Consiglio di Stato
sezione VI
sentenza 5 gennaio 2015, n. 13
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO
IN SEDE GIURISDIZIONALE
SEZIONE SESTA
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2092 del 2014, proposto da Im. s.r.l., in persona del suo legale rappresentante “pro tempore”, rappresentata e difesa dagli avvocati Fe.Pi., Gi.Re. e Ro.Pe., con domicilio eletto presso l’avv. Mi.Sa. in Roma, Via (…);
contro
Comune di Napoli, in persona del Sindaco “pro tempore”, rappresentato e difeso dagli avvocati Ba.Ac. e Fa.Fe., con domicilio eletto presso lo studio soc. Gr. in Roma, corso (…);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA -NAPOLI -SEZIONE IV, n. 5853/2013, resa tra le parti, concernente demolizione di opere abusive e ripristino dello stato dei luoghi;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto il “controricorso e appello incidentale” del Comune di Napoli;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica dell’11 novembre 2014 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Pe. ed altri (…);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il Tribunale amministrativo regionale della Campania -Napoli, con la sentenza in epigrafe, ha accolto in parte il ricorso proposto dalla società Im. per l’annullamento della disposizione dirigenziale n. 140/2012 con la quale il Comune di Napoli ha ordinato la demolizione delle sottoelencate opere, ritenute a tutti gli effetti abusive, realizzate senza titolo abilitativo in Napoli, nell’immobile individuato nel N.C.E.U. alla particella 151 del foglio 5:
“1) manufatto strutturato su due livelli in scatolari di acciaio e vetri di circa mq. 24,00, adibito a galleria di passaggio e collegamento tra l’edificio destinato ad albergo e i vari corpi di fabbrica insistenti sull’area circostante;
2) tettoia di circa mq. 45,00, insistente tra il corpo di fabbrica indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “A” e il corpo con la lettere “B”;
3) tettoria di circa mq. 43,00 in corrispondenza del corpo indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “I”;
4) n. 2 pensiline di collegamento tra il corpo di fabbrica indicato nell’elaborato planimetrico catastale indicato con la lettera “I” e il corpo indicato con la lettera “A”;
5) pensilina tra il corpo di fabbrica indicato nell’elaborato planimetrico catastale indicato con la lettera “E” e il corpo “L”;
6) piccolo manufatto adibito a portineria posto a sinistra dell’ingresso al complesso alberghiero indicato nell’elaborato planimetrico catastale indicato con la lettera “N”;
7) tettoia in legno, di circa mq. 59,20, posta in corrispondenza dei vani di accesso alle salette “meeting” del corpo indicato nell’elaborato planimetrico catastale indicato con la lettera “D”;
8) piccolo manufatto posto sulla parte sinistra dell’ingresso dell’area, adibito a controllo accessi e portineria;
9) tettoia in legno di circa mt. 6,00 per mt. 2,50;
10) n. 2 locali destinati al contenimento di impianti tecnologici;
11) passaggio carrabile coperto a forma di “ELLE”, lungo per un tratto mt. 34,40 e largo mt. 3,60 e per il tratto perpendicolare lungo mt. 9,60 e largo mt. 4,60, posto al di sotto dell’estremità del corpo indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “E” in adiacenza al corpo indicato nell’elaborato planimetrico catastale indicato con la lettera “A”;
12) pensilina retrostante l’edificio principale destinato ad albergo;
13) corpo di fabbrica di forma rettangolare, indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “D” distribuito su due livelli, posizionato sulla linea di confine con proprietà aliena, insistente su una superficie di mq. 509,12 per una cubatura di mc. 3.553,20, con sale meeting e servizi igienici al piano terra e n. 11 camere d’albergo al primo piano;
14) parte di corpo di fabbrica di forma rettangolare, indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “E”, distribuito su due livelli insistenti su di una superficie di mq. 1.683,00 per una cubatura di mc. 16.661,70, con sala congressi e un negozio di abbigliamento al piano terra e stanze d’albergo al primo piano;
15) parte di corpo di fabbrica di forma rettangolare, indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “E”, di circa mq. 1.472,60 e di circa mc. 14.520,00;
16) corpo di fabbrica indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “L”, di circa mq. 1.350,62, compreso patio e zona soppalcata di circa mc. 5.841,54;
17) corpo di fabbrica indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “A” confinante con la via (…), di circa mq. 356,16 e di circa mc. 2.373,00, adibito a lavanderia;
18) corpo di fabbrica indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “B”, di forma rettangolare in muratura su due livelli, di circa mq. 60,90 e di circa mc. 351,00;
19) corpo di fabbrica indicato nell’elaborato planimetrico catastale con la lettera “G”, di forma trapezoidale distribuito su due livelli, insistente su di una superficie di circa mq. 103,51 e di circa mc. 923,36;
20) n. 2 manufatti di forma trapezoidale, indicati nell’elaborato planimetrico catastale con le lettere “H” e “G”, posizionati sul confine di via G. Di Tocco – il primo insistente su una superficie di circa mq. 35,72 con un volume di circa mc. 161,20 – il secondo insistente su una superficie di circa mq. 65,36 con un volume di circa mc. 376,10.”
Il Tar ha pronunciato sentenza dopo avere disposto, con ordinanza collegiale n. 400/2013, CTU sui seguenti quesiti: “A) a quali periodi risalgano le singole opere oggetto dell’ordine di demolizione, con particolare riferimento, nello specifico a:
A.1) quali opere oggetto risultano essere precedenti al 1935 e, in ogni caso, qualora non fosse verificabile la preesistenza di specifiche opere, quale fosse la consistenza immobiliare gravate sul terreno al 1935 e se la stessa fosse astrattamente riconducibile ad opere oggetto dell’ordine di demolizione;
A.2) quali opere risultano essere esistenti alla data del 1956 con riferimento al rilievo fotogrammetrico con foto aereo del 13.5.1956 prodotta in giudizio da parte ricorrente;
A.3) quali opere sono successive anche a quest’ultima data e in quale periodo sono state poste in essere;
B) per quali singole opere oggetto dell’ordine di demolizione gravato sia stata annullata la D.I.A. da parte del Comune di Napoli con la Determinazione Dirigenziale n. 770/2009 o con altro provvedimento e in che consistevano gli interventi per cui era stata chiesta la D.I.A. al fine di individuare la natura ed entità delle modifiche effettuate agli immobili preesistenti iniziali in base alle D.I.A. annullate e verificare se tali interventi necessitassero di permesso di costruire;
C) se vi siano opere oggetto dell’ordine di demolizione gravato che risultino essere state sanate in base al condono edilizio n. 16 del 1992, come dedotto dalla parte ricorrente a pag. 11 e 12 della memoria del ricorrente depositata il 13.12.2012.”
Con la sentenza gravata il ricorso è stato accolto limitatamente all’ordinanza di demolizione delle opere di cui ai punti nn. 4, 15, 16, 19 e 20 della disposizione dirigenziale n. 140/2012, che è stata quindi annullata “in parte qua”.
Per il resto, il ricorso è stato respinto.
Con ricorso notificato il 12 febbraio 2014 e tempestivamente depositato in segreteria, Im. ha proposto appello con sei motivi, contestando le statuizioni e le argomentazioni della sentenza.
Il Comune di Napoli si è costituito con “controricorso e appello incidentale” rilevando l’infondatezza del gravame e proponendo appello incidentale avverso le statuizioni con le quali il Tar ha accolto in parte il ricorso e ha annullato parzialmente l’ordinanza impugnata.
Con memoria depositata l’11 aprile 2014 Im. ha eccepito l’inammissibilità dell’appello incidentale del Comune deducendo la nullità della notifica del ricorso incidentale medesimo, e ha inoltre rilevato l’infondatezza nel merito delle doglianze formulate dall’appellante in via incidentale.
Le parti hanno presentato memorie aggiuntive e all’udienza dell’11 novembre 2014 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
2. Per una migliore comprensione delle questioni devolute alla cognizione del collegio vanno ricostruiti in modo sintetico i fatti per i quali è causa.
Per acquisto di quote sociali l’Im., nel 2004, nell’attuale assetto proprietario, subentrava nella titolarità di un complesso immobiliare sito in Napoli alla Via G. Ferraris 159.
Tale complesso immobiliare all’atto del subentro era composto da una “torre” di undici livelli e da diversi fabbricati ricadenti nell’area di cui all’attuale particella n. 151 del N.C.E.U. individuati con le lettere A, B, C, D, E, F, G, H, L, M, N, come risulta dalle planimetrie allegate al ricorso al Tar.
Il compendio immobiliare rientrava nel perimetro dei siti inquinati d’interesse nazionale dell’area orientale di Napoli, di cui all’ordinanza del Commissario straordinario per l’emergenza rifiuti del 29 dicembre 1999, ed era collocato, in base alla variante generale del PRG della città, approvata con DPGRC n. 323 del 2004, nella zona G – “insediamenti urbani integrati” -sub ambito 12/a “Gianturco FS”, di cui all’art. 138 delle relative NTA.
La “torre” aveva formato oggetto di istanza di condono ex l. n. 724/1994 e i successivi interventi edilizi effettuati sulla stessa hanno dato luogo a un articolato contenzioso con il Comune fino all’impugnazione dei provvedimenti dirigenziale n. 259/2009 di diniego di condono e ordine di ripristino e n. 770/09 di annullamento di una serie di denunce di inizio di attività (dia) presentate dalla Im. nel 2006 e 2007 e aventi a oggetto la realizzazione di opere edilizie collegate al “Tiberio Palace Hotel”, non condonato, così come elencate in maniera specifica nella stessa determinazione n. 770/09 di annullamento in autotutela “dei titoli abilitativi conseguiti per silentium” a seguito della presentazione delle dia del 2006 e 2007; provvedimento di annullamento in autotutela che costituisce presupposto della demolizione di parte delle opere sanzionate con l’ordinanza dirigenziale n. 140/2012 impugnata da Im. dinanzi al Tar e annullata in parte dal giudice di primo grado.
Va soggiunto che questo Consiglio, con la sentenza n. 5704 del 2013 della IV Sezione, ha respinto l’appello proposto da Im. avverso la sentenza sfavorevole del Tar Campania -Napoli, sez. IV, n. 16439/2010, pronunciata sull’impugnazione della determina dirigenziale n. 770/09 di annullamento in via di autotutela delle dia confermando così la legittimità del citato provvedimento dirigenziale di autotutela n. 770/2009. La IV sezione di questo Consiglio (v. dal p. 3.4. sent.) ha rilevato in particolare che le modifiche richieste dalla società implicavano mutamenti di destinazione d’uso -da opifici ad attività turistico -ricettive- e incrementi di volume e di superficie lorda di pavimento, con la conseguente necessità di un nuovo titolo abilitativo edilizio entro una zona -la G, insediamenti urbani integrativi, disciplinata dagli articoli 54 e 138 delle NTA del PRG, in cui l’attività edilizia è subordinata a strumenti urbanistici esecutivi.
In base all’efficacia dei provvedimenti di diniego di condono e di annullamento delle dia il Comune, con disposizione dirigenziale n. 442/2011, ha nel frattempo disposto l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ex art. 31 del t. u. n. 380/01, delle opere abusive (la c. d. “torre” e l’area circostante specificamente indicata: tale disposizione è stata impugnata e il relativo ricorso pende avanti al Tar Campania -Napoli).
Ciò posto il Tar, con la sentenza impugnata, ha anzitutto rigettato il primo motivo, imperniato sui vizi di difetto d’istruttoria e sull’asserita indeterminatezza del provvedimento gravato, ritenendo che l’ordinanza di demolizione n. 140/12 avesse invece individuato con precisione le opere abusive e indicato alla base dell’ordine di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi la constatazione dell’assenza di titoli edilizi abilitativi per la realizzazione delle opere stesse.
Il Tar ha anche respinto il motivo di ricorso incentrato sulla violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241/90, sulla necessità di comunicare in via preventiva le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza del privato, ritenendo che tale disposizione si riferisca, per espressa previsione legislativa, solo ai procedimenti a istanza di parte e non risulti, quindi, applicabile al procedimento che si è concluso con l’ordinanza di demolizione impugnata.
Il Tar ha, parimenti, respinto il motivo di ricorso basato sull’affermata violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990.
E’ stato poi esaminato il motivo di ricorso -centrale- fondato sull’assunto per cui alcune delle opere in questione risalirebbero al 1956 (ciò risulterebbe da un rilievo aerofotogrammetrico dell’epoca), ossia a un’epoca in cui -a detta della ricorrente- non era necessario, per costruire nuovi edifici nella zona industriale “de qua”, alcun titolo edilizio, atteso che, prima dell’entrata in vigore della l. n. 765/67, nessuna norma prescriveva la necessità di munirsi in via preventiva di licenza edilizia per interventi, come quelli in questione, realizzati in area industriale; né era applicabile alle opere in parola l’art. 1 del regolamento edilizio comunale di Napoli, approvato nel 1935, poiché la realizzazione di nuove opere edilizie nella zona industriale sarebbe stata, prima del 1967, esente dall’obbligo della preventiva licenza edilizia. Altre opere risalirebbero addirittura agli inizi del ‘900.
Il Tar ha deciso prendendo le mosse dall’assunto secondo cui dal 1935 era necessaria la licenza edilizia del Sindaco per costruire nuovi edifici anche nella zona industriale, non potendo ritenersi che le costruzioni nella zona suddetta fossero esentate dall’obbligo previsto in via generale dal regolamento comunale quasi come se l’area industriale non fosse da considerarsi territorio comunale ai fini urbanistico -edilizi, o si trattasse di una “zona franca”.
Sulla base di questo assunto il giudice di primo grado ha ritenuto che alla zona “de qua”, rientrante nella terza zona del territorio comunale ex art. 12 del regolamento edilizio, fosse applicabile l’art. 1 del regolamento stesso.
Il Tar ha poi giudicato prive di rilevanza le valutazioni effettuate dal CTU sull’inapplicabilità del regolamento anzidetto alla fattispecie in questione, ritenendo che il consulente tecnico avesse chiaramente esulato dall’ambito tecnico di valutazione affidatogli, sconfinando in considerazioni giuridiche riservate all’organo giudicante. In base a questo assunto il Tribunale amministrativo ha giudicato fondato e da accogliere, con conseguente annullamento parziale dell’ordinanza di demolizione impugnata, il motivo basato sulla preesistenza di alcune opere rispetto alla previsione normativa che rendeva necessaria la licenza del sindaco per realizzare opere edilizie.
Ciò è avvenuto in relazione alle opere indicate ai numeri 15, 16, 19 e 20 dell’ordinanza n. 140/12, manufatti che CTU -e Tar- hanno ritenuto preesistenti al 1935 e, in quanto tali, non necessitanti di titolo edilizio, con la conseguenza che non ne poteva essere ordinata la demolizione.
Il motivo è stato invece ritenuto infondato e da respingere con riguardo ai manufatti elencati ai numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 17 e 18 giacché dalle risultanze della CTU si ricava che tali manufatti sono successivi al 1935 o, comunque, non ne è stata dimostrata la preesistenza alla suddetta data.
Il Tar ha preso poi in esame, “intervento per intervento” (v. da pag. 20 a pag. 45 sent.), le ulteriori censure sollevate dalla ricorrente, raggruppabili nelle contestazioni che seguono: le opere eseguite sarebbero assentibili con dia e non con permesso di costruire e consisterebbero, comunque, in interventi di ristrutturazione assoggettabili, tutt’al più, alla disciplina sanzionatoria pecuniaria prevista dagli articoli 33 e -soprattutto- 37 del d.P.R. n. 380 del 2001. A detta di Im. l’Amministrazione comunale avrebbe errato nell’applicare la sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 31 del t. u. n. 380/2001, norma richiamata nell’ordinanza di demolizione e che riguarda gli interventi di nuova costruzione, anziché provvedere sulla base della meno sfavorevole disciplina sanzionatoria (soltanto pecuniaria) di cui agli articoli 33 e 37 del t. u. n. 380/01.
E’ stata analizzata dal Tar, “intervento per intervento”, la questione relativa all’assoggettamento degli interventi edilizi elencati nell’ordinanza di demolizione n. 140/2012 a permesso di costruire o a dia o, comunque, la qualificazione degli stessi come interventi di ristrutturazione edilizia, con conseguente applicazione, tutt’al più, della disciplina sanzionatoria di carattere pecuniario, sussistendone le condizioni, di cui agli articoli 33, comma 2, e 37 del t. u. n. 380/2001 anziché, appunto, alla più severa disciplina demolitoria prevista all’art. 31 del medesimo t. u. per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire.
In particolare, Im. ha dedotto che le opere sanzionate non attengono a nuove costruzioni, in quanto si riferiscono a interventi effettuati su immobili preesistenti, ma riguardano ristrutturazioni che, qualora non ritenuti realizzabili tramite dia, sarebbero dovuti essere sanzionate ai sensi dell’art. 33 che, a differenza dell’art. 31 del più volte indicato D.P.R., non contempla l’acquisizione delle opere al patrimonio comunale in caso di mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
Per quelle opere che la società ricorrente reputa essere di natura pertinenziale il Tar ha inoltre ritenuto non censurabile la scelta di disporne la demolizione ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, ritenendo non applicabile alla fattispecie il più favorevole regime edilizio delle opere pertinenziali anzitutto perché riservato solo agli interventi “accessivi” a immobili legittimamente edificati e non a interventi che -come nella specie- accedono a fabbricati privi di titolo edilizio e dunque abusivi.
L’ordine di demolizione è stato invece ritenuto illegittimo e da annullare “in parte qua” quando, come nel caso dell’opera di cui al p. 4. dell’ordinanza impugnata, la “natura e modestia” dell’intervento ne rendeva possibile la realizzabilità con dia e uno dei due edifici collegati dalla pensilina era legittimo poiché risalente a epoca anteriore al 1935.
3. Ciò posto, l’appello principale di Im. e l’appello incidentale del Comune di Napoli sono infondati e vanno respinti: la sentenza impugnata, nel suo complesso, non merita le critiche che le sono state rivolte.
Va esaminato in via prioritaria l’appello di Im..
3.1. Con il motivo sub 1) l’appellante, nel dedurre la violazione del t. u. n. 380/2001 e il vizio di difetto di motivazione, sostiene che il Comune di Napoli, a distanza di oltre 60 anni, solo in seguito alla presentazione di Dia per interventi su immobili preesistenti ha richiesto alla società di comprovare la conformità delle opere in questione ai titoli abilitativi edilizi necessari e, in ogni caso, di dimostrare la “liceità” delle costruzioni realizzate.
Si soggiunge che l’Amministrazione comunale, muovendo dall’assunto in base al quale non è stata dimostrata la liceità dei fabbricati sui quali detti interventi sono stati eseguiti, con la disposizione dirigenziale n. 140/12, operando un’inversione dell’onere della prova fondata su una evidente carenza d’istruttoria, ha ordinato la demolizione delle opere eseguite e il ripristino dello stato dei luoghi avendo riguardo sia alle opere edilizie realizzate “direttamente” in assenza di titolo abilitativo, sia ai manufatti costruiti a seguito di dia annullate con la citata disposizione dirigenziale n. 770/09 (giudicata, per vero, legittima da Cons. St., IV, con la sent. n. 5704/2013).
Viene rimarcato che in modo erroneo in sentenza (v. p. 2), da pag. 7, e p. 6), da pag. 46 dec. Tar) si afferma che l’assenza del titolo abilitativo giustificherebbe di per sé l’adozione della misura ripristinatoria, “salvo che non vi siano circostanze particolari”, rimettendo al privato l’onere di “dimostrare le concrete circostanze per cui un titolo edilizio non risultava necessario”.
La preesistenza, da 70 anni, degli edifici per i quali è causa, renderebbe evidente l’illogicità di argomentazioni e statuizioni contenute in sentenza.
Inoltre, risulta trascorso un lungo periodo di tempo anche tra la data di adozione dell’ordinanza di demolizione n. 140/2012, impugnata in primo grado, e la data del provvedimento n. 770/09 di annullamento delle Dia.
In ogni caso, non risulta preventivamente verificata in modo positivo la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla demolizione delle opere. La peculiare situazione di fatto avrebbe richiesto un provvedimento finale caratterizzato da una motivazione particolarmente rafforzata, oltre che formulata all’esito di un’istruttoria specifica e adeguata.
A questo proposito l’appellante richiama l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la repressione degli abusi edilizi, disposta a distanza di tempo ragguardevole dall’epoca della realizzazione dell’opera, esige una puntuale motivazione sull’interesse pubblico attuale -ulteriore rispetto a quello al ripristino della legalità violata- alla rimessione dei luoghi nelle condizioni originarie, anche in considerazione del formarsi, in favore del privato, di una posizione di legittimo affidamento.
La diversità della tipologia degli interventi effettuati, alcuni dei quali riguardavano “opere pertinenziali, quali tettoie e pensiline, inerenti all’edificio Torre già acquisito dall’Amministrazione comunale”, vizierebbe in modo ulteriore l’argomentare del primo giudice che ha considerato legittimo il provvedimento di demolizione n. 140/2012 anche là dove lo stesso “accorpa” e assoggetta situazioni diverse a una identica disciplina repressiva (demolitoria).
L’appellante contesta infine l’argomentazione e la statuizione di cui al p. 8) sent. -pag. 48, sulla questione relativa alla comprensione, o no, di parte delle opere oggetto dell’ordinanza di demolizione, nella concessione edilizia n. 16/92 rilasciata in sanatoria.
Il motivo è infondato e va respinto.
In via preliminare e in termini generali va rammentato che:
-grava sul privato l’onere della prova circa il possesso del titolo edilizio abilitativo o delle ragioni per le quali, nel caso particolare, un titolo edilizio non era necessario;
-la repressione degli abusi edilizi è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall’epoca della commissione dell’abuso;
-l’illecito edilizio ha carattere permanente, che si protrae e che conserva nel tempo la sua natura, e l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso è “in re ipsa”. L’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico all’osservanza della normativa urbanistico -edilizia e al corretto governo del territorio. Non sussiste alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore “contra legem”. Non può ammettersi cioè un’affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l’amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell’abuso non sanabile (v. “ex plurimis”, Cons. St., IV, 3182/2013, VI, 6072/2012 e IV, 4403 /2011, 79/2011, 5509/2009 e 2529/2004);
-d’altra parte, ammettere la sostanziale “estinzione” di un abuso per il decorso del tempo vorrebbe dire accettare una sorta di sanatoria “extra ordinem”, di fatto, che opererebbe anche quando l’interessato non ha ritenuto di avvalersi del corrispondente istituto previsto e disciplinato dalla normativa di sanatoria di cui alle leggi nn. 47/85, 724/94 e 326/03; senza neanche pagare le somme dovute a titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata, il che non sarebbe conforme a principi basilari di ragionevolezza e parità di trattamento nell’esercizio del potere amministrativo;
-il collegio non ignora che per un diverso orientamento, più sensibile alle esigenze del privato, su cui v. Cons. St., sez. V, nn. 883/2008 e 3270/2006, “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso” e “il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento in capo al privato, rispetto al quale graverebbe sul Comune un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Si ritiene, tuttavia, di non condividere l’orientamento suddetto. Va invece accolta la tesi per cui, come si è già visto (v., “ex multis”, Cons. St., IV, n. 79/11 e, ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali aggiuntivi), “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (conf. CdS, IV, n. 4403/11, secondo cui l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto della p.a., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”.
Guardando adesso più da vicino il caso in esame, e gli interventi (elencati sopra, al p. 1.) ai quali l’ordinanza di demolizione n. 140/2012 si riferisce in maniera puntuale:
-in primo luogo, le opere eseguite in assenza di titolo edilizio abilitativo -e le caratteristiche e la consistenza delle stesse- sono indicate in modo, appunto, particolareggiato nell’ordinanza n. 140/2012 impugnata in primo grado, senza alcuna indeterminatezza o genericità;
-l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione delle opere della cui demolizione di tratta e sulla legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e non sulla P. A., cosicché non può condividersi la tesi per la quale il Comune avrebbe compiuto un’inversione dell’onere della prova, mentre è corretta l’affermazione della secondo la quale spettava al privato dimostrare le circostanze concrete in base alle quali un titolo edilizio non risultava necessario (circostanze particolari che, tuttavia, nella gran parte dei casi non ricorrevano, come si dirà in appresso -v. “infra”, p. 3.3);
-in questa prospettiva, a differenza di ciò che sostiene l’appellante, non assume rilievo, ai fini del decidere, la segnalata diversità della tipologia degli interventi, con particolare riguardo alla tesi per cui ad alcune delle attività edilizie compiute andava applicata la -più favorevole- disciplina prevista per le opere pertinenziali, con la conseguente illegittimità dell’ordine di demolizione e la irrogabilità di sanzioni unicamente pecuniarie: come si dirà più avanti, anche alla luce della peculiare nozione di pertinenza nella materia edilizia, considerando da un lato la non esiguità delle dimensioni delle opere realizzate, e dall’altro il fatto che l’applicazione della più favorevole disciplina in tema di pertinenze presuppone che l’opera pertinenziale debba accedere a un manufatto principale che non sia abusivo, dato che interventi inerenti a immobili abusivi ripetono le caratteristiche di illegittimità dall’opera principale alla quale accedono, l’astratta diversità di tipologie d’intervento finisce con l’essere priva di rilevanza ai fini del sindacato sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata;
-dai rilievi su esposti si desume l’insussistenza del difetto d’istruttoria denunciato;
-nel ribadire quanto rilevato sopra in generale sull’irrilevanza, ai fini della verifica di legittimità di un’ingiunzione di demolizione, del passaggio di un lungo periodo di tempo tra l’epoca della realizzazione dell’opera e la data del provvedimento repressivo, non pare inutile puntualizzare come, nella specie, venendo in rilievo opere ricadenti nell’àmbito del complesso immobiliare della c. d. Torre e, comunque, nelle adiacenze dello stesso, non poteva neppure dirsi che fosse trascorso un lunghissimo periodo di tempo dopo la realizzazione delle opere, nel corso del quale l’Amministrazione non era intervenuta, dato che la condizione degli immobili sorti sull’area “de qua” aveva formato oggetto di contenziosi sin dagli anni ’90;
-nè sono individuabili atti o comportamenti dell’Amministrazione comunale dai quali possa desumersi il formarsi di un legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso;
-quanto all’ultimo profilo di doglianza denunciato, in sentenza è stato rilevato in modo corretto, in linea con le risultanze dell’operato del CTU (v. pag. 84 della relazione peritale), che nel provvedimento di demolizione n. 140/2012 non sono comprese opere sanate con il provvedimento di condono edilizio n. 16/92, giacché quest’ultimo riguardava manufatti demoliti nello stesso anno per fare posto all’attuale edifico a torre.
3.2. E’ infondato e va respinto anche il motivo sub. 2), articolato nei profili 2.1. e 2.2., con cui si denuncia l’erroneità della sentenza riproponendo, in sostanza, le censure mosse in primo grado relativamente alla omessa individuazione -nell’ordinanza 140/12- dell’area di sedime che, nel caso di mancato ripristino dello stato dei luoghi entro 90 giorni, formerà oggetto di acquisizione gratuita e di diritto al patrimonio del Comune ex art. 31, commi 2 e 3, del t. u. n. 380/01, e alla violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990.
3.2.1. Per quanto attiene a quest’ultima violazione procedimentale, in primo luogo, e in termini generali, va ribadito che l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della P. A., con la conseguenza che ai fini dell’adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (v., “ex multis”, Cons. St., sez. V, nn. 3337/12 e 4764/11; più di recente v. Cons. St., sez. IV, n. 734/14, con indicazioni giurisprudenziali ulteriori).
In secondo luogo, anche a voler seguire, per un momento, l’impostazione argomentativa dell’appellante, il motivo di gravame non potrebbe comunque trovare accoglimento -con il conseguente accoglimento dell’appello e l’annullamento “in toto” dell’ordinanza n. 140/12, salvi però i provvedimenti ulteriori dell’autorità amministrativa, atteso che, dovendo la disciplina sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo essere esaminata da un’angolazione “antiformalistica”, andrebbe considerato il fatto che l’ordinanza di demolizione ha, quale presupposto, in larga misura, il precedente provvedimento n. 770/09 di annullamento delle dia presentate dal 2006 (atto impugnato senza successo da Im. dinanzi al giudice amministrativo), sicché ben potrebbe parlarsi -se non di una partecipazione in senso proprio-, quantomeno di una conoscenza del procedimento “de quo” da parte della società, in grado di far pervenire proprie osservazioni.
Ma, soprattutto, va considerata l’innovazione apportata dalla l. n. 15 del 2005 che, nel modificare la l. n. 241/1990, ha introdotto l’art. 21 octies che, al comma 2, prescrive che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” (in tema di applicazione dell’art. 21 octies cit., comma 2, alle ingiunzione di demolizione v. Cons. St., nn. 1208/14, 3471/13 e 4403/11).
Il citato art. 21 octies, comma 2, ha introdotto il principio della “dequotazione” dei vizi formali del procedimento non incidenti sul contenuto sostanziale del provvedimento finale, specie se avente natura vincolata, di tal che, sussistendone i presupposti, va escluso che la violazione della regola procedimentale suindicata possa assurgere a vizio in sé idoneo ad annullare il provvedimento impugnato in primo grado.
Nel caso in esame, dalle considerazioni in diritto svolte sopra e da quelle che si esporranno in appresso a confutazione dei motivi d’appello di natura “sostanziale” dedotti emerge che, anche in presenza di un formale avviso di avvio del procedimento destinato a concludersi con l’ordinanza di demolizione n. 140/12 contestata avanti al Tar, il contenuto finale dell’ordinanza emanata non avrebbe potuto essere diverso da quello che è stato in concreto (fatta salva quella parte dell’ordinanza di demolizione di cui è stata accertata giudizialmente l’illegittimità).
Va perciò condivisa l’asserzione della sentenza appellata secondo la quale, per le ragioni per le quali vanno respinti i motivi di ricorso diversi da quelli posti a base dell’accoglimento (parziale) del ricorso limitatamente alle opere di cui ai punti 4, 15, 16, 19 e 20 della determina 140/12, trova applicazione il disposto di cui all’art. 21 -octies, comma 2, della l. n. 241/1990, la cui “ratio” è diretta a “far prevalere gli aspetti sostanziali su quelli formali nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a causa della mancanza di un potere concreto di scelta da parte dell’Amministrazione”.
3.2.2. Per quanto riguarda, poi, l’omessa individuazione, direttamente nell’ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi, dell’area di sedime che in caso di mancata demolizione e riduzione dei luoghi nel pristino stato entro 90 giorni formerà oggetto di acquisizione gratuita e di diritto al patrimonio del Comune, va rammentato in via preliminare che l’art. 31, comma 2, del t. u. n. 380/01 prevede che il dirigente o funzionario comunale competente, “accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformita’ dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”; e che il comma 3 dello stesso art. 31 dispone che “se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonche’ quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune…”.
Va rammentato inoltre che in base a quanto dispone(va) l’art. 7, commi 2 e 3, della l. n. 47/1985, “il sindaco, accertata l’esecuzione di opere in assenza di concessione, in totale difformita’ dalla medesima ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi del successivo articolo 8, ingiunge la demolizione. Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime, nonche’ quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”; e che la giurisprudenza formatasi nella vigenza del citato art. 7 ha affermato più volte (v., “ex plurimis”, Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014, sez. IV, n. 4659 del 2008 e sez. VI, n. 1998 del 2004) che “la funzione dell’ingiunzione di demolizione è quella di provocare il tempestivo abbattimento del manufatto abusivo ad opera del responsabile, rendendogli noto che il mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose della semplice demolizione. A tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo di sanzioni che la legge collega all’abuso, senza puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel patrimonio comunale. L’interessato, infatti, può così compiere le proprie valutazioni, le quali non possono essere influenzate dalla semplice non conoscenza delle aree di cui il comune disporrà concretamente l’acquisizione. La l. n. 47 del 1985 ha distinto, nell’ambito dell’art. 7, i due atti, di ingiunzione e acquisitivo, basando il primo sul presupposto dell’abuso, con il contenuto proprio della contestazione della trasgressione e dell’ordine di demolizione, e il secondo sulla verifica di inottemperanza al primo. Requisiti dell’ingiunzione di demolizione sono perciò l’esistenza della condizione che la rende vincolata, cioè l’accertata esecuzione di opere abusive, e il conseguente ordine di demolizione e non anche la specificazione puntuale della portata delle sanzioni, richiamate nell’atto quanto alla tipologia preordinata dalla legge, ma recate con successivo, eventuale provvedimento”.
Ciò posto, questo collegio ritiene che anche nella vigenza del t. u. n. 380/01 il principio sopra trascritto non muti.
Ai fini della reiezione del profilo di censura il collegio non ha che da fare richiamo a un precedente specifico di questo Consiglio (sez. IV, 25 novembre 2013, n. 5593, con riferimento all’impugnazione di un’ingiunzione di demolizione emanata nel 2004) col quale, sulla questione se costituisse requisito essenziale dell’ingiunzione a demolire impugnata anche l’indicazione dell’area soggetta ad acquisizione gratuita e di diritto, per il caso di mancata demolizione e ripristino dello stato dei luoghi entro i 90 giorni dall’ingiunzione, è stato affermato che “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione… mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria”.
Persiste infatti, nonostante la parzialmente diversa formulazione dell’art. 31, comma 2, del t. u. n. 380/01 -che contiene la locuzione aggiuntiva “indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3”, mancante nell’art. 7, comma 2, della l. n. 47/85, la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
Va quindi mantenuto il principio in base al quale l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene. L’omessa indicazione, nell’ordinanza di demolizione, dell’area che viene acquisita di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune ai sensi del comma 3 dell’art. 31 per il caso di inottemperanza all’ordine di demolizione non costituisce ragione di illegittimità dell’ordinanza stessa giacché la posizione del destinatario dell’ingiunzione è tutelata dalla previsione di un successivo e distinto procedimento di acquisizione dell’area, rispetto al quale, tra l’altro, assume un ruolo imprescindibile l’atto di accertamento dell’inottemperanza nel quale va indicata con precisione l’area da acquisire al patrimonio comunale.
Di qui, la correttezza di quanto si legge in sentenza, ossia che il contenuto essenziale dell’ingiunzione di demolizione consiste nel “prescrivere la rimozione delle opere abusive”, cosicché ai fini della legittimità dell’ingiunzione basta che vi sia l’analitica indicazione delle opere abusivamente realizzate ma non occorre che vi sia anche l’esatta individuazione dell’area destinata ad essere acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
3.3. Sul terzo motivo, recante violazione del regolamento edilizio della città di Napoli, approvato con deliberazioni del Commissario straordinario nn. 2372 e 2584 del 1935, e concernente la “non applicabilità del regolamento edilizio del 1935 all’area industriale est del Comune di Napoli”, viene in sostanzia riproposta la questione relativa alla necessità di munirsi della preventiva licenza del Sindaco, per la costruzione di nuovi edifici, o per ampliare gli edifici esistenti e per eseguire le opere e i lavori elencati all’art. 1 del regolamento edilizio, nella zona industriale est della città, soltanto a decorrere dall’entrata in vigore della l. n. 765/1967 (tesi di Im., dal che deriverebbe l’originaria legittimità dei corpi di fabbrica elencati a pag. 26 ric. app.) o, invece, a decorrere dall’entrata in vigore dello stesso regolamento edilizio, risalente al 1935 (questa la tesi del Comune, accolta in sentenza).
3.3.1. Al riguardo si è già osservato sopra, al p. 1., che ad avviso del Tar (v. pagine da 9 a 15 sent.) la preventiva licenza del Sindaco per nuove costruzioni in tutto il territorio del Comune, e quindi anche nella zona industriale, occorreva sin dal 1935, in base a quanto stabilito dall’art.1 dell’allora vigente regolamento edilizio, non potendo ritenersi che le costruzioni da eseguirsi nella zona industriale fossero esentate dall’obbligo -di munirsi della licenza- sancito, come detto, in termini generali dall’art. 1 del regolamento.
La tesi favorevole alla necessità di munirsi del titolo edilizio anche nella zona industriale di Napoli a partire dal 1935 ex art. 1 regolam. cit. -ha soggiunto il Tar- ha avuto l’avallo della IV Sezione del Consiglio di Stato che, con la decisione n. 5141 del 2008, ha specificato come “anche alla zona industriale in quanto zona appartenente al territorio del Comune di Napoli” fosse “applicabile l’inequivoco disposto dell’articolo 1 del regolamento edilizio, che sanciva l’obbligo di preventiva licenza del Sindaco per tutte le opere ed i lavori da eseguirsi nel territorio del Comune”.
Nella sentenza impugnata si nega inoltre rilevanza alla tavola grafica rinvenuta dal CTU e che indicherebbe “una quarta zona (la zona industriale, appunto) non soggetta alle previsioni del regolamento edilizio, in quanto è del tutto incerta la provenienza e la valenza di siffatto documento, né nel regolamento edilizio vi è alcun cenno a quest’ultima tavola, né all’esistenza di una quarta zona”.
Il Tar ha aggiunto che non possono deporre in senso favorevole alla tesi della società la disposizione di cui all’art. 111 del r. d. n. 297 del 1911 -regolamento di esecuzione della legge comunale e provinciale del 1908, e l’argomento della ricorrente incentrato sulla creazione, con la legge n. 351 del 1904, contenente provvedimenti per il risorgimento economico della città di Napoli, di una “zona franca” che consentirebbe di derogare all’applicazione della normativa urbanistico -edilizia..
Dal principio per cui dal 1935 era necessario munirsi di licenza del Sindaco per edificare -anche- in zona industriale il Tar ha tratto la conclusione che il ricorso poteva essere accolto solo in parte, con conseguente annullamento soltanto parziale dell’ordinanza di demolizione impugnata, data la preesistenza (solamente) di alcuni corpi di fabbrica rispetto al ’35: ciò, in relazione ai manufatti indicati ai numeri 15, 16, 19 e 20 dell’impugnata disposizione dirigenziale n. 140/12, manufatti che CTU -e Tar- hanno ritenuto, in quanto preesistenti alla data surriferita, non necessitanti di titolo edilizio, con la conseguenza che non ne poteva essere ordinata la demolizione.
3.3.2. Im. contesta argomentazioni e statuizioni rilevando in sintesi che:
-la classificazione della zona industriale di Napoli est come zona franca, ex l. n. 351/1904, implicherebbe un’esenzione dall’applicazione dell’art. 1 del regolamento edilizio alla zona industriale anzidetta;
-l’art. 111 del r. d. n. 297 del 1911 disciplinava il contenuto che avrebbero potuto assumere i regolamenti edilizi comunali, prevedendo l’applicabilità dei regolamenti stessi al solo centro abitato, con conseguente esclusione delle restanti zone;
-l’art. 1 del regolamento edilizio, che prevede(va) il previo rilascio della licenza del Sindaco per “tutte le opere e i lavori da eseguirsi nel territorio del Comune di Napoli”, va interpretato alla luce dei principi sanciti dalla normativa nazionale di cui al citato art. 111 del regolamento del 1911 di esecuzione della legge comunale e provinciale, in riferimento, cioè, soltanto ai centri abitati e non a tutto il territorio comunale;
-diversamente da quanto si ritiene in sentenza, la zona industriale non rientra nella terza delle tre zone in cui l’art. 12 del regolamento suddivide il territorio comunale;
-in modo arbitrario in sentenza è stata negata rilevanza alla tavola grafica indicante “una quarta zona” (la zona industriale, appunto), quarta zona -insiste l’appellante- che non rientra nelle tre alle quali erano applicabili le norme del regolamento edilizio e che quindi non soggiace alle prescrizioni del regolamento stesso, tra le quali l’obbligo di munirsi di licenza prima di costruire sancito dall’art. 1; erroneamente la sentenza avrebbe considerato incerta la provenienza e la valenza della tavola grafica (cfr. relazione CTU, pag. 32, là dove si menziona l’esistenza di un elaborato grafico recante la zonizzazione allegata al regolamento edilizio del 1935, comprendente la zona industriale, ad est del centro cittadino, campìta in modo distinto dalle precedenti tre zone e perimetrata in modo autonomo da queste; v. anche pag. 26 ric. app. là dove si richiama l’attenzione sull’allegazione della tavola grafica al regolamento);
-la data corretta alla quale agganciare la necessità del previo rilascio della licenza per costruire in zona industriale era dunque il 1967, anno di entrata in vigore della l. n. 765/1967, la c. d. “legge ponte” con la quale è stato esteso a tutto il territorio comunale, e non al solo centro abitato, l’obbligo di munirsi di licenza edilizia. La preesistenza dei manufatti A, B, C, E, F, G, H, I, P al 1967 rendeva indiscutibile la loro originaria legittimità.
3.3.3. I rilievi di parte appellante non persuadono il collegio.
In contrario, a conferma della sostanziale correttezza delle conclusioni alle quali si è giunti in sentenza, vale osservare -e comunque ribadire- quanto segue:
-in via preliminare, la generale necessità, “ex lege”, della licenza edilizia per l’esercizio dello “jus aedificandi” va fatta risalire al 1942 per i soli centri abitati (v. art. 31 della l. n. 1150/1942) e, per l’intero territorio comunale, al 1967 (v. art. 10 della l. n. 765/1967; si veda inoltre l’art. 31, comma 5, della l. n. 47/1985 a conferma della possibilità, anche prima della l. n. 765/1967, di richiedere, da parte dei comuni dotati di regolamenti edilizi “ad hoc”, la licenza edilizia non solo per le costruzioni da realizzare entro il perimetro dei centri abitati);
-per le opere e i lavori da compiersi nel territorio del Comune di Napoli -nell’intero territorio comunale, come si vedrà-, tuttavia, la necessità del previo titolo abilitativo edilizio va fatta risalire al 1935 dal momento che l’art. 1 del regolamento, al comma 2, aveva chiaramente stabilito che nel territorio del Comune non era permesso eseguire, senza preventiva licenza del Sindaco e con modalità diverse da quelle stabilite, costruzioni di nuovi edifici, sopralzi e ampliamenti degli edifici esistenti e quant’altro specificato all’art. 1 del regolamento stesso, fermo che nel caso di lavori fatti senza licenza o in difformità da questa “colui che li avrà fatti eseguire…sarà tenuto a ridurre ogni cosa al primitivo stato” (art. 9 regolam.) ;
-l’art. 12 del regolamento, collocato “topograficamente” nel Titolo II, relativo alle norme igienico -edilizie per le costruzioni nuove e per i fabbricati esistenti, prevedeva che, ai fini dell’applicazione del regolamento medesimo, il territorio comunale fosse diviso in tre zone, individuate in modo specifico ai numeri 1), 2) e 3), dove la prima è la zona centrale, la seconda comprende tra gli altri gli abitati di S. Giovanni, Barra e Ponticelli, esclusa la zona industriale, e la terza zona è costituita dal territorio comunale non compreso nelle zone precedenti;
-l’esclusione della zona industriale dalla seconda zona non significava però che la zona stessa fosse esclusa dall’osservanza delle prescrizioni stabilite dal regolamento, quasi come se non fosse da considerarsi territorio del Comune ai fini urbanistico -edilizi, o fosse classificabile come “zona franca” agli stessi fini;
-il n. 3 del medesimo art. 12, nell’individuare “la terza zona ad abitazione estensiva, o zona di espansione”, prevedendo che la stessa “è costituita dal territorio comunale non compreso nelle zone precedenti”, si poneva come una disposizione “di chiusura”, come plausibilmente si afferma in sentenza, “idonea a far rientrare nella terza zona tutte le aree del territorio comunale che siano state escluse dalla zona prima e seconda, mantenendole nell’àmbito di applicazione degli obblighi autorizzativi di cui all’art. 1 del medesimo regolamento”, avendo il citato art. 12 operato una divisione del territorio comunale allo scopo -così il Tar, condivisibilmente- di differenziare la disciplina con riguardo alle norme igienico -edilizie dettate agli articoli 13 e seguenti (su altezze degli edifici e dei piani, coperture degli edifici, cortili, eccetera) a seconda, appunto, delle diverse zone senza, però, “creare deroghe all’obbligo di preventiva licenza per l’effettuazione di interventi edilizi” (conf. Cons. St., sez. IV, n. 5141 del 2008, secondo cui “l’art. 12 del regolamento edilizio appare chiaramente inteso – giusta il tenore testuale – alla mera “divisione del territorio comunale in zone”: ne consegue che, a meno di voler infondatamente sostenere che la zona industriale di Barra non appartenga al territorio del Comune di Napoli, l’esclusione di tale zona dalla seconda comporta la inclusione nella zona residenziale (terza zona) comprendente il “territorio comunale non compreso nelle zone precedenti”.
In quanto zona appartenente al territorio del Comune di Napoli, ad essa era applicabile l’inequivoco disposto dell’articolo 1 del regolamento edilizio che sanciva l’obbligo di “preventiva licenza del Sindaco” per “tutte le opere ed i lavori da eseguirsi nel territorio del Comune di Napoli…”);
-il regolamento -v. articoli 1 e 12- disciplina quindi tutte e tre le zone in cui si divide il territorio comunale, ed esaurisce con ciò la regolamentazione del territorio stesso, senza esentare la zona industriale est, in particolare, e per quanto qui più rileva, dalla prescrizione sull’obbligo di dotarsi in via preventiva della licenza edilizia per poter costruire;
-del resto, nel regolamento non si accenna in alcun modo all’esistenza di una quarta zona (all’interno della quale, asseritamente, non troverebbe applicazione l’obbligo della preventiva licenza del Sindaco per opere e lavori da compiersi). Ma se l’Amministrazione comunale, mediante il regolamento, avesse voluto escludere l’obbligo di licenza edilizia in zone particolari della città avrebbe impiegato espressioni inequivocabili in questo senso, il che però non è stato fatto;
-sulla tavola grafica relativa alla IV zona -quella industriale, appunto, allegata alla relazione del CTU e riprodotta dall’appellante unitamente alla copia del regolamento edilizio-, anche a non voler considerare incerta la provenienza del documento stesso, e in disparte il rilievo -che, peraltro, questo Consiglio ha più volte formulato (sez. IV, n. 2158/13 e ivi riferimenti ulteriori, e nn. 4462/00 e 1520/98; e sez. V, n. 4734/93)- per cui in tema di urbanistica la questione, intuitivamente affine a quella odierna, relativa al contrasto tra parte grafica e parte normativa di un PRG va risolta dando prevalenza alle prescrizioni normative; a parte tutto ciò, la tavola grafica che indica la zona industriale potrebbe, tutt’al più, assumere rilievo ai soli fini dei limiti di applicazione delle norme del Titolo II del regolamento, non anche però al fine di escludere la necessità della preventiva licenza del Sindaco per l’esercizio dello “jus aedificandi” nella zona industriale est;
-in contrario -ossia nella prospettiva, formulata dall’appellante, di una lettura dell’art. 1 del regolamento alla luce del disposto di cui all’art. 111 del r. d. n. 297/1911- non assume rilievo dirimente evidenziare che l’art. 111 del regolamento del 1911 disciplinava le materie dei regolamenti edilizi comunali, con riferimento ai centri abitati e senza nulla stabilire in ordine alla possibilità di assoggettare l’esercizio dello “jus aedificandi” alla preventiva licenza sindacale, atteso che, come rilevato da Tar, il regolamento del 1911 non conteneva una elencazione tassativa di materie e non poneva quindi una limitazione esplicita alla potestà regolamentare del Comune in materia edilizia;
-la creazione di una “zona franca” in base a una legge -la n. 351/1904 che, peraltro, si limita essenzialmente a prevedere “misure agevolative per lo sviluppo della zona industriale … in materia di dazi e imposte, che nulla hanno a che fare con l’aspetto edilizio” che solo assume rilievo nel presente giudizio (così, correttamente, il Tar, a pag. 15 sent.)- non confligge con lo scopo di perseguire un ordinato sviluppo urbanistico -edilizio della città: essa è, cioè, tutt’altro che incompatibile con l’obbligo di munirsi di licenza edilizia per poter -nella specie- costruire a Barra, San Giovanni e Ponticelli. Opinare diversamente, ossia far discendere automaticamente, dall’esistenza di una “zona franca”, l’esenzione dall’obbligo della licenza esclusivamente per la zona industriale Est -Gianturco, significherebbe ammettere -il che appare oltremodo problematico- che il regolamento, rivolto ad assicurare un ordinato sviluppo della città, avrebbe creato in una zona una singolare “enclave” deregolamentata sul piano urbanistico -edilizio;
-la sentenza non appare censurabile anche laddove nega rilievo alle valutazioni giuridico -interpretative effettuate dal CTU (v. da pag. 28 relazione peritale e, soprattutto, da pag. 32), considerate dal Tar estranee all’ambito tecnico -valutativo affidato al consulente tecnico, evidente essendo la diversità tra quesito tecnico e questione giuridico -interpretativa sull’applicabilità, o meno, di una norma a una certa fattispecie;
-dal principio secondo cui era dal 1935 che occorreva possedere un titolo abilitativo edilizio (la licenza del Sindaco) per poter costruire (anche) in zona industriale, il Tar ha tratto le conclusioni del caso “in base all’epoca di realizzazione dei singoli manufatti, anche sulla base delle risultanze tecniche della CTU” (pag. 15 sent.).
3.4. Con il quarto motivo, recante erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, difetto d’istruttoria e contraddittorietà, l’appellante ritiene “lacunosa” la decisione di primo grado nella parte in cui altri fabbricati presenti nella part. 151, realizzati dopo il 1935 ma risalenti alla prima metà del Novecento, sono stati considerati privi di titolo, e quindi abusivi, in mancanza di una conforme certificazione del CTU, il quale nulla ha riferito su ricerche presso archivi comunali dirette a reperire documentazione idonea ad attestare l’inesistenza di titoli legittimanti i singoli interventi oggetto di contestazione, collocabili tra l’altro in una situazione storica caratterizzata da eventi bellici, incendi e saccheggi.
A detta dell’appellante, l’assenza di elementi certi e indiscutibili idonei a sancire l’illegittimità urbanistico -edilizia di determinati interventi per carenza di titolo vizierebbe l’iter logico -argomentativo della motivazione della decisione del Tar.
Anche il motivo sopra riassunto va respinto.
Diversamente da ciò che ritiene Im. il collegio considera corretto l’iter logico -giuridico seguito sul punto nella sentenza impugnata atteso che:
-muovendo dall’assunto che per le opere realizzate dopo il 1935 fosse necessaria la licenza edilizia il Tar ha tratto le conclusioni del caso sulla base dell’epoca di costruzione dei manufatti e alla luce delle risultanze della CTU, risultanze fondate principalmente, specie per le opere maggiormente risalenti, sul raffronto tra le foto aeree del 1929, 1943, 1956, 1986 e 1992;
-il Tar ha ritenuto che la prova positiva dell’esistenza di determinati manufatti nel 1935 non si fosse formata; che, cioè, fosse impossibile accertare la preesistenza di determinati immobili al 1935, anno a partire dal quale è come si è visto divenuto necessario il possesso della licenza;
-la situazione sopra descritta, relativa alla datazione di alcuni immobili, non giova alle ragioni di parte ricorrente dato che nel processo amministrativo vige la regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ. secondo la quale l’onere di provare i fatti è a carico di colui che li deduce. Non spettava perciò al Comune comprovare l’esistenza, o no, del titolo. Gravava sulla parte privata dimostrare il possesso del titolo o, comunque, la datazione dell’opera in tempi tali da escludere che per realizzare il manufatto occorresse la licenza del Sindaco. L’onere della prova non è stato assolto. Il motivo va respinto.
3.5. Il motivo sub 5., concernente violazione del PRG del 1939 del Comune di Napoli, approvato con legge 29 maggio 1939, n. 1208 -mancato esatto inquadramento e omessa considerazione della normativa urbanistica vigente nel Comune di Napoli a seguito dell’entrata in vigore del PRG del 1939- è formulato per l’ipotesi in cui questo collegio condivida l’interpretazione data dal Tar sull’applicabilità dell’art. 1 del regolamento edilizio anche agli edifici ricadenti in zona industriale.
In questa prospettiva, l’appellante ritiene che la normativa regolamentare del 1935 sia stata superata dalle disposizioni contenute nella l. n. 1208/1939 di approvazione del PRG, con le quali l’area industriale sarebbe stata esclusa dall’ambito di applicazione del piano regolatore.
Senonché, come eccepito dall’Avvocatura civica, il motivo è inammissibile ex art. 104 c.p.a. poiché si introduce un nuovo tema d’indagine, viene denunciato un nuovo profilo d’illegittimità non formulato dinanzi al Tar (e infatti il giudice di primo grado non ne dà conto : l’ “ancoraggio” della motivazione della sentenza impugnata esclusivamente al regolamento edilizio era dovuto alla tipologia del vizio dedotto).
3.6. Circa il sesto motivo, concernente erroneità dei presupposti di fatto, assentibilità degli interventi con dia, violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 380/2001 (v. ric. app., da pag. 31 a pag. 58), va premesso che nella sentenza impugnata (da pag. 20 a pag. 45) sono stati presi in considerazione, “intervento per intervento”, e respinti, tranne che per quanto riguarda le due pensiline di collegamento di cui al p. 4. dell’ordinanza di demolizione (sugli interventi di cui ai punti 15, 16, 19 e 20 dell’ord. n. 140/12 si è detto sopra, al p. 2. sent.), i profili di censura ulteriori dedotti da Im. e riassumibili nella tesi per cui il Comune avrebbe errato nel ritenere che per realizzare le opere elencate ai numeri da 1. a 3., da 5. a 14. e 17. e 18. dell’ord. n. 140/2012 occorresse il permesso di costruire e non la dia; con la conseguenza che la P. A. sarebbe incorsa in errore nell’irrogare la sanzione della demolizione ai sensi dell’art. 31 del t. u. n. 380/2001 anziché provvedere applicando la -meno sfavorevole, per il privato- disciplina sanzionatoria (soltanto pecuniaria) di cui agli articoli 33 comma 2 e -soprattutto- 37 del t. u. n. 380/01.
L’appellante ripropone le critiche mosse dinanzi al Tar con particolare riferimento all’assentibilità con dia degli interventi eseguiti sui manufatti sopra enumerati, descritti nelle loro caratteristiche e consistenze nell’ord. n. 140/12.
Anche quest’ultimo, articolato motivo dell’appello principale non può però trovare accoglimento, resistendo la sentenza impugnata, nel suo complesso, anche sotto questo aspetto, alle critiche che le sono state rivolte.
In via preliminare e in termini generali va rammentato che:
-l’area in questione è classificata dalla variante generale al PRG come zona G -insediamenti urbani integrati ed è disciplinata dagli articoli 54 e 138 delle NTA, con particolare riguardo alla subordinazione dell’attività edilizia all’approvazione di strumento urbanistico esecutivo,
-un intervento qualificabile come ristrutturazione edilizia presuppone un immobile preesistente, sul quale le opere intervengano, costruito in modo legittimo, e non un fabbricato privo di titolo edilizio, ossia abusivo. La regolarità, sotto il profilo urbanistico -edilizio, dell’immobile preesistente, interessato da diverse tipologie d’interventi, che non siano quelli di nuova edificazione, costituisce presupposto imprescindibile per l’ammissibilità degli interventi in questione. Ex art. 10/c) del t. u. n. 380/2001 gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti modifiche di volume, sagome, prospetti e superfici sono soggetti a permesso di costruire, con la conseguente demolizione delle opere eseguite in assenza di permesso in totale difformità da esso, fatta salva l’applicazione della sanzione (soltanto) pecuniaria qualora ricorra la condizione di cui all’art. 33, comma 2, t. u. cit. ;
-per quanto riguarda la nozione di pertinenza, l’art. 817 cod. civ. definisce pertinenze “le cose destinate in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa”. La nozione di pertinenza accolta dalla giurisprudenza amministrativa è però meno ampia di quella civilistica. La giurisprudenza è generalmente orientata a ritenere che gli elementi che caratterizzano le pertinenze siano, da un lato, l’esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l’assetto del territorio; dall’altro, l’esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente incapacità per le medesime di essere utilizzate separatamente ed autonomamente. Un’opera può definirsi accessoria rispetto a un’altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l’alterazione dell’essenza e della funzione dell’insieme. Tale vincolo di accessorietà deve desumersi dal rapporto oggettivo esistente fra le due cose e non dalla semplice utilità che da una di esse possa ricavare colui che abbia la disponibilità di entrambe. In materia edilizia “è qualificabile pertinenza qualsiasi manufatto strumentale rispetto ad uno principale e di dimensioni modeste rispetto a quest’ultimo; più in particolare la pertinenza è configurabile quando vi è un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè un nesso che non consenta altro che la destinazione della cosa ad un uso pertinenziale durevole, oltre che una dimensione ridotta e modesta del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce; inoltre, a differenza della nozione di pertinenza di derivazione civilistica, ai fini edilizi il manufatto può essere considerato pertinenza quando non solo è preordinato ad un’oggettiva esigenza dell’edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non comporta un c.d. carico urbanistico (cfr. Cons. St., nn. 3952/14, 3074/14, 2196/14 e altre);
-la più favorevole disciplina in materia di pertinenze, realizzabili mediante dia, con il conseguente assoggettamento, nel caso di opere eseguite in assenza o in difformità dalla dia, a sanzione soltanto pecuniaria ex art. 37 del t. u. n. 380/01, è applicabile esclusivamente agli interventi che afferiscano a immobili edificati in modo legittimo e non trova, viceversa, applicazione nel caso di interventi pertinenziali a immobili abusivi;
-nella specie, come emerge dagli atti (e, “in primis”, dalle premesse dell’ord. n. 140/12), con riferimento alla maggior parte degli interventi le dia presentate da Im. sono state -legittimamente: v. Cons. St., IV, n. 5704/2013- annullate dal Comune;
Ciò posto, guardando adesso da vicino le singole opere enumerate nell’ord. n. 140/2012:
-sub 1. -manufatto su due livelli in scatolare di acciaio e vetri di circa 24 mq. adibito a galleria di passaggio. In modo corretto il Tar ha considerato legittimo l’ordine di demolizione: a tal fine vengono in rilievo, in maniera decisiva, le dimensioni non irrilevanti del manufatto e l’inerenza della galleria di passaggio a un immobile -la torre- abusivo, con conseguente inapplicabilità della disciplina sulle pertinenze;
-sub 2. -tettoia di 45 mq. . La statuizione del giudice di primo grado va condivisa, stante le dimensioni non trascurabili del manufatto, l’incidenza dello stesso sull’assetto dei luoghi e l’alterazione di prospetto e sagoma del fabbricato cui accede, con conseguente applicabilità della disciplina di cui all’art. 10/c) del t. u. n. 380/2001. Senza considerare che a tutto concedere l’opera risulterebbe comunque “accessiva” agli adiacenti corpi di fabbrica indicati con le lettere A e B nell’elaborato planimetrico catastale (e con le lettere G ed F nella nomenclatura utilizzata dal CTU -v. pag. 16 relazione peritale), fabbricati sub 17. e 18. legittimamente sanzionati con l’ord. n. 140/12 a causa del loro carattere abusivo;
-sub 3. -tettoia di 43 mq. . Valgono considerazioni analoghe a quelle fatte sopra, in merito alle dimensioni non irrilevanti del manufatto, all’incidenza dello stesso sull’assetto dei luoghi e alle modifiche di sagoma e prospetto. Va soggiunto che, nell’esercizio dei poteri di vigilanza urbanistico -edilizia che gli competono, il Comune, nell’ordinare la demolizione di un’opera, non è tenuto a valutare in via preventiva l’eventuale sanabilità del manufatto;
(sub 4. il Tar ha accolto, si veda “infra” il p. 4. sent., sull’appello incidentale del Comune);
-sub. 5. -pensilina tra i corpi di fabbrica E ed L (B e D, nella nomenclatura del CTU, pag. 16 relaz. peritale). Indipendentemente dalle dimensioni del manufatto in discorso viene in questione un intervento accessorio a un immobile abusivo e ciò è dirimente per respingere anche questo profilo di censura. Sull’affermata assentibilità in sanatoria vale quanto detto sopra sub 3. circa il fatto che il Comune, nell’ordinare la demolizione di un’opera, non è tenuto a valutare in via preventiva l’eventuale sanabilità del manufatto;
-sub 6. e 8. (si tratta del medesimo intervento indicato due volte nell’ord. n. 140/12) -piccolo manufatto adibito a portineria. Si tratta dell’edificio denominato P-portineria, dal CTU (pag. 17 relaz.), esistente soltanto dal 1956 (v. relazione CTU, pag. 27). Non risulta infatti comprovata in maniera adeguata la preesistenza del manufatto al 1935, anche alla luce dell’esame delle foto aeree allegate alla relazione del CTU (ci si riferisce all’aerofotogrammetria del 1956, nella quale il manufatto P è ben visibile, posta a confronto con le foto del 1929 e del 1943, dalle quali il manufatto non è distinguibile): di qui la necessità del titolo edilizio e la reiezione anche di questo profilo di doglianza;
-sub 7. -tettoia in legno di circa 59 mq. posta in corrispondenza degli accessi alle salette “meeting” del corpo di fabbrica di cui al p. 13. (edificio A nella nomenclatura del CTU). Valgono i rilievi fatti sopra per gli interventi sub 2. e 3., ossia dimensioni non trascurabili e inerenza a immobile (l’edificio A, appunto, su cui v. “infra”, p. 13.) di cui non è stata comprovata la risalenza al 1935 o ad epoca anteriore, come si desume dall’esame delle foto aeree in atti;
-sub 9. -tettoia in legno -forno, di mq. 6 X 2,50 (opera di cui alla lettera N della tabella del CTU -pag. 17 relaz.) : indipendentemente dalle dimensioni del manufatto, dalla foto allegata alla relazione del CTU non risulta in maniera evidente il carattere precario e temporaneo dello stesso, e la sua facile rimuovibilità, sembrando, anzi, la struttura destinata, sotto l’aspetto funzionale, a soddisfare esigenze prolungate nel tempo e, comunque, non temporanee. Di qui il rigetto anche di questo profilo di censura;
-sub 10 -due locali destinati al contenimento di impianti tecnologici, corrispondenti alle centrali elettriche di trasformazione dell’energia. Dagli atti e in particolare dalle foto allegate alla relazione del CTU emergono le non modeste dimensioni dei due manufatti, di nuova edificazione e afferenti a manufatto illegittimo. Risulta inoltre improprio il richiamo, fatto dall’appellante, agli articoli 22, comma 3/a) del t. u. n. 380/2001 e all’art. 2, comma 1/b) della l. reg. n. 19/2001, dato che le norme suindicate fanno riferimento a ristrutturazioni;
-sub 11. -passaggio carrabile coperto a forma di ELLE lungo per un tratto circa mt. 34 e largo circa mt. 3,60 e per il tratto perpendicolare lungo mt. 9,60 e largo mt. 4,60, posto al di sotto del corpo di fabbrica denominato B dal CTU (cfr. foto n. 12 allegata alla relaz. CTU). Non risulta comprovata la preesistenza al 1935 del corpo di fabbrica “B” (cfr. p. 14.) del quale il lungo passaggio coperto formerebbe parte integrante. L’intervento “accederebbe” a un immobile abusivo. La statuizione del Tar sul punto è corretta;
-sub 12. -pensilina retrostante l’edificio principale destinato ad albergo. Si tratta di intervento assentito nel 2007 con dia successivamente annullata in via di autotutela col provvedimento n. 770/09 (giudicato legittimo dal Tar e dalla IV sez. di questo Consiglio). Anche a qualificare l’opera come pertinenziale, sarebbe ostativo all’accoglimento del profilo di censura il carattere abusivo dell’edificio principale al quale la pensilina accederebbe;
-sub 13. -corpo di fabbrica rettangolare su due livelli, insistente su una superficie di mq. 509 per una cubatura di mc. 3553 “con sale meeting e servizi igienici al piano terra e 11 camere d’albergo al piano primo” (edificio A secondo la nomenclatura del CTU, foto 14 e 15). Il fatto che il corpo di fabbrica sia visibile nella foto aerea del 1943, anche se non in modo completo (pag. 24 relaz. CTU), non costituisce dimostrazione della preesistenza del manufatto rispetto al 1935, ossia alla entrata in vigore della norma che ha prescritto la necessità della licenza edilizia. Le opere in questione si presentano come interventi di nuova costruzione. La statuizione di pag. 41 sent. va condivisa;
-sub 14. -parte di corpo di fabbrica di forma rettangolare su due livelli, per una superficie di mq. 1.683 e una cubatura di mc. 16.661, “con sala congressi e un negozio di abbigliamento al piano terra e stanze d’albergo al primo piano” (edificio B secondo la nomenclatura del CTU e diverse foto allegate alla relaz. CTU; intervento assentito con dia annullata con l’atto n. 770/2009). Come si è accennato sopra, anche di quest’ultimo corpo di fabbrica non è stata dimostrata la preesistenza al 1935. Il manufatto -databile 1952 (pag. 25 relaz. CTU)- compare per la prima volta nella foto aerea del 1956. Viene perciò in questione un intervento riferito a un preesistente edificio abusivo. La statuizione del Tar è corretta. Non pare tuttavia inutile aggiungere che l’art. 33, commi 1 e 2 del t. u. n. 380/2001 -interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, prevede in primo luogo la rimozione o la demolizione dell’opera eseguita abusivamente, e solo in un secondo momento, qualora il privato non abbia ottemperato in maniera spontanea all’ordine di demolizione, e solo all’esito di una valutazione successiva dell’UTC in ordine alla possibilità, o meno, di ripristinare lo stato dei luoghi, l’applicazione della sanzione pecuniaria;
-sub 17. e 18. -rispettivamente, corpo di fabbrica di circa 356 mq. e di circa 2.373 mc, adibito a lavanderia (intervento assentito con dia annullata nel 2009) e corpo di fabbrica di forma rettangolare in muratura su due livelli, di circa 60 mq. e 351 mc. (corpi sub G ed F nella nomenclatura del CTU a pag. 16 relaz.): dalla relazione peritale e dalle foto aeree non risulta comprovata la preesistenza al 1935 dei manufatti, il primo dei quali avente consistenza cospicua.
4. Sull’appello incidentale del Comune di Napoli.
Il Tar, una volta stabilito che per costruire nella zona industriale est era necessaria la licenza del Sindaco dal 1935, sulla base delle -condivise- risultanze della CTU ha concluso per la fondatezza del ricorso e per l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione limitatamente alle opere elencate ai nn. 15. -corpo di fabbrica rettangolare di 1.472 mq. e di 14.520 mc.; 16. -corpo di fabbrica di 1.350 mq. e di mc. 5.841; 19. -corpo di fabbrica trapezoidale su due livelli, insistente su una superficie di 103 mq. e di 923 mc., e 20. -due manufatti trapezoidali, il primo di 35 mq. con un volume di 161 mc. e il secondo di 65 mq. e 376 mc., del provvedimento n. 140/12, stante la “preesistenza” dei manufatti all’introduzione della norma con cui era prescritta la necessità del titolo edilizio, e con la precisazione, con riguardo agli interventi di cui ai punti 15. e 16., che se è vero che rispetto alle preesistenze erano sopraggiunti più recenti lavori di ristrutturazione, che avrebbero modificato le consistenze edilizie dei due corpi di fabbrica, è vero anche -v. sentenza, pag. 16- che l’ordinanza di demolizione fa riferimento ai due manufatti “per intero” senza distinguere, nè delimitare, l’àmbito degli interventi di ristrutturazione sui quali soltanto avrebbe dovuto incentrarsi l’azione repressiva del Comune.
A pag. 30, poi, la sentenza ha accolto la censura, con conseguente annullamento “in parte qua” dell’ordinanza di demolizione, relativa all’opera di cui al p. 4. del provvedimento n. 140/12 -due pensiline di collegamento, per la realizzazione delle quali in sentenza è stata ritenuta sufficiente la dia, vista la natura e la modestia dell’intervento, e considerando anche che uno dei due edifici collegati alla pensilina era legittimo in quanto preesistente al 1935.
L’appello incidentale comunale, che riguarda gli interventi di cui ai punti 15., 16., 20. e 4. ord. 140/12 è nel suo complesso infondato e da respingere.
Si può quindi fare a meno di esaminare l’eccezione di inammissibilità dello stesso sollevata da Im..
Quanto al corpo di fabbrica di cui al p. 15. il Comune muove dall’assunto che il manufatto, indicato nella nomenclatura del CTU con la lettera C (v. pag. 17 e fine pag. 25 -inizio pag. 26 relazione CTU), benché esistente nel 1929, risulta distrutto dai bombardamenti del 1943 ed è stato quindi ricostruito con le caratteristiche odierne: non si trattava, dunque, come è stato invece affermato in sentenza, di sanzionare soltanto ulteriori interventi di ristrutturazione che hanno mutato la consistenza del manufatto nel tempo, dato che prima dell’attività di ristrutturazione vi era un organismo edilizio dotato di sole mura perimetrali e privo di copertura.
Il profilo di censura è infondato.
In merito alle preesistenze il CTU dichiara, a pagina 25 e 26 della relazione, che il manufatto “è preesistente al 1929, subisce la sostituzione della copertura dopo il 1943; volumetricamente conserva le originarie caratteristiche fino ai recenti interventi di ristrutturazione edilizia”.
Viene dunque in rilievo un immobile preesistente di indubbia liceità.
Le conclusioni del giudice di primo grado in merito all’intervento di cui al p. 16. non vengono contestate in maniera specifica.
Analogo per certi versi a quello sub p. 15. il profilo di censura che riguarda il p. 19. dell’ordinanza di demolizione impugnata avanti al Tar: l’abuso riguarda un’opera sorta “su un comodo rurale trasformato per cui -si sostiene- non è certo possibile andare a sanzionare, come afferma il Tar, i singoli interventi di ristrutturazione”.
Anche il profilo sopra trascritto non può trovare accoglimento.
Esso riguarda il corpo di fabbrica indicato alla lettera E) nella relazione peritale (pag. 24), preesistente a inizio ‘900 e che, in una situazione di fatto, peraltro, di tutt’altro che agevole comprensione, risulta avere formato oggetto di marginali interventi sanzionabili soltanto pecuniariamente.
Quanto ai due manufatti sub p. 20., individuati con le lettere H e I a pag. 17 della relazione peritale, a detta del Comune le conclusioni del CTU risulterebbero contraddittorie atteso che lo stesso consulente tecnico a pag. 20 della relazione afferma che, in base alla foto aerea del 14 agosto 1943, gli edifici suddetti, di circa 35 e 65 mq., non sono chiaramente individuabili.
Le conclusioni dell’appellante incidentale non convincono.
La scarsa nitidezza di alcune delle foto aeree e più in generale le peculiarità dell’intera vicenda rendono alquanto problematica una ricostruzione esatta, o anche solo altamente attendibile, della situazione dei luoghi con riferimento a un dato momento, assai lontano nel tempo.
E’ innegabile che lo stesso CTU, in un primo passaggio della relazione (v. pag. 20), si sia espresso sui due manufatti, con un inciso, in termini in qualche misura dubitativi (“non chiaramente individuabile”).
E in effetti la foto aerea del 1929 allegata alla relazione del CTU non offre risultati certi sul punto.
Peraltro, a pag. 26 della relazione lo stesso CTU conclude nel senso della preesistenza al 1929 di entrambi gli edifici, H e I, che sembrano corrispondere al manufatto identificato nella canapina del 1934 e nel mappale catastale del 1949 con le particelle nn. 15 e 16. Resta fermo che eventuali difformità riscontrate rispetto agli immobili nella loro consistenza originaria andrebbero, ricorrendone i presupposti, sanzionate pecuniariamente.
Ciò consente di disattendere anche questo profilo di censura.
Infine, sull’intervento di cui al p. 4., a detta del Comune la sentenza avrebbe errato nel considerare sufficiente la dia per la realizzazione di due pensiline di collegamento, ancorchè aventi dimensioni assai modeste.
Senonchè, anche dalla foto allegata alla relazione del CTU (n. 14) emerge il carattere pertinenziale e accessorio dell’opera, che afferisce a immobile legittimo, poiché risalente a epoca anteriore al 1935, “e pertanto non può dedursene l’accessorietà in via esclusiva a edifici abusivi”.
In conclusione appello principale e appello incidentale vanno respinti.
In considerazione della soccombenza reciproca, delle peculiarità e della complessità in fatto e in diritto della controversia sussistono eccezionali ragioni per compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Sesta –
definitivamente pronunciando sull’appello principale di Im. e sull’appello incidentale del Comune di Napoli, come in epigrafe proposti, li respinge entrambi confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.
Spese del grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio dell’11 novembre 2014 con l’intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi – Presidente
Maurizio Meschino – Consigliere
Sergio De Felice – Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg – Consigliere
Marco Buricelli – Consigliere, Estensore
Depositata in Segreteria il 5 gennaio 2015.
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