Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 15 gennaio 2015, n. 1738

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIALE Aldo – Presidente
Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere

Dott. ACETO Aldo – Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 89/2013 TRIB. LIBERTA’ di PERUGIA, del 24/09/2013;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

sentite le conclusioni del PG Dott. G. Mazzotta, rigetto del ricorso;

Udito il difensore (OMISSIS) foro di Perugia (sost. proc.).

RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 24 settembre 2013 il Tribunale di Perugia ha rigettato l’istanza di riesame presentata da (OMISSIS) – indagato per il reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, per non avere, nella sua qualita’ di legale rappresentante di (OMISSIS) S.r.l., versato nei termini previsti per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo l’Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale per l’anno 2010, per un totale di euro 251.026 – avverso decreto del 25 luglio 2013 con cui il gip dello stesso Tribunale aveva sottoposto a sequestro preventivo la somma di euro 251.026 – o la minor somma risultante dalla sottrazione dell’imposta pagata – in possesso del suddetto o collocato sui suoi conti correnti; in mancanza di tale somma aveva disposto sequestro di beni mobili registrati e/o immobili di proprieta’ dell’indagato per un valore equivalente.
2. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di due motivi.
Il primo motivo denuncia violazione degli articoli 321 e 125 c.p.p.. Il piano di pagamento rateizzato dell’Iva dovuta dalla societa’ di cui il ricorrente e’ il legale rappresentante concordato con l’Agenzia delle Entrate non sarebbe stato elemento correttamente interpretato dal Tribunale: nella richiesta di riesame, infatti, sarebbe stato addotto non per attestare l’insussistenza del reato, bensi’ per sostenere la richiesta di riduzione del sequestro avanzata in subordine.
Il secondo motivo denuncia violazione degli articoli 321 e 125 c.p.p., articolo 322 ter c.p., e Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, con correlato vizio motivazionale. Sarebbe infatti apparente la motivazione relativa al primo motivo della richiesta di riesame, che aveva negato i presupposti del sequestro preventivo prevalente in quanto il profitto sarebbe comunque appartenente alla societa’ quale soggetto che ha evaso e in ogni caso sarebbe stato necessario dimostrare che i beni della societa’ erano incapienti e/o che il profitto non sarebbe stato conseguito da essa. Essendo il sequestro per equivalente residuale, pertanto, “sia il Pubblico Ministero, sia il Giudice per le indagini preliminari avrebbero dovuto fornire rigorosa prova in ordine all’affermata impossibilita’ di procedere al sequestro” nei confronti della societa’, indagine che non sarebbe stata svolta. Inoltre, il fatto che la misura cautelare sia stata disposta fino alla concorrenza dell’imposta non versata dalla societa’ costituirebbe “ulteriore vulnus” del provvedimento impugnato perche’ sarebbe “illegittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente quando la misura non rechi alcuna valutazione circa il valore dei beni da sequestrare, necessaria a verificare il rispetto del principio della proporzionalita’”, che invece non era stato considerato neppure nella fase esecutiva.
In data 4 febbraio 2014 il difensore ha depositato una memoria che invoca il recente arresto di S.U. 30 gennaio 2014, Gubert, asserendo che ivi si e’ trattata la stessa questione proposta nel ricorso e che ne conseguirebbe l’impossibilita’ di un sequestro prevalente finalizzato alla confisca nei confronti del legale rappresentante di una persona giuridica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso e’ fondato.
3.1 Il primo motivo ha rilevato che nel primo motivo della richiesta di riesame era stata richiamata l’esistenza di un piano di rientro stipulato con l’Agenzia delle Entrate non per sostenere l’insussistenza del reato, bensi’ per chiedere la riduzione del vincolo, e che il Tribunale ha travisato quindi il contenuto della doglianza.
Effettivamente nell’ordinanza impugnata l’esistenza del piano di rientro viene valorizzata esclusivamente proprio in relazione al fumus commissi delicti, argomentando che il volontario pagamento del debito tributario “non determina affatto l’insussistenza del reato”: illogicamente, come ha evidenziato lo stesso ricorrente (ricorso, pagina 4). Il che ha comportato l’assoluta mancanza di motivazione sulla richiesta di riduzione del vincolo cautelare che era il reale oggetto del primo motivo della istanza di riesame. Per questo gode di fondatezza il primo motivo del ricorso, cio’ gia’ conducendo in parte qua all’annullamento con rinvio della ordinanza impugnata.
3.2 Il secondo motivo, piu’ complesso, e’ quello che nella memoria del 4 febbraio 2014 il ricorrente ha inteso correlare – pur non avendo ancora conoscenza della motivazione – con S.U. 30 gennaio – 5 marzo 2014 n. 10561, Gubert. In sintesi, il ricorrente richiama il proprio primo motivo di contestazione avanzato in sede di riesame, relativo alla asserita impossibilita’ di procedere a sequestro preventivo per equivalente sia perche’ il profitto del reato appartiene comunque al soggetto che ha evaso l’imposta – e quindi alla societa’ amministrata dall’indagato – sia perche’ il PM avrebbe preliminarmente dovuto “dimostrare che i beni della societa’ fossero incapienti e/o il profitto non fosse rinvenibile in capo a quest’ultima”. Su questo asserto si sviluppano i successivi argomenti, relativi anche al concetto di profitto, che ad avviso del ricorrente avrebbe dovuto essere approfondito, laddove, con netta insufficienza, i giudici di merito si sarebbero limitati a rilevare che il profitto derivante dal reato di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 10 ter, pur costituendo il risparmio equivalente all’imposta non pagata e pur essendo possibile rinvenire nelle casse della societa’ il tantundem, non sarebbe direttamente sequestrabile, in quanto la fungibilita’ del denaro renderebbe difficile la prova della pertinenzialita’; secondo il ricorrente, invece, e’ proprio la fungibilita’ che rende possibile il sequestro diretto.
3.2 Su questi aspetti e’ realmente intervenuto l’arresto delle Sezioni Unite, che, di fronte a una questione sorta dagli effetti della alterita’ soggettiva dell’ente al cui vantaggio viene commessa dal suo amministratore l’evasione fiscale tramite i reati tributari, ha assunto una posizione sostanzialmente di mediazione, da un lato confermando la – nettamente prevalente – giurisprudenza che detta alterita’ preservava e presidiava consentendo il sequestro preventivo per equivalente sui beni della societa’ solo nel caso in cui questa fosse una societa’ fittizia, ovvero uno schermo per la persona fisica dell’amministratore, e dall’altro valorizzando la disponibilita’ (gia’ riconosciuta da ulteriori precedenti: cfr. in particolare Cass. sez. 3 , 14 maggio 2013 n.33182) del sequestro diretto del profitto a carico della societa’ non fittizia in quanto qualificabile ente non estraneo al reato.
Il sequestro diretto, in queste fattispecie criminose consistendo il profitto nell’omesso esborso del denaro necessario per pagare l’imposta, non puo’ che avere, in siffatta impostazione, ad oggetto il denaro o altri beni fungibili (che sia possibile il sequestro diretto in tal senso, si nota per inciso, e’ gia’ stato contraddetto da Cass. sez. 5 , 4 giugno 2014, n. 27523, per cui il sequestro dovrebbe necessariamente avvenire per equivalente, sia perche’ il denaro e’ assolutamente fungibile, sia e soprattutto perche’ il profitto non ha mai avuto una dimensione fisica, ma e’ consistito in una immateriale entita’ contabile che, proprio per non aver dato luogo a un esborso, non si e’ mai “incorporata” in denaro contante: ottica, questa, piu’ contabile che giuridica). Sottolineano allora le Sezioni Unite che “la confisca diretta del profitto di reato e’ istituto ben distinto dalla confisca per equivalente”, e altresi’ che “la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non e’ confisca per equivalente, ma confisca diretta”. Nel caso, dunque, in cui non sia possibile effettuare una confisca del profitto diretta, la confisca per equivalente del profitto da reato viene a completare il sistema, “secondo una prospettiva non di tipo sanzionatorio, essendo fuori discussione la “irresponsabilita’” dell’ente, ma di ripristino dell’ordine economico perturbato dal reato, che comunque ha determinato una illegittima locupletazione per l’ente, ad “obiettivo” vantaggio del quale il reato e’ stato commesso dal suo rappresentante” (cosi’ ancora l’arresto delle Sezioni Unite in esame). Peraltro, l’autorevole pronuncia a supporto di una siffatta qualificazione della confisca a carico del soggetto “irresponsabile” richiama un precedente, S.U. 27 marzo 2008 n. 26654, Imp. Fisia Italimianti s.p.a. e altri, relativo a una fattispecie intrinsecamente diversa. Mentre, infatti, i reati tributari sono estranei, ancora, a quella normativa che, su impulso anche internazionale, e’ stata introdotta dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, su delega della Legge n. 300 del 2000, articolo 11, per contrastare la criminalita’ d’impresa e quindi praticamente superare il tradizionale fondamento societas delinquere et puniri non potest, e’ proprio in questo settore che la suddetta sentenza del 2008 si inserisce, dando atto che, nel caso di societa’ responsabile per illecito amministrativo dipendente da uno dei reati contemplati dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, la confisca del profitto disciplinata dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 9, comma 1, e’ sanzione, e giungendo invece a qualificare la confisca di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 6, comma 5, come riportato dalla sentenza Gubert. La confisca ex articolo 6, comma 5, del profitto derivato da reato commesso da persone con funzioni apicali dell’ente, infatti, concerne – osserva la pronuncia del 2008 – quella “ipotesi particolare in cui l’ente vada esente da responsabilita’, per avere validamente adottato e attuato i modelli organizzativi (compliance programs) previsti e disciplinati dalla stessa norma”. E’ per questo che non puo’ avere natura sanzionatoria, e costituisce quindi “uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti, appunto economici, sono comunque andati a vantaggio dell’ente collettivo”, che giungerebbe, in caso contrario, a conseguire, seppur incolpevolmente, un profitto geneticamente illecito; e la prova della natura non sanzionatoria viene identificata dalla pronuncia del 2008 proprio nel fatto che per tale confisca non puo’ disporsi sequestro preventivo.
D’altronde, la natura della confisca per equivalente in relazione ai reati tributari e’ stata recentemente riconosciuta sanzionatoria dalle stesse Sezioni Unite (S.U. 31 gennaio 2013 n. 18374, Adami ed altro, n. 18374 del 31/01/2013: “La confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dalla Legge n. 244 del 2007, articolo 1, comma 143, ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza dall’articolo 200 c.p., non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge citata”) e su questa linea si e’ posta la giurisprudenza anche dopo la sentenza Gubert (da ultimo Cass. sez. 3 , 6 marzo 2014 n. 18311, che da tale natura desume che il sequestro preventivo ad essa finalizzato “non richiede specifiche esigenze cautelari, essendo sufficiente il “fumus criminis” e la corrispondenza tra il valore dei beni oggetto del sequestro e il profitto o prezzo dell’ipotizzato reato”; cfr. sulla tematica pure Cass. sez. 3 , 27 febbraio 2013 n. 23649).
3.3 Ad ogni modo, nel sistema delineato dalla sentenza Gubert la confisca per equivalente (della quale, per quanto si e’ appena osservato, difficile e’ negare che l’effetto sia sanzionatorio; sarebbe forse il caso di riconoscere in essa una, per cosi’ dire, “sanzione oggettiva”, dato che anche in un ordinamento moderno sussistono istituti di responsabilita’ oggettiva, naturalmente – e costituzionalmente – non penali, e quindi dotati di presidi esclusivamente patrimoniali) e’ legittimata esclusivamente dalla impossibilita’ di applicare una vera sanzione, cioe’ la confisca diretta.
Non appare del tutto lineare, peraltro, il ragionamento dell’autorevole arresto – si nota per inciso – dal momento che la confisca diretta e’ stata riconosciuta come attuabile nei confronti della societa’ “reale”, cioe’ non fittizia: ma la posizione della societa’ sotto il profilo della responsabilita’ penale per reati tributari non puo’ che essere la stessa, sia che la confisca sia diretta, sia che la confisca sia per equivalente. E’ questo – sia consentito di rilevare – il punctum doiens della soluzione compromissoria adottata dalle Sezioni Unite: se la confisca e’ una pena, non puo’ essere inflitta a chi e’ estraneo al reato; e la natura della confisca non muta a seconda del suo oggetto, rimanendo pena sia che si tratti di confisca diretta, sia che si tratti di confisca per equivalente. Riemerge allora dal tessuto motivativo dell’autorevole arresto la questione dell’alterita’ soggettiva, superabile in modo razionalmente soddisfacente soltanto attraverso l’intervento del legislatore che, relativizzando la fictio juris che crea la persona giuridica, nella “corazza” societaria apra uno spiraglio di collegamento con la persona fisica che organicamente guida l’ente, intervento che, come si e’ visto, e’ stato gia’ attuato per altri settori e che sarebbe auspicabile fosse esteso anche ai reati tributari. Questa infatti, a ben guardare, e’ la reale conclusione della pronuncia delle Sezioni Unite, laddove si dichiarano “consapevoli che la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalita’”, anche, e proprio, per “il mancato inserimento dei reati tributari tra quelli previsti dal Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231”.
3.4 Nel caso in esame, peraltro, le oggettive criticita’ sopra evidenziate sono superabili, potendosi identificare il nucleo del motivo in esame nella pretesa illegittimita’ del sequestro per equivalente finalizzato alla confisca che sarebbe derivata dall’omessa verifica della incapienza dei beni della societa’, presupposto del passaggio dal sequestro diretto a carico di quest’ultima al sequestro per equivalente a carico dell’indagato, suo legale rappresentante. Nelle argomentazioni della ricorrente, si comprende che l’incapienza equivarrebbe proprio alla impossibilita’ di rinvenire nelle casse della societa’ il profitto, ovvero di effettuare il sequestro diretto. Ad avviso del ricorrente, infatti, come gia’ piu’ sopra si e’ riportato, prima di chiedere la disposizione del sequestro per equivalente al gip il PM avrebbe preliminarmente dovuto “dimostrare che i beni della societa’ fossero incapienti e/o il profitto non fosse rinvenibile in capo a quest’ultima”. Le Sezioni Unite, ben consapevoli che una interpretazione in tal senso avrebbe potuto, in realta’, “disinnescare” il dispositivo cautelare costituito dal sequestro per equivalente, obbligando il PM a un accertamento complesso e non compatibile ne’ con la natura urgente della cautela, ne’ con lo stadio accertatorio, generalmente incompleto, in cui questa deve inserirsi quale presidio prodromico della confisca disponibile ad accertamento positivo pieno, si sono pero’ pronunciate chiaramente su questo punto, affermando che, se e’ vero che “il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente e’ legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, sia pure transitoriamente, ovvero quando gli stessi non siano aggredibili per qualsiasi ragione” (sulla scorta di Cass. sez. 3 , 5 maggio 2009 n. 30930), “e’ necessario tuttavia chiarire che, versandosi in materia di misura cautelare reale, non e’ possibile pretendere la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato, giacche’, durante il tempo necessario per l’espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente, cosi’ vanificando ogni esigenza di cautela”. Riconosce in sostanza la autorevole pronuncia che, se si intende mantenere l’istituto cautelare, con cio’ non e’ compatibile una intensita’ di categorizzazione giuridica, tollerabile su un piano astratto, ma in concreto arrecante una paralisi, se non una severa deprivazione di efficacia dell’istituto stesso. Dunque, la cognizione su cui deve innestarsi l’opzione tra sequestro diretto e sequestro per equivalente deve adeguarsi, nella sua sommarieta’, al contesto informe in cui ancora si trova il procedimento, per cui e’ legittimo sequestrare per equivalente anche quando, come di solito avviene, non e’ ancora possibile stabilire se vi sara’ “confisca dei beni che costituiscono il prezzo od il profitto del reato, previa loro certa individuazione”, ed e’ parimenti legittimo anche il sequestro preventivo per equivalente nel caso in cui l’impossibilita’ del reperimento dei beni costituenti il profitto sia anche soltanto transitoria e reversibile.
3.5 Con l’insegnamento delle Sezioni Unite non e’ dunque compatibile la pretesa del ricorrente di un vero e proprio accertamento quale presupposto della richiesta da parte del PM di un sequestro preventivo per equivalente. Cio’ non significa, naturalmente, che il PM abbia una libera scelta tra il sequestro diretto e il sequestro per equivalente, bensi’ adegua i presupposti della cautela alla natura dell’istituto. Cosi’ come la cognizione e’ sommaria in ordine al fumus commissi delicti e al periculum in mora, parimenti non puo’ che essere sommaria in ordine alla identificazione della capienza patrimoniale dell’ente che ha tratto profitto dal reato tributario. Il che significa che il PM dovra’ effettuare una verifica di quanto risulta allo stato degli atti prima di chiedere la misura cautelare, non essendo invece obbligato a svolgere accertamenti specifici e ulteriori rispetto a quanto e’ gia’ confluito nel compendio indiziario. Spettera’ poi, semmai, all’interessato, in quanto assoggettato al vincolo del sequestro per equivalente, apportare dati dimostrativi della sequestrabilita’ diretta mediante gli strumenti procedurali che lo tutelano. Il discorso vale logicamente anche per la proporzionalita’ dei beni sequestrati, che non puo’ non essere valutata a livello sommario, salva ogni tutela successiva alla imposizione del vincolo.
Il Tribunale, nella ordinanza impugnata, ben anteriore alla chiarificazione operata dall’intervento delle Sezioni Unite nella sentenza Gubert, ha escluso che la societa’ possa avere alcuna responsabilita’ per reati tributari (tranne nel caso in cui siano stati compiuti nell’ambito di fenomeni associativi a carattere transnazionale, Legge n. 146 del 2006, ex articolo 11) giungendo peraltro a confondere, in effetti, la confisca diretta con la confisca per equivalente, laddove osserva che da tale irresponsabilita’ “deriva che la confisca di beni equivalente al profitto del reato non puo’ essere disposta nei confronti della societa’…ma soltanto nei confronti dell’indagato, in quanto le somme da lui non versate costituiscono profitto del reato”. E cio’ nonostante che il ricorrente, come la stessa ordinanza rileva, avesse con il secondo motivo di gravame lamentato il mancato accertamento della sussistenza nel patrimonio della societa’ del prezzo o del profitto del reato contestato “non potendosi, come invece fatto dal gip, optare in via automatica per il sequestro per equivalente”. Se dunque non e’ condivisibile l’impostazione del ricorrente nella parte in cui esige un vero e proprio accertamento preliminare da parte del PM – per il quale, invece, e’ sufficiente la valutazione di quanto gia’ emerge dagli atti -, e’ pero’ fondata la doglianza del ricorrente nel senso che la questione del sequestro diretto, la cui impossibilita’ costituisce il presupposto del sequestro per equivalente, non e’ stata considerata dal Tribunale, e non sotto il profilo motivazionale (in questa sede, ex articolo 325 c.p.p., rilevante solo come violazione dell’articolo 125 c.p.p.), bensi’ in punto di diritto, negando sostanzialmente, come si e’ appena visto, che potesse essere disposto alcun sequestro nei confronti della societa’ a cui vantaggio sarebbe stata evasa l’imposta. Anche in riferimento al secondo motivo, pertanto, l’ordinanza deve essere annullata.
In conclusione, deve annullarsi il provvedimento impugnato, con rinvio al Tribunale di Perugia.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Perugia

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *