Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 4 dicembre 2014, n. 50944
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IPPOLITO Francesco – Presidente
Dott. CAPOZZI Angelo – Consigliere
Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere
Dott. DE AMICIS Gaetano – rel. Consigliere
Dott. BASSI Alessandra – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 5066/2010 CORTE APPELLO di TORINO, del 20/11/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 04/11/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GAETANO DE AMICIS;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Gaeta Pietro, che ha concluso per l’annullamento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio.
udito il difensore avv. (OMISSIS), che ha concluso per l’annullamento con rinvio, riguardo al secondo motivo di ricorso, e per l’annullamento senza rinvio, riguardo al primo ed al terzo motivo.
1.1. Il (OMISSIS) veniva ritenuto responsabile del reato di peculato per avere, nel predetto arco temporale, utilizzato l’apparecchio di telefonia mobile fornitogli dal Comune per ragioni di servizio, effettuando numerose connessioni via internet, wap, chiamate dall’estero ed attivato servizi aggiuntivi estranei alle funzioni del suo ufficio, per un importo complessivo di euro 10.802,57.
Egli, inoltre, nella su indicata data del 29 settembre 2008 aveva presentato una denunzia presso la Compagnia dei Carabinieri di Verbania, seguita da integrazioni in data 10 ottobre 2008 e in data 17 ottobre 2008, in cui aveva falsamente affermato che la fatturazione delle telefonate indicate nel capo sub A) era da attribuire a virus che avrebbero attivato, contro la sua volonta’, il modem dei telefoni cellulari in suo uso.
2. Avverso la su indicata sentenza della Corte d’appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia del (OMISSIS), deducendo tre motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
2.1. Illogicita’ e contraddittorieta’ della motivazione in ordine alla sussistenza della fattispecie delittuosa di cui all’articolo 314 c.p., comma 1, avendo la Corte d’appello omesso di rispondere ai rilievi difensivi sollevati con riguardo ai seguenti profili: a) la sussistenza di due tipologie contrattuali, l’una riservata al personale politico e comprensiva di connessioni via internet, l’altra, invece, riservata alla dirigenza lato sensu intesa, mancante di tale opzione, con la conseguenza che il (OMISSIS) aveva titolo per accedere ad internet; b) la sostanziale parita’ fra i consumi addebitati al (OMISSIS) e quelli addebitati ad altri assessori; c) l’assoluta inesistenza di prove in ordine a connessioni telefoniche non “istituzionali”.
2.2. Erronea applicazione di legge e vizi motivazionali, per illogicita’ e contraddittorieta’, ponendosi la Corte d’appello nel solco di una giurisprudenza ormai superata, alla luce del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza del 20 dicembre 2012, secondo cui la condotta in esame non puo’ essere sussunta nella fattispecie del peculato ordinario, ma, se del caso, puo’ assumere rilevanza solo nell’ambito del peculato d’uso di cui all’articolo 314 cpv. c.p., ovvero, ed in presenza degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie, all’interno della previsione di cui all’articolo 323 c.p..
2.3. Inosservanza della norma penale di cui all’articolo 367 c.p. e vizi motivazionali, per illogicita’ e contraddittorieta’, con riferimento al denunciato difetto di dolo per la contestazione di cui al capo sub B), avendo il (OMISSIS) agito in buona fede nello sporgere denunzia ai Carabinieri di Verbania in base alla consulenza di un tecnico comunale in data 9 settembre 2008, secondo cui era da ritenere plausibile che il telefono – per il tramite del computer in uso all’imputato – fosse stato effettivamente oggetto di un attacco informatico da parte di ignoti. Solo alcuni mesi dopo, gli accertamenti tecnici al riguardo espletati dal P.M. consentivano di capire che il parere del tecnico interpellato dal (OMISSIS) prima di sporgere la denunzia probabilmente non era fondato.
3. Con memoria depositata il 14 ottobre 2014 il difensore dell’imputato ha ribadito le proprie censure, allegando alcune pronunzie di questa Suprema Corte in tema di rapporti fra la fattispecie del peculato d’uso e quella del peculato ordinario.
2. Non meritevole di accoglimento deve ritenersi la prima doglianza, reiterativa di obiezioni gia’ concordemente risolte in punto di fatto, con congrua ed esaustiva motivazione, dalle decisioni dei Giudici di merito, che sulla base delle correlative acquisizioni probatorie hanno al riguardo evidenziato: a) che fu proprio il Sindaco del Comune di Verbania a chieder conto all’imputato dell’ingiustificata lievitazione dei costi di utilizzo del telefono cellulare concessogli in uso per ragioni di servizio, contestando al suo collaboratore l’attivazione di connessioni ad internet da quell’apparecchio, che erano risultate particolarmente onerose per l’ente pubblico, in mancanza di apposite convenzioni con il gestore
del servizio; b) che dall’analisi dei prospetti riepilogativi di tutte le spese telefoniche nel corso degli anni 2007-2008, riferite a tutte le schede in uso al Comune di Verbania, risultava una sproporzione tra gli importi delle bollette del (OMISSIS) rispetto a tutti gli altri utilizzatori delle schede; c) che i costi addebitati sull’utenza telefonica di servizio in uso all’imputato (relativi a connessioni internet, wap, ricezione di loghi, sfondi, ecc. e chiamate operate dall’estero) nessuna attinenza avevano con le funzioni di vice-Sindaco da lui svolte; d) che le conclusioni della relazione di consulenza informatica espletata nel corso delle indagini hanno chiaramente evidenziato l’inesistenza di virus, nel personal computer dell’imputato, che possano aver attivato connessioni ad internet dall’utenza cellulare di servizio; e) che, analogamente, il gestore di telefonia della “Vodafone”, contrariamente a quanto sostenuto dall’imputato nell’integrazione della sua denuncia, ha escluso l’attivazione di connessioni ad internet ad opera di virus informatici; f) che fu proprio l’imputato, preoccupato dei rilievi addebitatigli dal Sindaco riguardo all’eccessivita’ degli importi delle sue bollette telefoniche, ad insistere presso il funzionario responsabile del servizio informatico e statistico del Comune, (OMISSIS), cui suggeri’ di scrivere una breve relazione “su possibili connessioni internet indesiderate tra il suo p.c. e il cellulare”, benche’ la stessa gli avesse fatto presente “che non ne capiva molto ed era in ferie”; g) che del tutto irrilevante, di conseguenza, doveva ritenersi la circostanza che la (OMISSIS), aderendo alla sua ipotetica ricostruzione dei fatti, funzionale ad offrire una spiegazione “di comodo” al Sindaco, non avesse escluso quell’evenienza.
Coerenti, pertanto, si palesano, alla luce delle risultanze complessivamente offerte dal quadro probatorio in motivazione esposto e rappresentato, le conclusioni cui e’ pervenuta la Corte di merito laddove ha escluso l’attivazione di connessioni ad internet ad opera di virus presenti nel computer dell’imputato, ritenendo provato il tema d’accusa con riferimento sia all’abusiva effettuazione di tali, non consentite, connessioni da parte del (OMISSIS), sia all’assenza della prospettata buona fede nel momento in cui egli presento’ ai Carabinieri la denuncia di abusiva intrusione ad opera di ignoti, falsamente ipotizzando l’avvenuta commissione in suo danno del reato di frode informatica, per allontanare da se’ la responsabilita’ di quanto accaduto, sul prospettato rilievo che i costi del telefono di servizio fossero da imputare a collegamenti non da lui volontariamente attivati, ma da agenti esterni introdottisi nel suo computer.
Secondo una pacifica linea interpretativa ormai da tempo tracciata da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 2301 del 02/12/1969, dep. 31/01/1970, Rv. 113881), per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’articolo 367 c.p. e’ sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e la volonta’ di affermare falsamente l’avvenuta consumazione di un reato, mentre il movente del delitto non scusa, ne’ interessa ai fini della sua configurabilita’.
Deve poi ribadirsi il principio secondo cui il delitto de quo ha natura di reato di pericolo, risultando integrato allorche’ la falsa denuncia di reato determini l’astratta possibilita’ di un’attivita’ degli organi inquirenti diretta al suo accertamento, mentre non e’ necessario che l’autorita’ sia stata in concreto ingannata, ne’ che un procedimento penale sia stato realmente iniziato, bastando che si sia verificato un pericolo di sviamento delle indagini. Ne consegue che la sussistenza del reato puo’ essere esclusa solo quando la non verosimiglianza del fatto denunciato appaia “prima facie” ed escluda, pertanto, anche la mera possibilita’ dell’inizio di un procedimento penale (ex multis, v. Sez. 6, n. 33016 del 10/04/2014, dep. 24/07/2014, Rv. 260455; Sez. 6, n. 5786 del 03/04/2000, dep. 18/05/2000, Rv. 220574).
Pienamente uniformandosi alle regole desumibili da tale quadro di principii, i Giudici di merito hanno osservato: a) che a seguito delle denunce presentate dall’imputato e’ stato aperto un procedimento penale; b) che dinanzi alla contestazione di un consumo telefonico eccessivo, l’imputato, lungi dal dimostrare una volonta’ di contenimento del danno attraverso la proposta di un’immediata rifusione del surplus di consumo addebitatogli, ha cercato unicamente di allontanare da se’ la responsabilita’ dell’accaduto, prospettando una giustificazione basata sull’ipotetica esistenza di virus informatici la cui fondatezza, non solo dall’esito dei successivi accertamenti, ma dalle stesse motivazioni e connotazioni modali del suo comportamento anteriormente tenuto doveva ritenersi radicalmente esclusa.
3. Nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, dunque, ci si trova di fronte a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a saldarsi perfettamente con quella precedente, si’ da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che entrambe le pronunzie hanno offerto una congrua e ragionevole giustificazione del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti del ricorrente.
Discende da tale evenienza, secondo una linea interpretativa in questa Sede da tempo tracciata, che l’esito del giudizio di responsabilita’ non puo’ certo essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una “mirata rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perche’ illustrati come maggiormente plausibili, o perche’ assertivamente dotati di una migliore capacita’ esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si e’ in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, dep. 23/06/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, dep. 28/12/2006, Rv. 235507).
Nel caso di specie, l’adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate nell’impugnata sentenza non e’ stata validamente censurata dal ricorrente, limitatosi a riproporre, per lo piu’, una serie di obiezioni gia’ esaustivamente disattese dai Giudici di merito ed a formulare critiche e rilievi sulle valutazioni espresse in ordine alle risultanze offerte dal materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione, prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, in questa Sede, evidentemente, non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra evidenziato.
Il tessuto motivazionale della sentenza in esame, in definitiva, non presenta affatto quegli aspetti di carenza, contraddittorieta’ o macroscopica illogicita’ del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua del consolidato insegnamento giurisprudenziale da questa Suprema Corte elaborato, potrebbero indurre a ritenere sussistente il vizio di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) (anche nella sua nuova formulazione), nel quale sostanzialmente si risolvono le censure dal ricorrente articolate.
4. Fondato, di contro, deve ritenersi il secondo motivo di doglianza, ove si ponga mente alle implicazioni sottese alla recente enunciazione, da parte di questa Suprema Corte, del principio di diritto secondo cui, in tema di peculato, la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che utilizzi il telefono d’ufficio per fini personali al di fuori dei casi d’urgenza o di specifiche e legittime autorizzazioni, integra il reato di peculato d’uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalita’ dell’ufficio, mentre deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative (Sez. U., n. 19054 del 20/12/2012, dep. 02/05/2013, Rv. 255296).
A tale riguardo, infatti, sulla base di quanto sopra esposto in narrativa, i Giudici di merito hanno puntualmente argomentato nel senso che il numero, la qualita’ ed il costo dei servizi inseriti nella bolletta telefonica hanno cagionato un apprezzabile danno economico al patrimonio della p.a., dovendosi ritenere conseguentemente integrati, alla luce delle statuizioni contenute nella su citata decisione delle Sezioni Unite, i presupposti per ravvisare nel caso di specie la configurabilita’ della piu’ favorevole ipotesi delittuosa del peculato d’uso.
5. In conclusione, alla stregua delle su esposte considerazioni, diversamente qualificata l’imputazione ai sensi dell’articolo 314 c.p., comma 2, la sentenza impugnata va annullata limitatamente alla determinazione del correlativo trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Torino per nuovo giudizio sul punto.
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