Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 16 dicembre 2014, n. 52121
Fatto
1. Con sentenza del 05/12/2014, la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza pronunciata in data 06/02/2013 dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale della medesima città nella parte in cui aveva ritenuto D.C.D. (in concorso con G.C. non ricorrente) colpevole dei seguenti reati: “Capo A) artt. 110-629 comma 1 e 2 in rei. 628 comma 3 n. 61 n. 5 C.P. perché, presentandosi a I.F. come agenti di polizia in borghese dopo averlo inseguito e fermato con la minaccia di elevare verbale di contravvenzione per un importo di 1.300,00 Euro, lo costringevano a consegnare loro la somma di Euro 500,00 prelevati da uno sportello bancomat, procurandosi cosi un ingiusto profitto con altrui danno. Fatto commesso in (omissis) . Capo B) artt. 110 – 347 – 61 n. 2 C.P. perché in concorso tra loro usurpavano la posizione pubblica di agente di polizia, mostrando un distintivo e presentandosi a I.F. come Polizia Antidroga. Fatto commesso in (omissis) ”.
Il fatto veniva ricostruito dalla Corte territoriale nei seguenti termini: “Il procedimento trae origine dalla denuncia sporta in data (omissis) da I.F. il quale dichiarava che la notte del (omissis) mentre era alla guida della propria autovettura veniva inseguito da un una Ford Focus da cui scendeva un uomo che gli mostrava un distintivo, e si qualificava come appartenente alla Polizia Antidroga e gli contestava tre violazioni del codice della strada a suo dire memorizzate in una memory card che gli esibiva, comportanti sanzioni pecuniarie per Euro 1.300,00 ed il ritiro della patente ed il sequestro del mezzo. Nel medesimo contesto il secondo uomo rimaneva a bordo della Focus, dalla quale proveniva il cicalio tipico delle trasmissioni via radio. Quindi il sedicente agente operante prospettava al I. la possibilità di annullare la sanzione, stracciando la memory card, in cambio di Euro 250,00 per lui e per il collega. Visto che lo I. non aveva contanti, gli stessi falsi poliziotti lo accompagnavano ad uno sportello bancomat per ritirare la cifra pattuita, quindi intascato il contante accartocciavano e gettavano in un cestino la memory card. Una volta giunto a casa la parte lesa decideva di tornare sul posto per recuperare la memory card e quindi constatava che il presunto cicalio della polizia sentito nella Ford Focus non era altro che una mera registrazione. A seguito delle indagini degli organi di Polizia gli operanti individuavano i due presunti agenti negli odierni imputati che di seguito venivano con certezza riconosciuti dalla parte lesa. Nel corso del giudizio immediato il G. , pur cercando di sminuire le proprie responsabilità e senza fare il nome del complice, nella sostanza ammetteva l’incontro con lo I. , l’inseguimento, la qualificazione come agente di polizia e la circostanza di aver giocato sull’equivoco nato fino al ricevimento della somma di 500,00 Euro”.
2. Avverso la suddetta sentenza, l’imputato, in proprio, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
2.1. illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto che il complice del G. fosse esso ricorrente. La Corte territoriale, infatti, non aveva risposto alle molteplici osservazioni indicate nell’atto di appello con le quale si erano analiticamente criticate tutte le contraddizioni in cui era incorso il primo giudice. Non poteva essere ritenuto un valido elemento di prova il riconoscimento fotografico effettuato dalla parte offesa in quanto era stato effettuato con un margine di incertezza atteso che aveva affermato che esso ricorrente “era comunque dimagrito rispetto alla fotografia mostratagli”. Privo di valenza, poi, doveva ritenersi il riconoscimento dell’autovettura Ford Focus con la quale la parte offesa era stata fermata trattandosi di un modello abbastanza comune e, quindi, non individualizzante.
2.2. errata qualificazione giuridica del fatto: sostiene il ricorrente che, nel fatto addebitatogli, sarebbe configurabile, al più, il reato di truffa aggravata e non quello di estorsione come ritenuto peraltro da una parte della giurisprudenza di legittimità;
2.3. violazione dell’art. 61 n. 5 cod. pen. per avere la Corte omesso di motivare sulla sussistenza dell’aggravante del tempo di notte;
2.4. violazione dell’art. 62 bis cod. pen. per non avere la Corte concesso le suddette attenuanti nonostante ne sussistessero i presupposti (incensuratezza e corretto comportamento processuale).
Diritto
1. illogicità della motivazione in ordine alla responsabilità: il ricorrente sostiene di non aver partecipato all’azione delittuosa.
Sennonché, la sua responsabilità è stata affermata da entrambi i giudici di merito (cfr pag. 7 sentenza impugnata) sulla base del suo certo riconoscimento fotografico avvenuto ad opera della parte offesa.
Il ricorrente sostiene che il suddetto riconoscimento sarebbe inattendibile solo perché la parte offesa aveva dichiarato che, rispetto alla foto segnaletica, esso imputato risultava più magro: ma, si tratta di un circostanza che, lungi dal minare l’attendibilità del riconoscimento, al contrario, paradossalmente, la rafforza perché è indice del fatto che la parte offesa aveva avuto modo di vedere molto bene il complice del G. (reo confesso) tanto da notare che il medesimo era più magro di quanto risultasse in foto.
A tale riconoscimento, va aggiunto che la parte offesa aveva dichiarato che i due imputati si trovavano a bordo di una Ford Focus verde scuro con i cerchi in lega, ossia la stessa auto a bordo della quale i due erano stati visti insieme a seguito di un controllo effettuato dalle Forze dell’Ordine (cfr pag. 3 ricorso).
Il compendio probatorio, quindi, può ritenersi ampiamente sufficiente a far ritenere incensurabile la conclusione alla quale entrambi i giudici di merito sono pervenuti.
Infatti, le censure dedotte vanno ritenute null’altro che un tentativo di introdurre in questa sede di legittimità una nuova ed alternativa valutazione di quegli stessi elementi fattuali ampiamente presi in esame da entrambi i giudici di merito: il che rende la doglianza manifestamente infondata.
2. errata qualificazione giuridica del fatto: la censura è fondata per le ragioni di seguito indicate.
La Corte territoriale, ha respinto la medesima doglianza con la seguente testuale motivazione: “Per quanto riguarda il capo A), va escluso possa parlarsi di truffa in luogo di estorsione, in quanto la consegna del denaro da parte della vittima, come ben veniva già illustrato in primo grado, non derivava da un mero inganno realizzato dai finti poliziotti, ma dalla minaccia posta in essere dagli stessi di sottoposizione a una grave sanzione amministrativa. Valga solo, per quanto riguarda il criterio distintivo tra il reato di estorsione e il reato di truffa aggravata, riportare l’insegnamento costante della Corte di legittimità secondo cui la differenza risiede nelle modalità in cui viene prospettato alla vittima il danno e, nel caso, gli agenti certamente conseguivano l’ingiusto profitto attraverso un atteggiamento di palese minaccia con la prospettazione del danno certo e reale costituito dalla sanzione pecuniari”.
L’art. 640/2 n. 2 cod. pen. prevede l’aggravamento della pena “se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’autorità”.
Poiché la prospettazione di un pericolo – sebbene immaginario – determina nella vittima una forma di coartazione della volontà, si è posto il problema di identificare gli elementi che consentano di differenziare la truffa aggravata dall’estorsione.
Il suddetto problema era già presente all’attenzione del legislatore: infatti, al § 750 voi V, parte II della Relazione sui Libri II e III del Progetto dei Lavori preparatori del cod. pen. e del cod. proc. pen. si legge: “Si è domandato da alcuno perché è stato considerato come un ipotesi di truffa il fatto di chi, con un artificio o raggiro, tende ad ingenerare nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dovere eseguire un ordine dell’Autorità, sembrando che tale fatto debba piuttosto costituire delitto di estorsione. L’osservazione non tiene presente che il Progetto si riferisce all’uso di artifici o raggiri, ossia a mezzi, che non realizzano una costrizione della volontà ma una induzione in errore, e perciò la definizione giuridica del fatto non può essere che quella di truffa”.
La ratio legis va, quindi, individuata nel fatto che il legislatore, nella sua insindacabilità, ha ritenuto che quella determinata modalità di raggiro o artifizio, fosse particolarmente pericolosa ed insidiosa e che, pertanto, meritasse di essere qualificata come una aggravante.
In altri termini, mentre il legislatore, per la truffa semplice di cui al primo comma dell’art. 640 cod. pen., si è limitato ad enunciare come elemento oggettivo del reato, “gli artifizi o raggiri”, lasciando all’interprete di stabilire, di volta in volta, se un determinato comportamento sia qualificabile come artifizio o raggiro, al contrario, ha tipizzato una particolare categoria di artifizi e raggiri, stabilendo che, appunto, quando l’agente, induce taluno in errore procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, mediante artifizi o raggiri consistenti nell’ingenerare nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, questa ipotesi dev’essere considerata aggravata.
La peculiarità dell’ipotesi in esame consiste, quindi, nella circostanza che ingenerare nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, costituisce il particolare mezzo (rectius: artifizio o raggiro) grazie al quale l’agente induce in errore la parte offesa.
I chiarimenti offerti dallo stesso Guardasigilli, non hanno però dissipato tutti i dubbi sull’individuazione della linea di demarcazione fra truffa aggravata e estorsione.
Infatti, nell’ambito della giurisprudenza di questa stessa Corte di legittimità, si registrano due opinioni.
2.1. Secondo una prima tesi, “uno dei criteri distintivi tra l’estorsione e la truffa per ingenerato timore è da ravvisare nella particolare posizione dell’agente nei rapporti con lo stato d’animo del soggetto passivo. Nella estorsione, infatti, l’agente incute direttamente od indirettamente, il timore di un danno che fa apparire certo in caso di rifiuto e proveniente da lui (o da persona a lui legata da un rapporto qualsiasi), di guisa che l’adesione della vittima è il frutto di una determinazione per volontà coartata; l’attuazione del male minacciato deve presentarsi in forma di possibilità concreta dipendente dalla volontà dell’agente o di persona legata allo stesso. Nella truffa vessatoria, invece, il danno è prospettato solo in termini di eventualità obiettiva e giammai derivante in modo diretto od indiretto dalla volontà dell’agente, di guisa che l’offeso agisce non perché coartato, ma tratto in inganno, anche se il timore contribuisce ad ingenerare l’errore nel processo formativo della volontà”: ex plurimis Cass. 5244/1975 riv 133309; Cass. 11622/1982 riv 156497; Cass. 710/1986 riv 174914; Cass. 5845/1995 riv 201333; Cass. 4180/2000 riv 215705; Cass. 29704/2003 riv 226057; Cass. 35346/2010 riv 248402; Cass. 36906/2011 riv 251149.
La suddetta opinione, quindi, individua i seguenti criteri differenziali:
a) lo stato d’animo del soggetto passivo, il quale, nell’estorsione agisce con la volontà coartata, mentre nella truffa vessatoria agisce perché tratto in inganno, sia pure attraverso l’eccitazione di un timore: Cass. 5244/1975 RV 133309;
b) la realizzazione del danno minacciato: infatti, si ha estorsione, quando il danno viene minacciato come una possibilità concreta, che dipende direttamente o indirettamente dallo stesso agente, il quale si mostra in grado di determinare, o meno, la situazione prospettata, mentre si ha truffa per ingenerato timore, quando il male rappresentato non dipende, neppure in parte dall’agente, il quale resta del tutto estraneo all’evento, artatamente rappresentato, sì che il soggetto passivo si determina all’azione versando in stato di errore: Cass. Sez. I, 6693/1979 RV 142629; Sez. II, 1616/1987 RV 175101; 5838/1995 RV 201514; 7889/1996 RV 205606.
In altri termini, la tesi illustrata, pone il baricentro del criterio distintivo fra i due reati, sul diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e sulla sua incidenza nella sfera soggettiva del soggetto passivo: ricorre la truffa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta in modo che l’offeso non è coartato nella sua volontà, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratto in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, onde l’offeso è posto nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato.
Si tratta, quindi, di una tesi che, da una parte, guarda alle modalità della condotta lesiva (nell’estorsione, il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri; nella truffa, il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta), dall’altra, all’atteggiamento psicologico della vittima (nell’estorsione, l’offeso è posto nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato; nella truffa, l’offeso non è coartato nella sua volontà, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratto in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente).
Questa tesi, poi, comporta due corollari:
a) l’indagine va effettuata ex ante e cioè al momento della consumazione del reato;
b) del sintagma “pericolo immaginario” è data un’interpretazione restrittiva. Si è, infatti, affermato che “Il significato proprio dell’aggettivo immaginario indica tutto ciò che è effetto dell’immaginazione, ossia che esiste soltanto nell’immaginazione e non ha alcun fondamento nella realtà. Di conseguenza, nell’estorsione l’agente rappresenta un pericolo dato come reale e da lui dipendente; nella truffa vessatoria l’agente crea un pericolo immaginario, costruito come fatto a sé stante separato dalle determinazioni del truffatore, tale che un comune discernimento potrebbe essere in grado di individuare come non reale. In genere, ma non necessariamente, il pericolo immaginario è correlato a forze occulte o a credenze superstiziose”: Cass. 4180/2000 riv 215705 (in motivazione).
Sulla base di questa interpretazione, pertanto, si è, sostenuto che “Integra il reato di truffa aggravata il comportamento di colui che, sfruttando la fama di mago, chiromante, occultista o guaritore, ingeneri nelle persone offese la convinzione dell’esistenza di gravi pericoli gravanti su di esse o sui loro familiari e, facendo loro credere di poter scongiurare i prospettati pericoli con i rituali magici da lui praticati, le induca in errore, così procurandosi l’ingiusto profitto consistente nell’incameramento delle somme di denaro elargitegli con correlativo danno per le medesime”: Cass. 5265/1996 riv 205106; Cass. 1862/2005 riv 233361; Cass. 1910/2004 riv 230694; Cass. 26107/2003 riv 225872; Cass. 42445/2012 riv 253647.
Al contrario, integra il reato di estorsione, a nulla rilevando che la minaccia, se credibile, non sia concretamente attuabile:
– la richiesta di una somma di danaro per la restituzione di un motociclo rubato formulata da un soggetto che aveva tratto in inganno il derubato falsamente affermando di avere la disponibilità del mezzo: Cass. 7889/1996 riv 205606;
– il caso in cui l’agente, falsamente qualificandosi come vigile urbano, si era fatto corrispondere una somma di denaro dal proprietario di un immobile minacciando di sospendere l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione che ivi si svolgevano: Cass. 4180/2000 riv 215705;
– il caso in cui gli imputati si fecero consegnare varie somme da due extracomunitari, con la minaccia di sottoporli, simulando la qualità di agenti della P.S., a controlli amministrativi e di verificare l’addotta provenienza delittuosa del denaro posseduto dai predetti: Cass. 35346/2010 riv 248402;
– la condotta di colui che con l’esibizione di un (falso) tesserino USL costringa due ristoratori ad acquistare merce onde scongiurare future ispezioni, in quanto il male ingiusto è prospettato tramite una minaccia e non attraverso un inganno: Cass. 36906/2011 riv 251149.
2.2. La seconda tesi, invece, giunge, in fattispecie simili, ad opposta conclusione ritenendo che il criterio distintivo fra i due reati debba essere di natura oggettiva in quanto ciò che rileva è solo il mezzo utilizzato (ossia gli artifizi e raggiri) e non gli effetti che i medesimi hanno sulla volontà della vittima.
Si è, infatti, sostenuto che “mentre gli elementi caratterizzanti la condotta estorsiva sono la violenza e la minaccia, quelli qualificanti il comportamento truffaldino – anche nell’ipotesi aggravata della prospettazione del “pericolo immaginario” – sono, pur sempre, gli artifizi e raggiri: in quest’ultima ipotesi infatti la minaccia, poiché riguarda un male non reale, ma immaginario, assume i contorni dell’inganno perché contribuisce alla induzione in errore della parte offesa del reato attraverso la prospettazione del falso pericolo”: nella specie, è stato ritenuto configurabile il reato di truffa nel fatto di un soggetto che, spacciandosi per ufficiale della guardia di finanza, aveva richiesto ed ottenuto una somma di danaro per non procedere ad una verifica fiscale: Cass. 8456/1995 riv 202347; Cass. 8974/1996 riv 206281 secondo la quale il ventilato asporto dei beni mobili dall’abitazione prospettato da soggetti falsamente qualificatisi come ufficiali giudiziari, in quanto deve escludersi il carattere “immaginario” del male così minacciato, risultando il predetto asporto consentito dalla normativa di cui agli artt. 520 e 521 cod. proc. civ., i quali espressamente prevedono che ai fini della conservazione delle cose pignorate l’ufficiale giudiziario autorizza il custode a trasportarle altrove; Cass. 28390/2013 riv 256459 secondo la quale “integra gli estremi del delitto di truffa, e non di estorsione, la condotta di chi, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, rappresenti falsamente alla vittima un pericolo immaginario proveniente da terzi, in sé non ingiusto ma anzi astrattamente legittimo (nella specie, la possibile revoca della pensione da parte dell’INPS ed il mancato pagamento degli arretrati), e si offra di adoperarsi per evitargli tale conseguenza in cambio di denaro”.
2.3. Questa Corte ritiene di aderire a quest’ultimo orientamento per le ragioni di seguito indicate.
Il punto di partenza non può che essere l’esegesi della norma.
Ora, in ordine al significato da attribuire al sintagma “pericolo immaginario”, si può pienamente concordare con quanto si è sostenuto nella giurisprudenza di questa Corte e cioè che la nozione di “pericolo immaginario” corrisponde a quella di “pericolo inesistente” (Cass. 8974/1996 cit.), ovvero a tutto ciò che è effetto dell’immaginazione, ossia che esiste soltanto nell’immaginazione e non ha alcun fondamento nella realtà (Cass. 4180/2000 cit.).
La norma, però, qui si arresta e non dice – neppure per implicito -quello che le si vuoi far dire e cioè che la configurabilità del reato dipende dall’atteggiamento psicologico della vittima e che, per essere la truffa aggravata il danno prospettato non deve mai provenire direttamente o indirettamente dall’imputato.
In realtà, a ben vedere, questa concezione soggettiva e psicologica, non solo urta contro la lapidaria ed asettica formulazione della norma, ma anche contro la ratio legis ben evidenziata dal Guardasigilli che, a fronte delle medesime obiezioni, si limitò a rilevare che la differenza fra il reato di truffa aggravata e l’estorsione consisteva in un dato puramente oggettivo e cioè “nell’uso di artifici o raggiri, ossia a mezzi, che non realizzano una costrizione della volontà ma una induzione in errore”.
In secondo luogo, è proprio sul piano fattuale, che la tesi qui non condivisa, mostra tutti i suoi limiti rendendo inafferrabile, in concreto, la differenza fra i due reati.
Infatti, se è vero – come pure sostiene la tesi contraria – che il “pericolo immaginario” è sia il pericolo oggettivamente inesistente sia quello frutto della mera immaginazione, è allora evidente che tale indagine non può essere effettuata ex ante (ossia dal punto di vista della parte offesa nel momento in cui resta vittima del reato) per la semplice ed ovvia ragione che, nel momento in cui il reato si consuma, la vittima in tanto è indotta in errore in quanto, per effetto di quella particolare forma di raggiro o artifizio prevista dall’art. 640/2 n. 2 cod. pen., crede effettivamente e realmente che l’agente (direttamente o indirettamente non importa) sia in grado di realizzare il pericolo (immaginario) prospettatole perché, se così non fosse (e cioè se si accorgesse che il pericolo è, appunto “immaginario” o inesistente in quanto l’agente non è in grado di realizzarlo), è chiaro che non cadrebbe nella rete truffaldina tesagli dall’agente.
È evidente, allora, che l’indagine sul “pericolo immaginario” va condotta ex post, sia perché non vi è motivo di discostarsi dall’insegnamento tradizionale secondo il quale l’induzione in errore va giudicata ex post (in terminis Cass. 26107/2003 riv 225872, in motivazione), sia perché questo è il solo metodo che consente, in modo oggettivo, di valutare se il fatto addebitato all’imputato sia sussumibile nell’ambito della truffa aggravata ovvero dell’estorsione secondo il tradizionale criterio distintivo dei raggiri o artifizi (truffa) o della violenza o minaccia (estorsione).
In altri termini, l’atteggiamento psicologico della vittima a fronte del “pericolo immaginario” (che può essere indotto anche con minacce) prospettato dall’agente, è identico sia che si tratti di estorsione che di truffa aggravata proprio perché, per la vittima, la minaccia prospettatagli dall’agente è come se fosse reale ed attuabile da parte dello stesso agente direttamente o indirettamente: la volontà della vittima, cioè, ove valutata ex ante, risulta sempre, per assioma, coartata perché si trova di fronte ad una minaccia che egli crede seria proprio perché, è perfettamente identica sia che si tratti di estorsione che di truffa.
La vittima, invero, proprio a causa del raggiro, pensa di trovarsi di fronte ad una richiesta estorsiva essendole del tutto indifferente che il male minacciato (rectius: il pericolo immaginario) sia attuabile dall’agente direttamente o indirettamente: la truffa, infatti, consiste proprio nella simulazione, da parte dell’agente, di un’estorsione.
Solo successivamente, con valutazione ex post, invece, si può verificare se la minaccia era immaginaria (inesistente) in quanto l’agente, né direttamente né indirettamente, era in grado di realizzarla, ovvero, era reale perché l’agente, ove la vittima non avesse ceduto alla richiesta minatoria, era in grado – direttamente o indirettamente – di attuarla.
È chiaro, poi, che seguendo l’avversa tesi, si finirebbe per svuotare, per gran parte, il campo di applicazione dell’art. 640/2 n. 2 cod. pen. che, in pratica, rimarrebbe confinato ai residuali casi in cui l’agente (mago, fattucchiere e simili) prospetti mali immaginari dipendenti da forze esterne ed occulte (quindi indipendenti dalla volontà dell’agente) sulle quali egli, dietro compenso, può intervenire.
Ma la norma non consente una tale soluzione per la semplice ragione che quel tipo particolare di pericolo immaginario indotto da abili truffatori (maghi, chiromanti et similia) è solo una delle modalità con le quali può realizzarsi la truffa.
Non senza considerare che il suddetto approdo ermeneutico, non appare coerente con la definizione che quella stessa giurisprudenza ha dato del sintagma pericolo immaginario ossia pericolo inesistente ovvero frutto dell’immaginazione, “in genere, ma non necessariamente, correlato a forze occulte o a credenze superstiziose”.
In conclusione, il problema interpretativo che pone la norma in esame, può essere racchiuso nel seguente quesito: l’agente dev’essere sanzionato per ciò che ha progettato e realizzato (truffa) o per quello che appare alla vittima (estorsione)?
La risposta, ad avviso di questa Corte, non può che essere nel senso del primo corno del dilemma perché è l’unica interpretazione che appare conforme al principio di legalità di cui all’art. 1 cod. pen. a norma del quale l’agente va sanzionato per il reato che ha commesso (nella specie: la truffa che simula un’estorsione) e non per quello che non ha mai commesso né intendeva commettere ma che la parte offesa credeva essere stato perpetrato nei propri confronti (l’estorsione) e di cui è rimasta vittima.
Pertanto, nel caso di specie, il reato di estorsione va riqualificato come truffa aggravata alla stregua del seguente principio di diritto: “il criterio differenziale fra il delitto di truffa aggravato dall’ingenerato timore di un pericolo immaginario e quello di estorsione, risiede solo ed esclusivamente nell’elemento oggettivo: si ha truffa aggravata quando il danno immaginario viene indotto nella persona offesa tramite raggiri o artifizi; si ha estorsione, invece, quando il danno è certo e sicuro ad opera del reo o di altri ove la vittima non ceda alla richiesta minatoria.
La vantazione circa la sussistenza del danno immaginario (e, quindi, del reato di truffa aggravata) o del danno reale (e, quindi, del reato di estorsione) va effettuata ex post e non ex ante essendo irrilevante ogni valutazione in ordine alla provenienza del danno prospettato ovvero allo stato soggettivo della persona offesa.
Pertanto, risponde del reato di truffa aggravata e non di estorsione, chi, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, spacciandosi alla parte offesa come un agente di polizia in borghese ed esibendo un falso distintivo, dopo averla inseguita e fermata con la minaccia di elevare verbale di contravvenzione per un importo di 1.300,00 Euro, lo induce a consegnargli la minor somma di Euro 500,00”.
3. violazione dell’art. 61 n. 5 cod. pen.: la censura è fondata in quanto, a fronte di uno specifico motivo di appello (cfr pag. 10 ss dell’atto di appello) la Corte ha omesso ogni motivazione.
4. violazione dell’art. 62 bis cod. pen. la censura deve ritenersi assorbita. Infatti, la Corte territoriale, nel giudizio di rinvio, anche alla stregua della diversa qualificazione giuridica del fatto, rivaluterà la richiesta di concessione della suddetta attenuante.
5. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto e alla sussistenza o meno dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 cod. pen.: resta ferma, invece, la penale responsabilità per il reato di cui al capo sub b).
Di conseguenza, in sede di rinvio, la Corte territoriale – valutata nuovamente la richiesta di applicazione delle attenuanti generiche, e verificata la configurabilità o meno dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 cod. pen. – provvederà alla sola rideterminazione della pena per i reati di cui agli artt. 640/2 n. 2 (capo sub a, così come riqualificato) e 347 – 61 n. 2 cod. pen. (capo sub b) la cui penale responsabilità, in capo al ricorrente, deve ritenersi definitivamente accertata.
P.Q.M.
Qualificato il reato di cui al capo sub a) dell’imputazione come truffa aggravata ex art. 640/2 n. 2 cod. pen. annulla la sentenza impugnata limitatamente all’omessa motivazione sull’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 cod. pen. con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo giudizio sul predetto punto e per la rideterminazione della pena RIGETTA nel resto.
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