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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V

SENTENZA 15 gennaio 2015, n. 1781

Fatto e diritto

Con sentenza pronunciata il 17.4.2013, la corte di appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Pescara, in data 21.6.2011, aveva condannato P.R. e P.X. alle pene ritenute di giustizia, per i reati di cui agli artt. 416, c.p. (capo 1); 110, 112, 605, c.p. (capo 3); 81, cpv., 110, 112, 648, c.p. (capo 6) e 81, cpv., 110, 112, 600, c.p., (capo 7), dichiarando non doversi procedere nei confronti dei predetti imputati, in ordine ad ulteriori reati, perché estinti per prescrizione, dichiarava del pari non doversi procedere anche per i reati di cui ai capi 1), 3) e 6), perché estinti per prescrizione, con conseguente rideterminazione della pena in senso più favorevole agli imputati, in relazione al reato ‘sopravvissuto’, di cui al capo 7), confermando nel resto l’impugnata sentenza.

Avverso la decisione della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto ricorso per cassazione, a mezzo del loro difensore di fiducia, avv. Antonio De Michele, i due imputati, lamentando, entrambi violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all’art. 600, c.p., nella formulazione previgente all’intervento riformatore operato con la legge 11 agosto 2008, n. 228, in quanto la condotta dei P. non era diretta né alla spersonalizzazione dei minori, illegalmente fatti giungere dall’Albania in Italia, né ad esercitare sui minori stessi i poteri tipici del diritto di proprietà, ma solo a far ottenere loro uno status, dal punto di vista sociale, di figli di altri soggetti, diverso, in quanto più avanzato, da quello che era stato il vissuto in (…) dei piccoli; il solo P.R. anche il vizio di cui all’art. 606, co. 1, lett. c), e.p.p., in relazione all’art. 546, c.p.p., in considerazione dell’errore in cui è caduta la corte territoriale, che, preso atto della discordanza in ordine alla entità del trattamento sanzionatorio tra il dispositivo della sentenza di primo grado, con cui l’imputato era stato condannato alla pena di sei anni di reclusione, ed il contenuto della motivazione, in cui la condanna era stata fissata in cinque anni di reclusione, escludeva la nullità della sentenza appellata, facendo prevalere il contenuto decisorio su quello argomentativo ed operando anche una inammissibile reformatio in peius, individuando come pena-base da cui partire per la determinazione del trattamento sanzionatorio, una pena superiore a quella inflitta concretamente dal primo giudice.

Il ricorso non può essere accolto.

Infondato appare, innanzitutto, il primo motivo di ricorso.

Da un lato, infatti, la corte territoriale si è uniformata al principio di diritto affermato dalla giurisprudenza dominante in sede di legittimità, secondo cui il contrasto tra dispositivo e motivazione non determina nullità della sentenza, ma si risolve con la logica prevalenza dell’elemento decisionale su quello giustificativo, potendosi eliminare eventualmente la divergenza mediante ricorso alla semplice correzione dell’errore materiale della motivazione in base al combinato disposto degli artt. 547 e 130, c.p.p. (cfr. Cass., sez. V, 23/03/2011, n. 22736, rv. 250400; Cass., sez. IV, 07/07/2011, n. 35210), evidenziando come la determinazione della pena a carico del P. da parte del giudice di primo grado sia stata dovuta ad un semplice errore di calcolo.

Dall’altro lato non coglie nel segno nemmeno il rilievo di una presunta reformatio in peius del trattamento sanzionatorio da parte del giudice di appello, dovendosi rilevare al riguardo come, una volta chiarito che la pena inflitta all’imputato dal giudice per le indagini preliminari era pari ad anni sei di reclusione, i giudici di primo e di secondo grado, nella determinazione della entità del trattamento sanzionatorio da applicare al P. sono giunti alla medesima conclusione, per cui, rispetto al quantum della pena inflitta dalla corte di appello, pari ai sei anni di reclusione, non è configurabile alcuna reformatio in peius, per cui non è configurabile alcun interesse concreto dell’imputato a proporre ricorso sul punto.

A tale pena, infatti, la corte di appello è giunta operando, sulla pena-base di anni otto di reclusione per il reato di cui al capo 7), ridotta per la concessione delle circostanze attenuanti generiche alla pena di anni cinque mesi quattro di reclusione, un aumento (in modo da pervenire alla pena di anni sette mesi sei di reclusione, ulteriormente ridotta alla pena finale di anni sei di reclusione per effetto della scelta del rito alternativo) di entità pari a quello effettuato dal giudice di primo grado – che è partito dalla medesima pena-base, sulla quale ha operato anche l’identica riduzione per la concessione delle circostanze attenuanti ex art. 62 bis, c.p. – seppure con una causale diversa, che, nel primo grado era rappresentata dalla applicazione della disciplina della continuazione, in relazione alle altre ipotesi di reato concorrenti con quella ex art. 600, c.p. (c.d. continuazione esterna), mentre il giudice di secondo grado ha applicato la disciplina del reato continuato, con riferimento a più violazioni della medesima disposizione normativa, unificate dall’identità del disegno criminoso (c.d. continuazione interna), giungendo allo stesso risultato del giudice per le indagini preliminari in termini di entità della pena finale.

Anche il secondo motivo di ricorso deve ritenersi infondato.

Come chiarito da un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’espressione ‘condizione analoga alla schiavitù’, contenuta nella formulazione dell’art. 600, c.p., prima delle modifiche apportate a tale disposizione normativa dall’art. 1, l. 11 agosto 2003, n. 228, integra un elemento normativo della fattispecie del reato di riduzione in schiavitù, che non indica una situazione disciplinata in tassative previsioni legislative (diversamente la statuizione sarebbe ‘inutiliter data’) ma quella di fatto, parificabile al parametro legale di schiavitù, indicata nella convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, resa esecutiva in Italia con r.d. 26 aprile 1928, n. 1723, come lo ‘stato o condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o di uno di essi’; situazione che la mutevole realtà può presentare con connotati volta a volta diversi ma fondamentalmente identici nell’ambito dei rapporti interpersonali, nei quali un individuo ha un potere pieno e incontrollato su un altro, assoggettato appunto al suo dominio (cfr. Cass., sez. III, 07/09/1999, n. 2793, Catalini e altro).

Si trattava, dunque, di un reato a condotte alternative (‘riduzione in schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù’), che risulta integrato dalla consumazione di una delle condotte previste, per l’appunto alternativamente, al pari della fattispecie contemplata dall’art. 600, c.p., di nuovo ‘conio’, dalla norma citata, che, pur non definendo in modo dettagliato le condotte vietate, rispondeva in modo, comunque, soddisfacente all’esigenza di tassatività delle disposizioni penali, in virtù del recepimento nell’ordinamento italiano della menzionata convenzione di Ginevra.

Quest’ultima, infatti, individua il nucleo essenziale delle diverse situazioni in cui si può declinare la schiavitù nell’assoggettamento di un individuo ai poteri ovvero ad uno dei poteri tipici del diritto di proprietà da un terzo esercitati nei suoi confronti, proprio come sancito dall’attuale formulazione della prima parte dell’art. 600, co. 1, c.p., in una logica di tendenziale continuità con la precedente previsione normativa e con l’interpretazione che ne era stata fornita dalla giurisprudenza di legittimità. Se ciò è vero, come è vero, appare allora indubitabile che i P. si sono comportati da ‘proprietari’ nei confronti dei bambini, provenienti dall'(…), di cui facevano illecito commercio, assicurandone l’ingresso in Italia, con generalità false, verso il pagamento di un prezzo, considerandoli alla stregua di ‘merci’, da collocare sul mercato, nella loro assoluta disponibilità, per cui, correttamente, la corte territoriale ha evidenziato come ‘cedere dietro compenso un essere umano significa esercitare su di esso poteri corrispondenti a quello del diritto di proprietà’ (cfr. p. 14 della sentenza impugnata).

Per tale ragione la condotta degli imputati è riconducibile al paradigma normativo di cui all’art. 600, c.p., nella previgente formulazione, e non in quello dell’art. 567, co. 1, c.p., in tema di alterazione dello stato civile di un neonato, mediante la sua sostituzione, fattispecie, quest’ultima, che prescinde del tutto dall’esercizio di poteri tipici del diritto di proprietà sul minore, che, peraltro, deve essere un neonato e non un minorenne (sul punto il ricorso degli imputati è assolutamente generico, non specificando se e quali minori tra quelli fatti entrare illecitamente in Italia dagli imputati fossero minorenni).

Né va taciuto che risulta del tutto indimostrato l’assunto difensivo in ordine alle finalità ‘umanitarie’ dell’ingresso dei minori in Italia, destinati, secondo la prospettazione difensiva, a famiglie disposte ad accoglierli, in quanto, da un lato, la stessa corte territoriale ha evidenziato come, con riferimento a ciascuna delle piccole vittime, non sia stato chiarito a quali scopi (comunque illeciti) era finalizzato il loro arrivo in territorio italiano (cfr. p. 13 della sentenza impugnata), dall’altro le esigenze che il traffico di minori tra l'(…) e l'(…) organizzato, tra gli altri, dagli imputati, era destinato a soddisfare, non assumono rilievo ai fini della configurazione del reato di cui si discute, perché esse non incidono minimamente sulla condotta tipica, rappresentata, come si è detto, dall’esercizio dei poteri tipici del diritto di proprietà sui minori, peraltro privati anche dei propri dati anagrafici, ridotti al rango di merci da collocare sul mercato, quindi, in quanto tali, potenzialmente idonei, come molte merci, a soddisfare diverse finalità.

Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso, va, dunque, rigettato, con condanna di ciascun ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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