cass. n. 22222 del 2014);

– che l’onere probatorio e’ cosi’ ripartito: grava sul paziente l’onere di dimostrare il rapporto col medico o con la struttura sanitaria e il peggioramento delle sue condizioni a seguito dell’intervento, ovvero l’esistenza di un nesso causale tra l’intervento ed il danno riportato, mentre grava sulla struttura, anche in caso di operazioni di particolare difficolta’, l’onere di fornire la prova liberatoria, ovvero di provare che l’aggravamento delle condizioni del paziente, ove obiettivamente verificatosi, fosse dipeso da cause ad essa non imputabili, ovvero a cause esterne, non riconducibili alla struttura (Cass. n. 8826 del 2007, Cass. n. 24791 del 2008);

– che, ai fini della sussistenza del nesso causale, l’onere probatorio in ordine alla ricorrenza del nesso di causalita’ materiale – quando l’impegno curativo sia stato assunto senza particolari limitazioni circa la sua funzionalizzazione a risolvere il problema che egli presentava – si sostanzia nella prova che l’esecuzione della prestazione si e’ inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta la prestazione, o dal suo aggravamento, fino ad esiti finali costituiti dall’insorgenza di una nuova patologia o dal decesso del paziente (in questo senso Cass. n. 20904 del 2013).

Pertanto, in tema di responsabilita’ contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilita’ professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia in rapporto causale con l’intervento medico ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi e’ stato ovvero che, pur esistendo, esso non e’ stato eziologicamente rilevante (Cass. n. 577 del 2008; il suddetto principio e’ stato ripreso da numerose altre pronunce che hanno puntualizzato che il danneggiato abbia l’onere di allegare qualificate inadempienze del medico o della struttura sanitaria, astrattamente idonee a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, restando poi a carico del debitore convenuto l’onere di dimostrare che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno).

Anche il secondo motivo di ricorso e’ fondato.

La corte d’appello ha affermato che fosse sufficiente a respingere la domanda di risarcimento dei danni nei confronti della struttura sanitaria, il fatto che nessun comportamento negligente o imperito fosse stato accertato in capo ai medici che eseguirono l’intervento.

E tuttavia tale conclusione non fa buon governo sia del principio di ripartizione dell’onere probatorio, sia delle norme che regolano il contenuto della prova liberatoria in capo alla struttura sanitaria, in particolare nel caso come quello considerato in cui l’intervento chirurgico abbia avuto un esito non in termini di in alterazione, ma nel senso di un deciso peggioramento delle condizioni fisiche del paziente.

La corte parte dall’erroneo presupposto che sia il danneggiato a dover provare la colpa in concreto del medico, ovvero che debba indicare positivamente quali comportamenti imperiti o negligenti questi abbia posto in essere, dotati di efficienza causale sull’aggravamento della condizione del paziente.

Non considera che il contenuto dell’onere probatorio a carico del paziente – danneggiato si limiti, in caso di esito peggiorativo dell’intervento, alla prova di essersi sottoposto all’intervento presso la struttura e di aver riportato, a causa dell’intervento, un obiettivo peggioramento delle proprie condizioni fisiche che si trovi in rapporto di causalita’ con l’intervento stesso.

Spettera’ poi al medico o alla struttura (in questo caso e’ stata evocata in giudizio la sola struttura sanitaria) dimostrare non soltanto di non aver compiuto alcun errore nella esecuzione dell’intervento ma anche che l’obiettivo aggravamento sia dovuto a causa non imputabile alla struttura, esterna quindi rispetto alla esecuzione dell’intervento stesso.

In definitiva, le regole di distribuzione degli oneri probatori fanno si’ che, a tutela del paziente che si affida ad una struttura sanitaria per sottoporsi ad un intervento chirurgico, l’onere probatorio del medico, nel fornire la prova liberatoria dalla sua responsabilita’ e’ correttamente adempiuto laddove questi non si limiti a provare la correttezza della propria prestazione, ma sia in grado di dimostrare anche, in positivo, che l’esito infausto e’ dovuto ad un altro evento individuato (preesistente o sopravvenuto) indipendente dalla propria volonta’ e sfera di controllo.

Qualora rimanga incerta la causa dell’esito infausto, la situazione processuale di sostanziale incertezza circa l’assenza di colpa del medico, e circa le cause dell’aggravamento, non puo’ esser fatta ricadere sul paziente (che non e’, oltretutto, il soggetto che dispone degli strumenti e che ha accesso a tutte le informazioni per poter accertare la vera causa del suo aggravamento), ma ricade sul sanitario o sulla struttura, che non riesce a liberarsi dalla sua responsabilita’. Si precisa che la prova liberatoria potrebbe anche consistere nella individuazione di un fatto, imprevisto e imprevedibile ma pur sempre riconducibile alla condizione fisica del paziente, il quale potrebbe in ipotesi avere un crollo della proprie condizioni generali non prevedibile a priori.

I principi sopra richiamati sono stati recentemente ribaditi da Cass. n. 22222 del 2014, gia’ citata in precedenza. A questi principi non si e’ attenuta la sentenza impugnata. Seguono poi, nella esposizione dei ricorrenti, i motivi da 3 a 7 in ordine ai quali gli stessi ricorrenti puntualizzano che sono piu’ che altro volti a segnalare quello che il giudice di rinvio dovra’ meglio esaminare.

Il terzo motivo e’ una sorta di corollario dei precedenti due sotto il profilo del vizio di motivazione: con esso i ricorrenti si dolgono della insufficiente motivazione della sentenza impugnata sugli elementi di fatto costitutivi della nozione di “problemi tecnici di speciale difficolta’”. Evidenziano che la rilevanza di questa nozione sfuma nel corpo della motivazione in conseguenza della errata impostazione data dalla corte d’appello alla ripartizione degli oneri probatori, laddove ha ribaltato sul paziente la prova della colpa del medico. Citano alcuni precedenti di legittimita’ secondo i quali l’intervento puo’ ritenersi di particolare difficolta’ quando implica la soluzione di problemi tecnici nuovi o di particolare complessita’ (Cass. n. 8826 del 2007 e Cass. n. 20790 del 2009, tra le altre) e sostengono che dalla stessa c.t.u. emerga che era comunque una patologia gia’ studiata, per la quale esistevano dei protocolli, in cui il tipo di intervento praticato era la metodica piu’ utilizzata e era correlata ad una significativa (oltre due terzi) possibilita’ di miglioramento clinico. Quindi ritengono che sia errata e non adeguatamente motivata la riconduzione, da parte della corte d’appello, dell’intervento praticato sullo (OMISSIS) nel novero degli interventi tecnici di particolare difficolta’.

Il motivo e’ infondato.

Premesso che la riconduzione, nel caso concreto, dell’intervento cui si sia sottoposto il danneggiato, tra gli interventi di particolare difficolta’ o meno (rilevante come ben chiarito, da ultimo, da Cass. n. 22222 del 2014, esclusivamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, spettando al sanitario la prova della particolare difficolta’ della prestazione) sia valutazione in fatto, non suscettibile di riconsiderazione in sede di legittimita’ ove adeguatamente motivata, la motivazione e’ adeguata sul punto. Essa fa leva sia sul fatto che la patologia da cui era affetto lo (OMISSIS) (malformazione di Arnold-Chiari) fosse una patologia rara, e in piu’ che l’intervento chirurgico neurologico doveva essere eseguito su un paziente non perfettamente sano, ma con strutture anatomiche gia’ gravate dagli esiti di un grave trauma fratturativo (l’incidente in moto subito dallo S. qualche anno prima). La sentenza precisa poi che, come segnalato dai c.tu., l’intervento chirurgico era l’unica via percorribile per cercare di migliorare la condizione del paziente e per evitarne il futuro peggioramento e che tuttavia quel tipo di intervento, per la sua obiettiva difficolta’ e delicatezza (esso comportava l’apertura della volta cranica, l’intervento sui nervi, l’asportazione di una sezione di vertebra) portava statisticamente ad un esito migliorativo solo nei due terzi dei casi.

Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano nuovamente la presenza di un vizio di insufficiente motivazione, questa volta sul punto decisivo e controverso della intensita’ del peggioramento del paziente conseguente all’intervento.

Criticano che, in ordine ai postumi peggiorativi riportati dallo (OMISSIS), la motivazione della sentenza faccia rinvio molto sbrigativamente alle conclusioni della c.t.u., senza neppure riportarne i passi piu’ significativi. Dedicano poi pagine e pagine del ricorso non a segnalare la lacunosita’ della motivazione sul punto degli esiti della operazione e delle conseguenze della caduta, ma a criticare direttamente la consulenza tecnica, in particolare in riferimento al punto in cui essa affermava che gli aggravamenti riscontrati sia al momento delle dimissioni che a un mese e mezzo di distanza si sarebbero presumibilmente risolti nel tempo perche’ nelle cartelle cliniche relative ai successivi ricoveri presso la stessa struttura sanitaria convenuta in giudizio non se ne faceva piu’ menzione. Dicono di aver censurato gia’ in appello il fatto che si fossero poste a fondamento della decisione cartelle cliniche lacunose, in cui la mancata descrizione dei disturbi non corrispondeva alla loro scomparsa, ma piuttosto ad omissioni chiare e riprovevoli da parte dei responsabili dell’ospedale che avevano redatto le stesse. Lamentano che i ctu non abbiano invece considerato tutta la documentazione medica esterna all’ospedale di (OMISSIS), da cui risulta chiaramente che il paziente non aveva mai piu’ recuperato la stazione eretta, ne’ erano cessati i disturbi alla parola e all’espressione del volto, e che nel 1995, a distanza di due anni, lo (OMISSIS) per tentare di migliorare la situazione aveva dovuto sottoporsi ad una nuova laminectomia presso altra struttura sanitaria.

Il motivo di ricorso, cosi’ come e’ formulato, e’ inammissibile: esso non censura adeguatamente, come pur avrebbe potuto, la lacunosita’ della motivazione della sentenza nell’individuare gli esiti dell’operazione e le modalita’ della degenza comportanti un aggravamento delle condizioni dello (OMISSIS), ne’ che essa si limita a recepire gli esiti della consulenza senza neppure riportarne i passi che ritiene fondanti per la sua decisione, ma si dilunga a censurare il contenuto della consulenza tecnica, che non e’ oggetto ne’ puo’ essere oggetto del presente giudizio di impugnazione.

L’esame del sesto motivo e’ preliminare all’esame del quinto motivo, in quanto con esso si denuncia la nullita’ della sentenza, ex articolo 360 c.p.c., n. 4, per aver erroneamente qualificato come tardive le eccezioni mosse dal paziente e dai suoi familiari in relazione alla difettosa tenuta delle cartelle cliniche dello (OMISSIS) da parte della struttura sanitaria.

I ricorrenti non contestano che i rilievi relativi alla difettosa tenuta della cartella clinica, laddove non descrive neppure la caduta dello (OMISSIS) dal letto ne’ le sue conseguenze, furono effettivamente svolti, nel corso del giudizio di primo grado, dopo la scadenza dei termini ex articoli 183 e 184 c.p.c., soltanto all’esito del deposito della ctu.. Sostengono di averli introdotti in causa nel primo momento utile, perche’ solo dalla lettura della consulenza i ricorrenti ebbero modo di apprendere che la cartella clinica non contenesse alcuna indicazione che consentisse di chiarire le modalita’ della caduta ne’ le sue conseguenze.

Il motivo e’ tuttavia infondato.

Le contestazioni dei ricorrenti relative alla lacunosita’ della cartella clinica furono svolte, incontestatamente, in un momento in cui erano scaduti i termini per precisare il thema decidendum ed anche il thema probandum.

Non risulta che i ricorrenti abbiano dedotto nei precedenti gradi di giudizio che la cartella clinica non fosse stata prodotta in precedenza dall’ospedale o che esso avesse rifiutato di rilasciarla al paziente che l’aveva richiesta, e che solo il consulente fosse stato in grado di visionarla, mettendoli in condizione di fare i rilievi relativi ad essa solo dopo il deposito della consulenza.

Il paziente che assuma di aver riportato un danno durante la sua permanenza ospedaliera ben puo’ e deve, prima dell’inizio del giudizio o comunque prima della scadenza del termine per le produzioni documentali, chiedere alla struttura sanitaria entro la quale e’ stato operato di rilasciargli la cartella clinica. Se avesse incontrato un ingiustificato rifiuto da parte della struttura ospedaliera, avrebbe potuto chiedere al giudice remissione di un ordine di esibizione.

I ricorrenti avrebbero quindi avuto la possibilita’ e l’onere di verificare direttamente la lacunosita’ della cartella gia’ prima del deposito della consulenza tecnica, senza dover attendere una indicazione in tal senso dal consulente, anche perche’ la verifica della mancata indicazione di fatti rilevanti nella cartella non necessitava di particolari cognizioni tecniche estranee alle competenze della parte.

Pertanto la sentenza, laddove ritiene tardivo il loro tentativo di introdurre nel thema decidendum i riferimenti alle carenze della cartella clinica, non contiene alcuna violazione di legge.

Infine, sempre all’interno di questo motivo, i ricorrenti sostengono che la difettosa tenuta dei documenti clinici rilevasse nel caso di specie anche come criterio fondante del ricorso alle presunzioni e che come tale essa sia stata invocata dagli attori, e che la possibilita’ di far ricorso alle presunzioni non vada incontro ad alcuna preclusione. Ovvero, essi sostengono che anche se il giudice non avesse potuto tener conto dei loro rilievi in ordine alla difettosa tenuta della cartella clinica come fatti costitutivi della loro pretesa risarcitoria e di una diretta responsabilita’ della struttura, avrebbe potuto tenerne conto per consentire loro il ricorso alla prova presuntiva, in applicazione del principio di diritto secondo il quale in tema di responsabilita’ professionale del medico, le omissioni nella tenuta della cartella clinica al medesimo imputabili rilevano sia ai fini della figura sintomatica dell’inesatto adempimento, per difetto di diligenza, in relazione alla previsione generale dell’articolo 1176 c.c., comma 2, sia come possibilita’ di fare ricorso alla prova presuntiva, poiche’ l’imperfetta compilazione della cartella non puo’, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria (Cass. n. 1538 del 2010).

E tuttavia, si ritiene che, laddove un fatto costitutivo della pretesa non sia stato tempestivamente introdotto in giudizio dalla parte che ne aveva la possibilita’ e l’interesse, a meno che la stessa parte non alleghi di esserne stata impossibilitata per il comportamento ostativo tenuto dalla controparte, essa non possa trarne conseguenze a se’ favorevoli, anche in ordine al ricorso alle presunzioni, qualora il medesimo fatto emerga processualmente tardivamente ed irritualmente perche’ non allegato dalla parte ma riportato dal consulente tecnico. La consulenza e’ infatti pur sempre un mezzo di valutazione dei fatti costituenti la prova, e non uno strumento di acquisizione dei fatti (v. Cass. n. 24620 del 2007), e poiche’ la presunzione opera consentendo di dedurre da un fatto noto l’esistenza di un fatto ignoto, essa deve poter muovere pur sempre da un fatto acquisito al processo (sebbene non necessariamente proveniente dalla parte che della presunzione si gioverebbe).

Al rigetto del sesto motivo consegue anche il rigetto del quinto, in quanto con il quinto motivo di ricorso i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione, ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, delle regole legali in tema di rilevanza probatoria – articoli 2697 e 2729 c.c., articolo 115 c.p.c. – per la mancata considerazione da parte della sentenza impugnata, anche ai fini della distribuzione degli oneri probatori, della lacunosita’ della documentazione clinica che il sanitario ha il dovere di predisporre, e questo sia in relazione alla valutazione del decorso post-operatorio sia per valutare le conseguenze cliniche della caduta dal letto durante il ricovero.

Contestano che la sentenza – ma in realta’ la ctu – abbia potuto legittimamente trarre dati favorevoli ai sanitari (in ordine alla non ricorrenza degli aggravamenti a qualche mese dall’intervento) dalla lacunosa tenuta delle cartelle cliniche, in cui tali aggravamenti, pur permanenti, non venivano riportati, ed evidenziano l’errore di diritto nel trarre dati favorevoli ai sani tari sempre dalla difettosa tenuta della cartella clinica anche in ordine alla mancanza di prova del nesso causale tra la caduta dal letto dello (OMISSIS), a soli tre giorni da una operazione al cervello, e il suo successivo aggravamento, e che non si sia accertato che dalla caduta esito’ un trauma cranico, con emorragia che non pote’ non concorrere a determinare l’aggravamento nelle condizioni del paziente.

La motivazione della sentenza e’ a dir poco stringata sia in riferimento alla prova dell’aggravamento delle condizioni dello (OMISSIS) nel decorso post-operatorio, sia nel valutare su chi ricadano le conseguenze pregiudizievoli della lacunosa tenuta delle cartelle cliniche. Essa si limita a rinviare alla c.t.u. affermando di condividerne le conclusioni. Nella consulenza (i cui passi salienti sono ampiamente riportati dai ricorrenti) si riferisce che ci fu una emorragia post operatoria, ma il consulente esclude che si possa metterla in diretto rapporto di causalita’-dipendenza con la caduta dal letto stante l’esiguita’ dei dati clinici circostanziali in possesso dei consulenti, sottolineando tutte le lacune della cartella clinica in ordine alla caduta e ai suoi esiti.

Tuttavia, poiche’ le deduzioni relative alla irregolare e lacunosa tenuta della cartella clinica sono da ritenersi tardive, per le ragioni esposte in relazione al sesto motivo di ricorso, non possono essere esaminate le critiche alla sentenza impugnata sul punto.

Esse sono poi in ammissibilmente indirizzate, con tecnica simile a quella utilizzata per il quarto motivo di ricorso, direttamente verso la consulenza piuttosto che verso la sentenza.

Con il settimo motivo di ricorso, i ricorrenti si dolgono della omessa motivazione della sentenza impugnata in ordine al fatto decisivo e controverso relativo alla presenza di una emorragia cerebrale verificatasi nel decorso post-operatorio e della sua incidenza causale sulle condizioni del paziente al momento delle dimissioni.

Anche a questo proposito i ricorrenti, anziche’ evidenziare la lacunosita’ della motivazione sul punto, astrattamente ipotizzabile allorche’ il giudice, che ben puo’ porre a base del suo convincimento i dati fornitigli dal consulente, ometta di rielaborarli e si limiti a recepirli acriticamente senza sussumerli nelle categorie logico giuridiche che dovra’ utilizzare per decidere la causa, imperniano anche questo motivo di ricorso sulla diretta critica della consulenza tecnica. Essi infatti non segnalano il pianto in cui ritengono che la motivazione sia carente, ma riportano ampi stralci della consulenza, laddove essa ha riferito il verificarsi di una emorragia postoperatoria, pero’ ha ritenuto trattarsi con maggiore probabilita’ di complicazione post-operatoria, accidentale, benigna (?)) e autolimitatasi, cioe’ successivamente ridottasi, piuttosto che una conseguenza della caduta dal letto (precisando di non essere in grado di verificare l’esistenza di quest’ultimo rapporto causale a causa della carenza delle indicazioni contenute nella cartella clinica dello (OMISSIS)).

I ricorrenti osservano anche che i ctu comunque stimarono l’esistenza di un danno biologico temporaneo conseguente alla caduta, reputando che essa avesse in ogni caso quanto meno allungato i tempi di recupero del paziente, e che di questo la corte d’appello non abbia tenuto conto: e’ una considerazione che avrebbe potuto avere la sua rilevanza ove legata ad una puntuale critica della motivazione della sentenza impugnata, che in questo caso manca.

Il motivo di ricorso e’ pertanto inammissibile.

I motivi n. 8 e 9 possono essere trattati congiuntamente, in quanto denunciano entrambi la presenza di vizi della sentenza in relazione al contenuto delle informazioni necessarie a soddisfare i doveri del sanitario in tema di raccolta del consenso informato, il primo sotto il profilo della violazione di legge ed il secondo sotto il profilo del vizio di motivazione.

Essi vanno accolti per le ragioni che seguono.

La sentenza d’appello e’ criticata dai ricorrenti laddove conferma la decisione di primo grado di rigetto della domanda di responsabilita’ dei sanitari per mancanza di una adeguata informazione al paziente circa i rischi e i possibili esiti dell’intervento chirurgico, ritenendo che essa sia stata sufficientemente fornita sulla base della confessione resa dalla madre dello (OMISSIS) al consulente tecnico. La stessa riferi’ infatti al consulente che alla sua presenza, prima dell’intervento del (OMISSIS), il neurochirurgo parlo’ al figlio spiegandogli “in termini non scientificamente ortodossi” la patologia, la finalita’ e la necessita’ dell’intervento che avrebbe eseguito nel tentativo di migliorare i sintomi della malattia.

La corte d’appello ha ritenuto, sulla base di questa dichiarazione, cui ha attribuito valore di confessione stragiudiziale, che sia stata fornita la prova che lo (OMISSIS) abbia ricevuto sufficienti informazioni, prima dell’intervento, che gli hanno consentito di scegliere consapevolmente se sottoporvisi o meno.

Quanto al valore della dichiarazione resa dalla parte, nel corso del processo, all’ausiliare del giudice, questa Corte ha gia’ avuto modo di affermare che la dichiarazione resa dalla parte, o dal suo legale rappresentante, al terzo, quale e’ da considerare in questa situazione il consulente tecnico d’ufficio, di fatti a se’ sfavorevoli, puo’ aver valore di confessione stragiudiziale, e come tale e’ liberamente apprezzabile dal giudice di merito ai sensi dell’articolo 2735 c.c., comma 1, con apprezzamento che, se congruamente motivato, non e’ sindacabile in sede di legittimita’, (in questo senso Cass. n. 18987 del 2003).

Occorre pero’ considerare che la confessione, per avere il valore che la legge le attribuisce ovvero per integrare una dichiarazione resa da una parte di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte, deve essere resa personalmente dalla stessa parte a cui i fatti confessati si riferiscono (o da un suo rappresentante). Sostengono i ricorrenti, che la dichiarazione resa dalla (OMISSIS) non potesse avere valore confessorio, non provenendo dalla parte legittimata a renderla ne’ dal suo rappresentante, che era solo il paziente, (OMISSIS), ma da altra parte del giudizio.

Nel caso di specie la (OMISSIS), anch’essa parte del processo, ha riferito un fatto che si e’ verificato in sua presenza ed e’ caduto quindi nell’ambito della sua sfera percettiva (ovvero l’informativa resa dal neurologo al figlio prima della operazione). Appare corretta quindi la possibilita’ di attribuire a tale dichiarazione valore di confessione stragiudiziale ma non in ordine alla prestazione da parte del paziente del consenso informato, come sostenuto dalla corte, bensi’ ad un piu’ limitato fine.

Tale dichiarazione infatti non e’ idonea a costituire confessione in ordine alla prestazione di un consapevole consenso all’operazione da parte del paziente, perche’ questa e’ una valutazione, e dichiarazione, che solo lo (OMISSIS) direttamente avrebbe potuto rendere con valore confessorio).

Prestando attenzione all’effettivo, e limitato, contenuto della dichiarazione, ad essa puo’ essere attribuito valore di confessione stragiudiziale prestata una delle parti in ordine al piu’ circoscritto fatto che in sua presenza una informazione di un certo contenuto sulla futura operazione sia stata fornita dal medico al paziente.

La sentenza impugnata non si e’ poi fatta carico di esaminare esplicitamente il problema della utilizzabilita’ e del valore da attribuire alla confessione stragiudiziale resa da un litisconsorte facoltativo nei confronti degli altri litisconsorti.

La motivazione della sentenza e’ incorsa in violazione di legge ed in incongruita’ della motivazione in ordine al contenuto degli obblighi di informazione del medico verso il paziente, in particolare in relazione al contenuto minimo di completezza che debba avere l’informazione fornita dai sanitari al paziente al fine di consentirgli di scegliere consapevolmente se sottoporsi o meno all’intervento.

La finalita’ dell’informazione, che il medico e’ tenuto a dare, e’ quella di assicurare il diritto all’autodeterminazione del paziente (v. anche Cass. 9.2.2010, n. 2847), in quanto, senza il consenso informato, l’intervento del medico e’ – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessita’ – sicuramente illecito, anche quando sia nell’interesse del paziente. Cio’, in quanto, secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008), il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’articolo 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che la liberta’ personale e’ inviolabile e che nessuno puo’ essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Nell’ipotesi di inosservanza dell’obbligo di informazione in ordine alle conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto viene pertanto a configurarsi a carico del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) una responsabilita’ per violazione dell’obbligo del consenso informato, in se’ e per se’, a prescindere dal fatto che il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno, che esso abbia dato esito positivo o meno. Cio’ che rileva e’ che il paziente, a causa del deficit di informazione non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volonta’ consapevole delle sue implicazioni, consumandosi, nei suoi confronti, una lesione di quella dignita’ che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza, fisica e psichica (v. Cass. 28.7.2011n. 16543).

Posto che tale informazione e’ condizione indispensabile per la validita’ del consenso, consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, e’ necessario che il sanitario fornisca al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che intende praticare o l’intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalita’ (v. Cass. n. 15698/2010, Cass. n. 27751 del 2013). L’obbligo di informazione, che deve essere particolarmente dettagliato al fine di garantire lo scrupoloso rispetto del diritto di autodeterminazione del paziente, non comprende i rischi imprevedibili, ovvero agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, in quanto, una volta realizzatisi, verrebbero comunque ad interrompere il necessario nesso di casualita’ tra l’intervento chirurgico e l’evento lesivo.

Nel caso di specie, dalla scarna dichiarazione della (OMISSIS) resa al c.t.u., riportata nella sentenza di appello, risulterebbe che il neurochirurgo spiego’ allo (OMISSIS), prima dell’intervento, la patologia da cui questi era affetto, nonche’ la necessita’ e la finalita’ dell’intervento. Non vi e’ altro nella motivazione sul contenuto delle informazioni fornite al paziente. Non vi e’ nulla, in particolare, che indichi che il paziente fu adeguatamente informato delle probabilita’ di successo dell’intervento e dei rischi ai quali egli andava incontro sottoponendosi ad esso nonche’ in ordine alle sue possibili complicazioni, il tutto in presenza comunque di un delicato e complesso intervento neurologico al cervello e di una situazione fisica gia’ gravata da un precedente evento traumatico sempre al cervello.

Considerato che la sentenza impugnata non si e’ uniformata ai principi su indicati in tema di completo assolvimento degli obblighi di informazione da parte del medico ai fini della prestazione di un valido consenso informato, il ricorso per cassazione in esame deve essere accolto anche sotto questo profilo.

Infine, con il decimo ed ultimo motivo di ricorso, gli eredi dello (OMISSIS) denunciano la violazione delle regole legali sulla determinazione del termine di prescrizione applicabile ai diritti risarcitoli spettanti iure proprio ai congiunti del paziente leso in conseguenza della violazione degli obblighi contrattuali della struttura sanitaria e sostengono che per attrazione si applicherebbe anche ai diritti fatti valere iure proprio dai congiunti del danneggiato il piu’ lungo termine di prescrizione decennale che si applica nei rapporti tra il paziente e la struttura sanitaria.

Il motivo e’ infondato.

Il termine di prescrizione applicabile al diritto per il quale si agisce discende dal titolo. Al danneggiato che agisce per il danno diretto subito a seguito di un intervento chirurgico nei confronti della struttura sanitaria, la sentenza impugnata ha correttamente applicato il termine di prescrizione decennale, essendo la responsabilita’ della struttura sanitaria verso i propri pazienti inquadrata nell’ambito della responsabilita’ contrattuale. La stessa durata ha la prescrizione se il diritto al risarcimento si trasferisce, a causa del decesso della vittima, ai suoi congiunti ed eredi.

Viceversa, il diritto che i congiunti vantano, autonomamente sebbene in via riflessa ad essere risarciti dalla medesima struttura dei danni da loro direttamente subiti a causa dell’esito infausto dell’operazione subita dal danneggiato principale, si colloca nell’ambito della responsabilita’ extracontrattuale e pertanto e’ soggetto al termine di prescrizione quinquennale previsto per tale ipotesi di responsabilita’ dall’articolo 2947 c.c., non potendosi giovare del termine piu’ lungo per far valere i propri diritti del quale gode il danneggiato principale in virtu’ del diverso inquadramento, contrattuale, del suo rapporto con il soggetto responsabile.

Cosa diversa dalla durata della prescrizione e’ l’individuazione del momento di decorrenza iniziale di essa, che in ipotesi potrebbe iniziare a decorrere in un momento successivo all’evento afflittivo subito dalla vittima principale, qualora uno dei parenti lamentasse che il danno iure proprio si e’ verificato, in tutto o in parte, solo successivamente alla operazione con esito infausto, per l’aggravarsi delle condizioni della vittima, per le ricadute della invalidita’ post-operatoria sulla vita familiare e l’aumento dei degli impegni legati ala necessita’ di assistenza del congiunto, per la depressione sopraggiunta insieme alla consapevolezza del radicalizzarsi e cronicizzarsi di una condizione di infermita’ in capo al danneggiato principale. Nel caso di specie la sola (OMISSIS) aveva dedotto di essere caduta in depressione a causa del radicalizzarsi della situazione di totale invalidita’ del figlio, a far data dal 2003, ma la corte d’appello aveva Ritenuto prescritta anche la domanda da lei proposta iure proprio considerando l’illecito istantaneo e fissando l’inizio della decorrenza del termine di prescrizione alla data dell’intervento chirurgico. Questo profilo in materia di prescrizione non e’ stato in questa sede censurato.

Conclusivamente, la sentenza impugnata va cassata in accoglimento del primo, secondo, ottavo e nono motivo di ricorso, e la causa va rimessa alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione, che la decidera’ attenendosi ai seguenti principi di diritto:

1) In tema di responsabilita’ civile nell’attivita’ medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilita’ contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del “contatto sociale”) e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalita’ con l’adone o l’omissione dei sanitari, ed allegare la colpa della struttura, restando a carico dell’obbligato – sia esso il sanitario o la struttura – la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile, rimanendo irrilevante, sotto il profilo della distribuzione dell’onere probatorio, che si tratti o meno di intervento di particolare difficolta’;

2) In tema di responsabilita’ civile nell’attivita’ medico-chirurgica, il contenuto dell’onere probatorio a carico del paziente- danneggiato si limita, in caso di esito peggiorativo dell’intervento, alla prova di essersi sottoposto all’intervento presso la struttura e di aver riportato, a causa dell’intervento, un obiettivo peggioramento delle proprie condizioni fisiche che si trovi in rapporto di causalita’ con l’intervento stesso. Spetta invece al medico o alla struttura sanitaria dimostrare non soltanto che non siano stati compiuti errori nella esecuzione dell’intervento ma anche che l’obiettivo aggravamento sia dovuto a una causa individuata non imputabile alla struttura;

3) Il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, impone che quest’ultimo fornisca al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che intende praticare o l’intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalita’ e l’indicazione delle probabilita’ di successo e di in alterazione, dei possibili rischi ad esso connessi e delle eventuali conseguente, sia pure infrequenti, col solo limite dei rischi imprevedibili, ovvero degli esiti anomali, al limite del fortuito, che qualora realizzatisi verrebbero comunque ad interrompere il necessario nesso di casualita’ tra l’intervento e l’evento lesivo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, il secondo, l’ottavo e il nono motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione che decidera’ anche in ordine alle spese

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